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Il mare, S. Weil 1941


Mare docile al freno, sottomesso in silenzio,
Mare sparso, flutti per sempre incatenati,
Massa offerta al cielo, specchio d’obbedienza;
Vi tesse ogni notte nuove pieghe
La lontana potenza degli astri.
Quando il mattino colma l’intero spazio
Lo accoglie rendendo la luce in dono.
Un lampo leggero si posa in superficie.
Si stende in attesa e senza desiderio
Sotto il giorno che cresce, risplende e dilegua.
Di riflessi serali luccicherà improvvisa
L’ala sospesa tra il cielo e l’acqua.
I flutti oscillanti e fermi,
Dove ogni goccia sale e ridiscende,
Restano in basso per sovrano decreto.
Bilancia dai segreti bracci d’acqua trasparente
Trova in sé la misura, e schiuma, e ferro,
Giustizia invisibile per ogni barca errante.
Sullo scafo un filo azzurro traccia rapporti
Senza errore alcuno nella riga apparente.
Mare immenso, sii propizio agli infelici mortali,
Stretti ai tuoi bordi, persi sul tuo deserto.
A colui che affonda parla prima che muoia.
Entra nell’anima, o nostro fratello mare;
Donale la purezza delle tue acque giuste.


LA MER

Mer docile au frein, mer soumise en silence,
Mer éparse, aux flots enchaînés pour toujours,
Masse offerte au ciel, miroir d’obéissance ;
Pour y tisser chaque nuit des plis nouveaux,
Les astres au loin sans effort ont puissance.

Lorsque le matin vient combler tout l’espace,
Elle accueille et rend le don de la clarté.
Un éclat léger se pose à la surface.
Elle s’étend dans l’attente et sans désir,
Sous le jour qui croît, resplendit et s’efface.

Les reflets du soir feront luire soudaine
L’aile suspendue entre le ciel et l’eau.
Les flots oscillants et fixés à la plaine,
Où chaque goutte à son tour monte et descend,
Demeurent en bas par la loi souveraine.

La balance aux bras secrets d’eau transparente
Se pèse elle-même, et l’écume, et le fer,
Juste sans témoin pour chaque barque errante.
Sur le navire un fil bleu trace un rapport,
Sans aucune erreur dans sa ligne apparente.


Mer vaste, aux mortels malheureux sois propice,
Pressés sur tes bords, perdus sur ton désert.
À qui va sombrer parle avant qu’il périsse.
Entre jusqu’à l’âme, ô notre sœur la mer ;
Daigne la laver dans tes eaux de justice.

S. Weil, Poesie, a cura di Roberto Carifi, 1993 Casa Editrice Le Lettere, Firenze

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Poesia

Il cimitero marino – P. Valery

(…) Sì! Grande mare di deliri dotato,

Pelle di pantera e clamide bucato,

Di mille e mille idoli solari,

Idra assoluta, ebbra della tua carne azzurra,

Che ti mordi la coda scintillante,

In un tumulto che è come il silenzio,

S’alza il vento! …. Bisogna tentare di vivere !

L’aria immensa apre e richiude il mio libro,

L’onda poderosa osa rompere gli scogli !

Volatevene via, pagine abbaglianti !

Irrompete, onde! Rompete d’acque liete !

Quel riparo tranquillo dove i fiocchi picchiettavano!

——

(…) Oui ! Grande mer de délires douée,

Peau de panthère et chlamyde trouée,

De mille et mille idoles du soleil,

Hydre absolue, ivre de ta chair bleue,

Qui te remords l’étincelante queue

Dans un tumulte au silence pareil,

Le vent se lève !… Il faut tenter de vivre !

L’air immense ouvre et referme mon livre,

La vague en poudre ose jaillir des rocs !

Envolez-vous, pages tout éblouies !

Rompez, vagues ! Rompez d’eaux réjouies

Ce toit tranquille où picoraient des focs !

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Attualità

Vivi nascosto: i fatti del mondo e l’inclemenza del tempo.

Le prime tre proposizioni del Trattato di Wittgenstein assegnano ai fatti la realtà del mondo: Il mondo è tutto ciò che accade. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. Il mondo è determinato dai fatti e dal loro essere tutti i fatti. Insomma Wittgenstein oggettivizza il mondo. Secondo queste riflessioni che tipo di mondo sarebbe il nostro? L’estetica del malessere è un diverso termine per qualificare la realtà contemporanea, ineffabile e innominabile attuale disse Calasso. Il fallimento di Heidegger che tentò di nobilitare l’essere-nel-mondo , con la fenomenologia dell’esserci, l’analitica esistenziale di Essere e tempo, con il risultato che il dasein è così banale e mediocre da ridurre la filosofia al quotidiano disagio del vivere. Angoscia, nulla, morte. La banalità del reale. Al dasein si aggiunge la filosofia dell’assurdo di Rensi, filosofo veronese, cioè la constatazione che l’assurdo regna nella realtà e nelle menti ed è fondamento della religione. Ontologia e pessisimo come metro paradigmatico, anche il comico come essenza del tragico di Ionesco definisce bene il presente. Il rimedio forse è rifugiarsi dall’inclemenza del tempo, che fu la scappatoia realista prospettata da Gomez Davila. Del resto già il neopitagorico Apollonio di Tiana suggeriva di vivere nascosti.

«La dispersione scolastica implicita, cioè l’incapacità di un ragazzo/a di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51%

Nel corso della sua presentazione Tesauro ha affermato che in Italia esiste «una crudele ingiustizia generazionale perché la crisi ha colpito proprio i bambini. Non solo 1.384 mila bambini in povertà assoluta (il dato più alto degli ultimi 15 anni) ma un bambino in Italia oggi ha il doppio delle probabilità di vivere in povertà assoluta rispetto ad un adulto, il triplo delle probabilità rispetto a chi ha più di 65 anni». ll presidente di Save The Children ha ricordato inoltre, che «più di due milioni di giovani, ovvero 1 giovane su cinque fra i 15 e i 29 anni, è fuori da ogni percorso di scuola, formazione e lavoro. In sei regioni, il numero dei ragazzi e delle ragazze Neet (acronimo di «not in employment, education or training», ndr) ha già superato il numero dei ragazzi, della stessa fascia di età, inseriti nel mondo del lavoro. In Sicilia, Campania, Calabria per 2 giovani occupati ce ne sono altri 3 che sono fuori dal lavoro, dalla formazione e dallo studio. Dati che – ha sottolineato – fanno a pugni con la richiesta del mondo produttivo».

https://www.corriere.it/scuola/secondaria/22_maggio_19/save-the-children-un-15enne-due-non-capisce-quello-che-legge

Incomprensioni russe

Esattamente un secolo fa, nel 1922, Il’in, Berdjaev e molti altri membri dell’intellighenzia che Lenin non riusciva a sradicare del tutto (ma che non poteva nemmeno far rimanere in Russia) furono mandati in esilio a bordo delle “navi dei filosofi”, per essere poi lasciati in Europa. Il’in divenne il portavoce del popolo russo bianco emigrato. Era legato a un gruppo di pensatori dell’epoca conosciuti come “eurasiatisti” – l’idea risale a qualche anno prima – e credeva come loro che l’Unione sovietica non sarebbe durata a lungo. Nel 1950 scrisse il saggio What the Dismemberment of Russia Will Mean to the World (“Cosa comporterà lo smembramento della Russia per il mondo”), in cui spiegava cosa sarebbe successo quando l’esperimento marxista fosse fallito. Il’in Ilyin sosteneva che la Russia non fosse uno Stato-nazione come quelli occidentali: per lui era una specie di organismo, un’unità mistica sovrastorica, un po’ come il Volk tedesco ma con un’impronta più cristiana. Quando l’Unione sovietica sarebbe crollata, quest’unità organica sarebbe stata smembrata in altre entità più piccole, separate e indipendenti, che sarebbero state poi assorbite dall’Occidente, neutralizzando così la potenza russa – cosa che, secondo Il’in, l’Occidente ha sempre voluto fare (Il’in è una importante fonte per chi sostiene l’esistenza di una russofobia in Occidente).

Linguaggio a vanvera

Il linguaggio divisivo che sperimentiamo lo è anche per la sua mancanza di rispetto e per la sparizione del dialogo. Un linguaggio che esprime la furia di tutti contro tutti, che racconta l’impotenza di chi sta male e vorrebbe fare qualcosa per stare meglio ma si rende conto della propria inutilità, scarsa autostima e impossibilità di cambiare le proprie condizioni materiali di esistenza. Senza rispetto è anche il linguaggio televisivo di molti talk show, costruiti con ostentazione per élite benpensanti, a tratti intimidatori e linguisticamente manipolatori. In mancanza di rispetto e diventati abili nel praticare la brutalità del linguaggio siamo sempre pronti a scontri improvvisi, a comportamenti aggressivi, espressione di una indifferenza crescente verso gli altri, di tensione diffusa ma soprattutto di instabilità e malessere psichico dalle conseguenze imprevedibili.

https://www.linkedin.com/pulse/il-mondo-divisodal-linguaggio-carlo-mazzucchelli

Antropologia digitale

“Stai cucinando il pollo ascoltando Lou Reed che hai scaricato da un’App on line e la ricetta è sull’Ipad.”

Luciano Floridi a #Maestri – Come l’infosfera sta cambiando il mondo

https://www.raiscuola.rai.it/scienzesociali/articoli/2021/11/Luciano-Floridi-a-Maestri

Il filologo tedesco in spiaggia

Il Comune di Atrani e il famoso filologo tedesco Dieter Richter litigano per un lettino in spiaggia. Uno scontro iniziato sul bagnasciuga e poi culminato online con post e comunicati. Tutto inizia quando lo studioso denunciato via internet di essere stato «discriminato» perché gli sarebbe stato rifiutato di accedere in spiaggia prendendo un solo lettino («o due a 35 euro o niente»).

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/22_giugno

C’è confusione.

Tuteliamo le minoranze e la libertà, al tempo stesso il “politicamente corretto” a tratti sfocia in una censura castrante per la stessa libertà (vedi il sensitivity reader nella narrativa): come vive questa contraddizione?

«Malissimo. Non siamo affatto liberi, c’è confusione su questo. Giorni fa studenti Lgbtq+ sventolando la bandiera della Palestina dicevano: “Siamo a favore di voi fratelli musulmani”. Quando hanno capito che in quei Paesi gli omosessuali sono puniti con 30 anni di prigione, allora hanno corretto il tiro: “Ah ok, ora sappiamo come stanno le cose, ma siamo ancora con voi”».

Estratto dell’articolo di Miriam Massone per “la Stampa” Bret Easton Ellis 21.10.23

«Dipende dal contesto»

Il loro credo fondamentale è questo: poiché gli Stati Uniti dalla loro fondazione sono una società intrinsecamente sessista, razzista, xenofoba, oggi non si può perseguire una «parità dei diritti» perché sarebbe fasulla; bisogna invece ridurre i diritti dell’America privilegiata e oppressiva (i bianchi) per riparare le ingiustizie. Togliere il diritto di parola a chi non difende attivamente le minoranze è sacrosanto. Si instaura una piramide di caste rovesciata, in cui gli ex-ultimi devono essere sistematicamente i primi. Diversità, Equità, Inclusione sono i principi con cui si nobilitano le nuove discriminazioni. Il vittimismo diventa il criterio ispiratore della vita sociale. Chiunque dissente è una minaccia per i diritti degli oppressi, va zittito, neutralizzato.

F Rampini, La capa di Harvard salvata in nome della libertà di espressione (che le università Usa ostacolano). Corriere della sera. 12.12.23

Pornografia della vulnerabilità.

“Come non amare la plasticità dell’inglese – sadfishing (…) È perché la sensatezza non fa grandi clic. Non quanti ne fa l’emotività, il sentimentalismo, il melodramma, il dirsi fragili, il dare la colpa agli altri, e soprattutto il format del secolo: accendere la telecamera del telefono, e piangere.” Sadfishing, posting sad content online to garner sympathy. Postare contenuti tristi per provocare solidarietà. ( Guia Soncini, Non ci resta che piangere La pornografia della vulnerabità, e altre lagne con telecamera, 6 marzo 24)

Coca e Fernet. “In Argentina lo danno ai cavalli”. Orgoglio milanese.

“ … in Argentina l’abbinamento con la Coca Cola è diventato una sorta di bevanda nazionale. Ho scoperto anche una serie di usi diversi del nostro amaro, come nel caso di un consorzio agrario in cui vendevano il Fernet per integrare l’alimentazione di mucche e cavalli. Dicevano che, miscelato con erba e fieno, serviva a mantenere in buon ordine lo stomaco degli animali».

https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/24_marzo_21

Stefano Lorenzetto per “OGGI”

Roma

Il Mercury, cinema a luci rosse, si trovava a 700 metri dalla basilica di San Pietro, in via Porta di Castello 44. «Proprietario dei muri era il Vaticano. Sul finire degli anni Ottanta, con l’arrivo delle videocassette, andò in crisi. Fu trasformato nel Muccassassina, il locale notturno più trasgressivo della Capitale: frocioni, drag queen, dark room, Cicciolina e la ventenne Vladimir Luxuria a fare da buttadentro», racconta Roberto D’Agostino.

https://www.dagospia.com/rubrica-29/

Padri filosofi

«Prima del ‘68 vivevamo nell’età della disciplina, il messaggio della famiglia coincideva con quello della società: se vuoi raggiungere i tuoi obiettivi lavora e sacrìficati. Dopo il ’68 questa società si è smobilitata per un anelito di libertà: il motto era Vietato vietare! Poi, su questa componente si è inserita l’importazione della cultura americana che richiedeva autoaffermazione e performance spinta. La cultura americana e la cultura del ‘68 sono confluite: le regole possono ammettere tranquillamente le deroghe, però dal lunedì al venerdì tu devi funzionare a livello di performance, competenza, velocizzazione del tempo, il sabato e domenica fai quello che vuoi».

https://www.corriere.it/sette/attualita/24_marzo_23

Img: 2012-D-G-Bandion

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Attualità

Il Giorno del Ricordo 2004 – 2024

Attraverso i testi della Presidenza della Repubblica italiana, un modo per ricordare i vent’anni dell’istituzione del Giorno del Ricordo il 10 febbraio. Data simbolo della firma del Trattato di Pace di Parigi, monito e memoria, che sancì la perdita delle terre adriatiche.

La Repubblica italiana riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.

2005

Un lungo messaggio, quello diffuso dal Quirinale, con il quale Carlo Azeglio Ciampi esprime il proprio apprezzamento nei confronti della “Giornata del ricordo”, e rivolge il proprio pensiero “a coloro che perirono in condizioni atroci nelle foibe”, “alle sofferenze di quanti si videro costretti ad abbandonare per sempre le loro case in Istria e in Dalmazia”. Avvenimenti, afferma il Capo dello Stato, che “formano parte integrante della nostra vicenda nazionale, devono essere radicati nella nostra memoria, ricordati e spiegati alle nuove generazioni” .«La ricostruzione e la rinascita della nuova Italia – ha detto ancora Ciampi – costarono sacrifici grandissimi. In particolare, gli italiani delle terre d’Istria e di Dalmazia furono colpiti da una violenza cieca ed esecranda e dalla sventura di dover abbandonare case e luoghi familiari».

2007

Il dramma del popolo giuliano-dalmata fu scatenato «da un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenendo nel Giorno del ricordo. «Oggi che in Italia abbiamo posto fine ad un non giustificabile silenzio, e che siamo impegnati in Europa a riconoscere nella Slovenia un’amichevole partner e nella Croazia un nuovo candidato all’ingresso nell’Unione – ha sottolineato il capo dello Stato -, dobbiamo tuttavia ripetere con forza che dovunque, in seno al popolo italiano come nei rapporti tra i popoli, parte della riconciliazione, che fermamente vogliano, è la verità. È quello del Giorno del Ricordo è precisamente un solenne impegno di ristabilimento della verità».

2008

Giorgio Napolitano: “Oggi, le ferite lasciate da quei terribili anni si sono rimarginate in un’Europa pacifica, unita, dinamica; un’Europa consapevole che gli elementi che la uniscono sono infinitamente più forti di quelli che l’hanno divisa o possono dividerla; un’Europa che, grazie alla cultura della pace e dell’operosa convivenza civile, è riuscita a prosperare come nessun’altra regione al mondo. Eppure, questa stessa Europa ha visto i Paesi dei Balcani, parte integrante della propria storia e della propria identità, divenire teatro ancora pochi anni fa di conflitti sanguinosi, che hanno lacerato Stati, comunità, famiglie, in un cupo ritorno all’orrore del passato.

Sia dunque questo il monito del Giorno del Ricordo: se le ragioni dell’unità non prevarranno su quelle della discordia, se il dialogo non prevarrà sul pregiudizio, niente di quello che abbiamo faticosamente costruito può essere considerato per sempre acquisito. E a subirne l’oltraggio sarebbe in primo luogo la memoria delle vittime delle tragedie che ricordiamo oggi e il cui sacrificio si rivelerebbe vano. Dimostriamo dunque nei fatti che quegli Italiani che oggi onoriamo non sono dimenticati, e che il dolore di tanti non è stato sprecato; dimostriamo di aver appreso tutti la lezione della storia, e di voler contribuire allo sviluppo di rapporti di piena comprensione reciproca e feconda collaborazione con paesi e popoli che hanno raggiunto o tendono a raggiungere la grande famiglia dell’Unione Europea.”

2019

“Un capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenza e spargimento di sangue innocente. Mentre, infatti, sul territorio italiano la conclusione del conflitto contro i nazifascisti sanciva la fine dell’oppressione – ha detto ancora il capo dello Stato – e il graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli Italiani nelle zone occupate dalle truppe jugoslave”. “Non si trattò – come qualche storico negazionista o riduzionista ha provato a insinuare – di una ritorsione contro i torti del fascismo. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni. Solo dopo la caduta del muro di Berlino – il più vistoso, ma purtroppo non l’unico simbolo della divisione europea – una paziente e coraggiosa opera di ricerca storiografica, non senza vani e inaccettabili tentativi di delegittimazione, ha fatto piena luce sulla tragedia delle foibe e del successivo esodo – ha detto il capo dello Stato -, restituendo questa pagina strappata alla storia e all’identità della nazione”.

2020

Mattarella: ”Una tragedia provocata da una pianificata volontà di epurazione su base etnica e nazionalistica. Le foibe, con il loro carico di morte, di crudeltà inaudite, di violenza ingiustificata e ingiustificabile, sono il simbolo tragico di un capitolo di storia, ancora poco conosciuto e talvolta addirittura incompreso, che racconta la grande sofferenza delle popolazioni istriane, fiumane, dalmate e giuliane. Alla durissima occupazione nazi-fascista di queste terre, nelle quali un tempo convivevano popoli, culture, religioni diverse, seguì la violenza del comunismo titino, che scatenò su italiani inermi la rappresaglia, per un tempo molto lungo: dal 1943 al 1945. Le stragi, le violenze, le sofferenze patite dagli esuli giuliani, istriani, fiumani e dalmati non possono essere dimenticate, sminuite o rimosse. Esse fanno parte, a pieno titolo, della storia nazionale e ne rappresentano un capitolo incancellabile, che ci ammonisce sui gravissimi rischi del nazionalismo estremo, dell’odio etnico, della violenza ideologica eretta a sistema ».

2022

Sergio Mattarella. «Il Giorno del Ricordo richiama la Repubblica al raccoglimento e alla solidarietà con i familiari e i discendenti di quanti vennero uccisi con crudeltà e gettati nelle foibe, degli italiani strappati alle loro case e costretti all’esodo, di tutti coloro che al confine orientale dovettero pagare i costi umani più alti agli orrori della Seconda guerra mondiale e al suo prolungamento nella persecuzione, nel nazionalismo violento, nel totalitarismo oppressivo. È un impegno di civiltà conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli istriani, dei fiumani, dei dalmati e degli altri italiani che avevano radici in quelle terre, così ricche di cultura e storia e così macchiate di sangue innocente. I sopravvissuti e gli esuli, insieme alle loro famiglie, hanno tardato a veder riconosciuta la verità delle loro sofferenze. Una ferita che si è aggiunta alle altre.

2023

Sergio Mattarella. Siamo oggi qui, al Quirinale, per rendere onore a quelle vittime e, con loro, a tutte le vittime innocenti dei conflitti etnici e ideologici. Per restituire dignità e rispetto alle sofferenze di tanti nostri concittadini. Sofferenze acuite dall’indifferenza avvertita da molti dei trecentocinquantamila italiani dell’esodo, in fuga dalle loro case, che non sempre trovarono rispetto e solidarietà in maniera adeguata nella madrepatria. Furono sovente ignorati, guardati con sospetto, posti in campi poco dignitosi. Tra la soggezione alla dittatura comunista e il destino, amaro, dell’esilio, della perdita della casa, delle proprie radici, delle attività economiche, questi italiani compirono la scelta giusta. La scelta della libertà. Ma nelle difficoltà dell’immediato dopoguerra e nel clima della guerra fredda e dello scontro ideologico, che in Italia contrapponeva fautori dell’Occidente e sostenitori dello stalinismo, non furono compresi e incontrarono ostacoli ingiustificabili. Grazie al coraggio, all’azione instancabile e a volte faticosa delle associazioni degli esuli istriani, dalmati e della Venezia Giulia, il tema delle foibe e dell’esodo è oggi largamente conosciuto dalla pubblica opinione, è studiato nelle scuole, dibattuto sui giornali. Le sofferenze subite dai nostri esuli, dalle popolazioni di confine, non sono, non possono essere motivo di divisione nella nostra comunità nazionale. Al contrario, richiamo di unità nel ricordo, nella solidarietà, nel sostegno. Ribadendo lo stupore e la condanna per inammissibili tentativi di negazionismo e di giustificazionismo, segnalo che il rischio più grave di fronte alle tragedie dell’umanità non è il confronto delle idee, anche tra quelle estreme, ma l’indifferenza che genera rimozione e oblio.

2024

«Le sofferenze» degli italiani d’Istria, Dalmazia e Fiume «non furono, per un lungo periodo, riconosciute. Un inaccettabile stravolgimento della verità che spingeva a trasformare tutte le vittime di quelle stragi e i profughi dell’esodo forzato, in colpevoli – accusati indistintamente di complicità e connivenze con la dittatura – e a rimuovere, fin quasi a espellerla, la drammatica vicenda di quegli italiani dal tessuto e dalla storia nazionale», lo ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante la celebrazione del «Giorno del Ricordo», al Quirinale. E ha precisato: «Un muro di silenzio e di oblio – un misto di imbarazzo, di opportunismo politico e talvolta di grave superficialità – si formò intorno alle terribili sofferenze di migliaia di italiani, massacrati nelle foibe o inghiottiti nei campi di concentramento, sospinti in massa ad abbandonare le loro case, i loro averi, i loro ricordi, le loro speranze, le terre dove avevano vissuto, di fronte alla minaccia dell’imprigionamento se non dell’eliminazione fisica».«I tentativi di oblio, di negazione o di minimizzare sono un affronto alle vittime e alle loro famiglie e un danno inestimabile per la coscienza collettiva di un popolo e di una nazione». «La ferocia che si scatenò contro gli italiani in quelle zone non può essere derubricata sotto la voce di atti, comunque ignobili, di vendetta o giustizia sommaria contro i fascisti occupanti». ha aggiunto Mattarella.

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Filosofia

La filosofia spiegata ai giovani, di S. Zampieri.

Ancora una volta Stefano Zampieri riesce a farci scorgere a intravedere – oltre che suggestionare con una scrittura chiara e scorrevole – quanto e come la filosofia è necessaria alla nostra vita quotidiana e in quali infinite forme ci può aiutare a condurre una vita pensata, degna di essere vissuta.

In questo suo ultimo testo l’autore lo fa proponendo una sorta di mappa, un percorso con coordinate filosofiche che offre, anche a chi non ha studiato filosofia, l’opportunità di riflettere e ritrovarsi nel personale percorso di costruzione esistenziale, attraverso un’esplorazione fenomenologica dell’essere nel mondo che tutti ci coinvolge.

Nel suo nuovo testo “La filosofia spiegata ai giovani” – un titolo a prima vista “furbo” editorialmente ma che a libro letto risulta coerente e azzeccato secondo il contenuto – Zampieri colpisce, tra le diverse tematiche che affronta, per due di esse in particolare.

Una è la prima parte del testo “Il discorso filosofico” che inizia con la domanda Che cos’è la filosofia? Di questi tempi se c’è una cosa che è poco chiara e confusa è proprio la risposta a questa domanda, perché negli ultimi 40 anni almeno la filosofia ha visto cambiare il proprio modo di intendersi, proporsi e di essere percepita. Essa, da disciplina storiografica scolastica e specialistica frequentata da studiosi e accademici, è ritornata ad essere in realtà molto di più. Essa è infatti, e Zampieri lo mostra bene, discorso, tradizione, scuola ma soprattutto gesto che nasce dalla meraviglia, con Platone e Aristotele inevitabili riferimenti. La filosofia “strappa le cose all’indifferenza” allo sguardo abitudinario, richiede un passo indietro che permette di capire, comprendere, e “vedere” meglio. E’ razionalità e interrogazione comune. La filosofia perciò è ben altro che la storia della filosofia o solo questa o quella corrente o esclusivamente questo o quel filosofo. Soprattutto la filosofia è oggi possibile attraverso le diverse pratiche che la vedono dispiegarsi, quella accademica, la ricerca, le pratiche filosofiche, la divulgazione, il digitale. La filosofia è stile di vita.

In queste prime venticinque pagine, che lascio al lettore il gusto di scoprire, trova una spiegazione approfondita anche il sottotitolo del testo “Come costruire la propria esistenza e orientarsi nella vita.” La filosofia infatti ci mette sulla strada e tocca a noi scegliere la direzione, lo fa attraverso il dialogo che ci consente di vedere l’invisibile e identificare i punti di riferimento per orientarci. In poche pagine e con un lessico limpido Zampieri riesce a dire cosa fa la filosofia. Non dice cosa non è, cosa non fa, cosa non può. Dice cosa è e cosa fa. 

La seconda cosa che colpisce in questo libro di Zampieri sono i tre capitoli finali della seconda parte, “La filosofia ti dice chi sei.” In particolare quelli riguardanti i concetti di Riferimento, Espressione e Riconoscimento. Nonostante l’usurpazione invasiva dell’onnipresente psicologia nei mass media talvolta la filosofia riesce a ripristinare la sua preminenza, soprattutto dove è legittima ovvero nel mondo delle relazioni, dell’identità e delle scelte individuali. Così è per questi brani di Zampieri.

Che cosa ha davvero valore? C’è una domanda più filosofica di questa? Cosa ci aiuta a scegliere, decidere, se non i nostri punti di riferimento cioè quei valori che si dice si siano perduti nella società liquida, globale e complessa del presente? E quali sono? Quali sono stati? Come cambiano? Essi sono i modi d’essere verso cui si tende. I valori sono i punti di riferimento nel cammino dell’esistenza. Non sempre appare chiaro quali siano i valori che sottendono a scelte, proposte, idee e immagini nella complessità del mondo contemporaneo. Invece è necessario avere la capacità di riconoscerli e saperli collocare. Parlare di valori è inattuale. Il tuo bisogno di espressione è invece il tema del penultimo capitolo. Esprimersi è un gesto fondamentale nell’economia del dare e del ricevere, un bisogno primario profondamente umano e il non poterlo fare genera ogni sorte di malessere e difficoltà personali. Esprimersi è un modo di dare. Vogliamo esprimere ciò che siamo, la nostra singolarità. La tua opera deve uscire da te, scrive Zampieri. Perché la tua necessità di esprimerti non dovrebbe accontentarsi di trovare un interlocutore qualsiasi. Infine il capitolo che ha per titolo Il tuo bisogno di riconoscimento. Il riconoscimento è un processo essenziale nel nostro percorso di identificazione. Con tutte le sue trappole. L’identità è un tema molto sentito ai nostri giorni, spesso in modalità nuove e in forme espressive innovative: moda, social media, arte, musica e preferenze. Stili di vita. Il socratico conosci te stesso naturalmente. Il mutuo riconoscimento. Il riconoscimento ha, sottolinea l’autore, questa valenza multipla: dagli altri, da noi stessi e nella reciprocità, esso è cardine fondamentale del mondo della vita. Il fondamento dell’identità personale, scrive l’autore, è, dunque, essenzialmente un’identità sociale.

Un testo importante per tempi difficili, un testo che, come scrive l’autore, ci guida al “senso originario del discorso filosofico, che è necessario ritrovare se vogliamo che la filosofia non resti un sapere marginale ma torni ad essere parte della nostra vita e ausilio al nostro cammino di abitatori del terzo millennio.”

S. Zampieri. La filosofia spiegata ai giovani. Come costruire la propria esistenza e orientarsi nella vita. Diarkos 2023

Img: Diarkos

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Anima luna, il labirinto del Fedone platonico.

“Non si entra nel labirinto del Fedone, se non si pensa al labirinto dell’anima. Fedone parla dell’anima e l’anima è la Signora del labirinto.

Simile in questo alla luna, Arianna, anima luna, costante, incostante innamorata di vita e di morte, di eros e dell’oscuro potere di thanatos, della luce del sole.

Il Fedone circola per questo tra i paradossi: la filosofia ama l’anima, e per essa si stacca dal corpo, e l’anima ama il corpo e ad esso si attacca. Così l’anima ama la morte. Ma l’anima è senza morte, athannatos, cerca la vita e si attacca al corpo. Labirinto!

Allora di nuovo: la filosofia come l’anima ama la vita e la morte, il corpo e il fondo della materia dell’anima, nomi dell’altro, la morte e la luce, il carcere e il vento che libera fuori, l’ala e il legame, l’impulso dei cavalli lanciati e le redini che ne tengono il corso, e l’estate che espande di luce la percezione delle cose e del mondo.

Vuole il due, tutti e due, entrambe le cose, vuole tutto l’anima, vuole la vita.

Non vuole scegliere, non vuole rinuncia, vuole scegliere esclusivamente la via che non sceglie, la via multivia, quella che sceglie di volta in volta in modo assoluto, esclusivo.”

Giancarlo Croci, Platone e il gioco dello spreco della filosofia, Campanotto Editore 1997

Img: DU AI 2023

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Attualità, Filosofia

Io, mondo, uomo.

Antropologia e distopia.

Cornelio Fabro, filosofo cattolico semi dimenticato nel 1969, scrisse (nel testo a commento della filosofia di Severino che contribuì al suo allontanamento della Cattolica) de “ l’uomo-fenomeno nella sua avventura storica”, che ha abbandonato la religione e filosofia verso la mitizzazione della scienza. Giovanni Maria Bertin, pedagogista, altrettanto dimenticato, nel 1968 scriveva “La civiltà sembra essere caratterizzata dal prepotere del consumo, anziché dal rispetto della dignità e dalla preoccupazione di liberare l’uomo. Lo sforzo massimo è in essi rivolto ad intensificare la produzione e ad allargare i mercati, in modo da elevare i profitti e (subordinatamente) elevare la capacità di acquisto delle masse lavoratrici affinché queste consumino sempre di più (…)

Questo potrebbe dire qualcosa dell’uomo dei nostri giorni, anche se son passati più di 50 anni.

Il Novecento soprattutto, è stato il secolo del materialismo economico, beni, produzione, mercato, consumo,  e dello scavare nel torbido, scrutare nel meandri del basso animalesco umano, scandagliare l’abisso per la consapevolezza del senso di colpa totalizzante e paralizzante, falsamente liberatorio. Il materialismo dialettico ha dominato il pensiero filosofico politico del Novecento fino al 1990 per poi decadere sommerso dai frutti da una prassi politica ed economica criminale e affamante. L’attualità frutto di quel secolo appare in quelle che  sembrano le tendenze filosofiche del nuovo millennio: scientismo assolutista e prevalenza di istinti biologici. E’ stato anche altro, il Novecento, ma questo è ciò che ne rimane oggi.

Società, informazione, cultura, politica, tecnologia, lavoro, giovani, educazione, economia, nessuno di questi ambiti si può dire al riparo da un’idea di crisi che permea tutto il nostro mondo della vita quotidiana e il nostro pensare la realtà. La nostra visione del mondo appare velata da uno schermo di mancanza di senso o peggio da una privazione di prospettiva.

Una società sempre più liquida, un’informazione così caotica che nemmeno l’idea di fake news riesce a contenerla e a garantire un discrimine, un generale ripensamento dei valori sociali e dell’etica, accelerazione dello sviluppo tecnologico e della sua pervasività, precarietà e prevalenza dell’economico, spaesamento cinismo e deprivazione del valore umano della relazione. Pandemia e guerre.

Il tempo sta cambiando. L’agire umano e l’esperienza perdono il loro primato nella complessità e nella scala dell’organizzazione sociale di oggi. Ibania, la città del controllo totale, occhiuto e pervasivo, è realtà. Gli attori protagonisti sono invece sistemi complessi, infrastrutture e reti in cui il futuro sostituisce il presente come condizione strutturante del tempo.

I dispositivi digitali hanno cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo ossessivo e sempre visualizzabile in immagini memetiche  attraverso uno schermo. Governato da un algoritmo. Il soggetto è parte uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si muovono disordinati e imprevedibili come insetti mutanti. Ci si interroga su ciò che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di sé per contare i “mi piace”, quando il privato esibito si trasforma in un pubblico che cannibalizza l’intimità e la privacy. E su cosa accade ad una società che mistifica la virtù in nome del performabile. E su che cosa comporta abdicare al significato e al senso per un’informazione reperibile sempre sincronicamente ma spesso deforme e inaffidabile.

La visione positiva della vita vissuta e autentica vista come vivere bene, nella dignità, negli affetti, nei propri valori, in una condizione nella quale ognuno possa esprimere liberamente e profondamente se stesso, in un clima di reciproco riconoscimento, sembra svanire come sogno o illusione, utopia.

Il tempo del presente necessita di un’etica della complessità, cioè di una capacità di comprendere diversi linguaggi, di farsi multialfabeta ovvero saper affrontare diverse “grammatiche” per comprendere il mondo e abitarlo consapevolmente. Forse queste grammatiche non ci sono o non abbiamo saputo apprenderle e insegnarle.

Oggi assistiamo al supermarket della consulenza, fast e blended. Veloce e personalizzata, di tutto un po’. Si riaffacciano residui e cascami che riaffiorano nel tentativo di promuovere terapie di pratiche che inseguono concetti e termini di natura diversa inoculati dalla cultura decadente del pensiero debole occidentale per cui colpa, paura, illusione, menzogna, inganno sono tutte derivazione di una antropologia patologica deteriore che vede l’essere umano come substrato materiale e organico, malato insano, preda di speranze vane, perniciose assuefazioni, inconscio torbido, ricordi rimossi, infanzie tradite, madri anaffettive e padri dispotici, violenze e libidini sottostanti azioni ripugnanti. La vita come deresponsabilizzazione istituzionalizzata, la sparizione della responsabilità e l’invenzione dell’inconscio. Tutto lavora sull’uomo come macchina desiderante. Si inventano bisogni, si alimentano paure.

Manca la chiarificazione emotivo razionale di una situazione esistenziale complessa ed in rapida evoluzione, di cui non si vede il telos, il fine ultimo, lo scopo. Chiarificazione emotivo razionale cioè quella competenza che è solo filosofica.

Sembra confermare questa asserzione anche la recente intervista dello psichiatra novantenne E. Borgna  «Le malattie mentali non esistono, non si possono dimostrare. Chi vuol fare lo psichiatra dovrebbe leggere Giacomo Leopardi. Ma anche Emily Dickinson e Giovanni Pascoli. Non si può curare la fragilità solo con gli psicofarmaci». Neppure la psichiatria sembra poterci aiutare.

A Milano qualcuno paga molti soldi per andare a sentire qualcuno che afferma candidamente: «Io non ho un lavoro e non ho mai lavorato in vita mia. E non ho nemmeno una vocazione. La sola cosa che sono bravo a fare è stare fermo a non fare niente.»

Possiamo stupirci se tutto ciò si ripercuote violentemente sulla nostra quotidianità, su cui proiettiamo di continuo fantasie patologiche autoavverantesi, e non sappiamo come reagire, se non chiedendo alle esauste e svuotate agenzie educative, o ad una classe dirigente palesemente inadeguata, di fare quello che scientemente abbiamo rinunciato a fare da svariati decenni?

«Chi ha un perché del vivere può sopportare quasi ogni come» Scriveva Nietzsche.

Noi abbiamo un perché?

Img: Bacon, autoritratto,1971

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Poesia

Per quanto sta in te – C. Kavafis

“E se non puoi la vita che desideri

cerca almeno questo

per quanto sta in te: non sciuparla

nel troppo commercio con la gente

con troppe parole in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro

in balìa del quotidiano

gioco balordo degli incontri

e degli inviti

fino a farne una stucchevole estranea”

Constantino Kavafis

(Traduzione di Margherita Dalmàti e Nelo Risi)

da “Constantinos Kavafis, Cinquantacinque poesie”, Torino, Einaudi, 1968

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Poesia

Molteplici onde di V. Zeichen

Da Poesie 1963-2014 (Mondadori 2004)

I

Vagan per i mari

fra onde altezzose

spettri inconsolati

incoronati per scherno

dalle creste di schiuma

sfrangiate dal vento

II

Appare sensuale il mare

ma per pudore delinea solo

i profili dei nudi femminili

in ondosi acquerelli.

Gemono polimorfe sirene

riavvolte dalle onde.

III

Le onde potenziate

da correlativi metaforici

si travestono da concetti

vedi “l’onda d’urto”,

“le onde del destino”

del campionario marino.

(Da “Casa di rieducazione” 2011)

Img: 01.instituto-arte-chicago

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Poesia

La grazia per un poeta, 1955 Papini per Ezra Pound al Saint Elizabeth.

Liberare Pound, la petizione italiana del 1955.

Ezra Pound fu rinchiuso in un manicomio criminale di Washington. L’accusa era stata formulata già nel 1943. Fu fermato nel maggio del 1945 e trasferito in novembre al Saint Elizabeth. Anzi, prima rinchiuso in una gabbia all’aperto poi portato in manicomio, dai suoi connazionali. Oggi può sembrare assurdo, o forse nemmeno molto in realtà, i poeti hanno sempre suscitato queste reazioni scomposte (da Baudelaire in tribunale con i Fleurs, passando per Mandelstam e fino a Danilo Dolci negli anni ’50 e Pasolini nei ’70).

In particolare Pound, dopo essersi trasferito a Rapallo nel 1925 circa, iniziò negli anni ’30 del Novecento a interessarsi di economia e politica. Fu arrestato nel ’45 per la sua presunta adesione al fascismo e per la dichiarata ammirazione espressa pubblicamente per Mussolini, (trasmissioni radio e articoli per lo più) questione su cui si potrebbe discutere all’infinito. Ma Pound era già Pound anche prima del duce italiano. In ogni caso 13 anni della sua vita li trascorse rinchiuso in un ospedale psichiatrico.

La gabbia all’aperto dove Pound fu tenuto si trovava al DTC Disciplinary Training Center di Pisa sulla strada per Viareggio, vi trascorse l’estate del ’45. La gabbia aveva una base in cemento ed era rivestita di filo spinato. Lì compose i Pisan Cantos, I Canti Pisani. Si trovava nella Death Row, la parte destinata ai condannati a morte. “Non ho parlato di questa guerra ma ho protestato contro un sistema che crea una guerra dopo l’altra in serie e sistematicamente, nè ho parlato alle truppe incitandole alla rivolta o all’ammutinamnento.” Lo scrisse in una memoria difensiva.

As a lone ant from a broken ant-hill
from the wreckage of Europe, ego scriptor.

Scrisse Montale: “I Canti pisani sono una sinfonia non di parole, ma di frasi in libertà. Non siamo tuttavia nel caos perché queste frasi sono legate da un “montaggio” che supera di gran lunga, per apparente incoerenza, quello di qualche parte dell’Ulysses e dell’eliotiana Waste Land. Si tratta però di un montaggio di cui sfugge totalmente il connettivo, il nesso conduttore. Immaginate che si possa radiografare il pensiero di un condannato a morte dieci minuti prima dell’esecuzione capitale, e supponete che il condannato sia un uomo della statura del Pound e avrete i Canti pisani: un poema ch’è una fulminea ricapitolazione della storia del mondo (di un mondo), senz’alcun legame o rapporto di tempo e di spazio.”

Tra le due guerre tra Londra e Parigi aveva animato un circolo di intellettuali, scrittori e poeti con il suo contributo al linguaggio, alla critica letteraria, fondando riviste, stringendo legami con Hemingway, Eliot, Joyce. Il modernismo, l’imagismo, il vorticismo, gli ideogrammi fino ad approdare alle idee politiche ed economiche che, fuse con l’idea di rifondare la poesia con un linguaggio radicalmente nuovo, ne consacrarono la grandezza artistica e visionaria. La fonte dei suoi guai politici fu tentare di puntare sul fascismo come terza via in grado di eliminare l’usura, che lui sempre intese come profitto diabolico sulla lavoro dell’uomo, purtroppo tutto il sistema mondiale si stava posizionando su idee completamente opposte, e gliela fecero pagare cara. Resta enorme, titanico il lavoro poetico – aperto, in itinere – lungo tutta la sua vita adulta dei Cantos, pubblicati man mano che la composizione si sviluppava tra il 1925 e il 1962. Si possono considerare una summa della storia del mondo occidentale in cui convergono arte, religione, economia, poesia e politica, con citazioni in varie lingue e richiami spesso non facili da cogliere con la storia culturale italiana. Lo stesso Pound ne diede diverse immagini, rifacendosi alla Divina Commedia, all’Odissea o paragonandoli agli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara.

Nel 1955 alcuni meritori intellettuali italiani si prodigarono per impostare un appello per la sua liberazione. Ne fu promotore Vanni Scheiwiller figlio del noto padre fondatore della casa editrice All’insegna del pesce d’oro, assieme ad alcuni scrittori e intellettuali italiani ( G.B. Angioletti, Riccardo Bacchelli, Luigi Bartolini, Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi, Piero Bigongiari, Giorgio Caproni, Raffaele Carrieri, Emilio Cecchi, Libero de Libero, Alfonso Gatto, Virgilio Giotti, Piero Jahier, Mario Luzi, Eugenio Montale, Alberto Moravia, Marino Moretti, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Alessandro Parronchi, Enrico Pea, Sandro Penna, Vasco Pratolini, Mario Praz, Don Clemente Maria Rebora, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Ignazio Silone, Leonardo Sinisgalli, Sergio Solmi, Giani Stuparich, Leone Traverso, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Cesare Zavattini).

L’Appello doveva uscire in occasione del settantesimo compleanno di Pound (30 ottobre 1955), ma svariate circostanze ne impedirono l’uscita. Nei mesi seguenti Vanni Scheiwiller si rimise all’opera sulla petizione, augurandosi di poterla consegnare all’Ambasciata americana, come scrive ad Ungaretti, entro i primi giorni di aprile del 1956. In realtà la consegna dell’Appello, tradotto in inglese da Allen Mandelbaum, avverrà solo nel mese di agosto.

Il poeta tornò in libertà nel 1958 ripartendo poco dopo per l’Italia, vivendo tra Castel Fontana a Merano e Venezia dove si spense e fu sepolto a San Michele in isola nel 1972.

L’insuccesso della mancata pubblicazione dell’appello nel 1955 venne mitigato dalla pubblicazione sul «Corriere della sera» di un articolo di Giovanni Papini – intellettuale anch’esso molto discusso e tormentato, perchè pragmatista, interventista, futurista, cattolico, ma grande scrittore – dall’eloquente titolo Domandiamo la grazia per un poeta. Che qui riproduco.

in “Schegge”:

Domandiamo la grazia per un poeta

Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 258, p. 3

Data: 30 ottobre 1955

“Proprio oggi, 30 ottobre, Ezra Pound — poeta americano di prima grandezza — finisce settanta anni. Non trascorre, però, questa giornata in una sua casa mezzo ai boschi o sulle rive del mare, festeggiato dagli amici e dagli ammiratori, bensì in un manicomio criminale dove è rinchiuso da dieci anni benchè non è un pazzo nel senso ordinario della parola, nè tanto meno un delinquente.”Proprio oggi, 30 ottobre, Ezra Pound — poeta americano di prima grandezza — finisce settanta anni. Non trascorre, però, questa giornata in una sua casa mezzo ai boschi o sulle rive del mare, festeggiato dagli amici e dagli ammiratori, bensì in un manicomio criminale dove è rinchiuso da dieci anni benchè non è un pazzo nel senso ordinario della parola, nè tanto meno un delinquente.

   Non intendo attenuare ne assolvere le colpe di Ezra Pound verso il suo paese ma penso e proclamo che queste colpe, in qualunque maniera si vogliano misurare e pesare, hanno avuto, il martirio crudele di dieci anni, la loro piena espiazione. Con questi dieci anni di prigionia umiliante, di promiscuità ripugnanti, di schiavitù mortificanti, l’autore dei Cantos, ha pagato, ha scontato, ha riscattato ogni suo errore.

   Un artista, un uomo di cultura e di pensiero, un poeta sono creature oltremodo ipersenbili, che soffrono a mille doppi al paragone degli esseri comuni: i dieci anni di Ezra Pound corrispondono a una specie di eternità.

   Nel momento stesso che i capi del Cremlino rimandano graziati i criminali di guerra non possiamo credere che i discendenti di Penn e di Lincoln, di Emerson e di Walt Whitman vogliano essere meno generosi e clementi dei successori di Lenin e di Stalin.

   A nome dei poeti e di tutti gli uomini di cuore d’Italia io mi rivolgo alla «donna gentile» che rappresenta a Roma la grande unione americana. La signora Clara Luce è, per grazia di Dio, una cristiana, un’artista e a scrittrice e perciò saprà trovare le parole più appropriate e calzanti per far comprendere a Washington il nostro sentimento la nostra preghiera.

   Prima che abbia principio il nuovo anno avrà fine la tetra e tormentosa reclusione del vecchio e infelice Ezra Pound: questa vorrebbe essere la nostra certezza più che la nostra speranza. Un secolo fa, nel 1855, moriva solo e triste, in un ospedale a Copenaghen, il più grande scrittore danese, Kierkegaard; moriva in esilio a Costantinopoli il più grande poeta polacco, Mickiewicz; moriva a Parigi, suicida, appeso a un lampione, uno dei più grandi romantici francesi, Gérard de Nerval. Fate sì che non si debba leggere nel futuro che uno dei più grandi poeti americani del secolo ventesimo fu condannato a spengersi miserabilmente in compagnia degli alienati e degli assassini.”

Img: DU

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Poesia

Cristina Campo. La fonte della poesia, la metafisica, l’invisibile. 1977

Vittoria Guerrini, che scelse come nom de plume Cristina Campo con cui la conosciamo, nacque il 29.04.1923 in questi giorni ne ricorre il centenario.

Quello che segue è una parziale, e personale, trascrizione dell’intervista a Cristina Campo realizzata da Olga Amman per conto della Radiotelevisione Svizzera, nel 1977 alcuni mesi prima della sua morte, unica disponibile in rete.

Credo pochissimo al visibile, credo molto all’invisibile che è forse la cosa che mi interessa di più.

Vorrei che si dicesse alla gente, con brutalità … o con dolcezza parimenti violenta, come faceva Cristo,  ricordati che hai un’anima e che un’anima può tutto.

Cosa le importa? “La poesia mi importa molto. Qualcosa che mi importa più della poesia è la fonte della poesia. La poesia non ha senso se non nasce da una fonte metafisica, invisibile, come nelle fiabe. Queste sono le due cose che contano”.

Il Padre Nostro è una poesia. “Il Padre nostro è una poesia. La prima parte, che si svolge tra uomo e Dio, sui desideri a lode di Dio, è rimata; la seconda parte, quando si scende a chiedere il pane quotidiano, è una prosa ritmica, cala, richiama con risonanze la prima parte, è un capolavoro straordinario… Gli strumenti poi sono bellissimi: gli armeni hanno cembali e gong, gli etiopici hanno i tamburi e i sistri, sono meravigliosi. Ciò che avevamo una volta e che abbiamo gettato via, per ragioni certamente sublimi ma che io non afferro, sono conservati lì per aprire i cinque sensi, che diventano cinque porte per far entrare l’invisibile. I profumi di una chiesa armena non possiamo immaginarceli: il profumo del myron, il crisma dove hanno bollito per tre giorni e tre notti cinquantasette aromi diversi alla lettura continua del Vangelo in un fuoco scaturito da icone e alimentato dal vescovo è qualcosa di indicibile.” Candele visione, i fiori. Conoscenza religiosa, sensi soprannaturali. Travolti dai profumi.

Ho sempre avuto una gran paura della parola. Penso che dobbiamo fare i conti di ogni parola anche quando le nostre parole sono veramente inutili, quasi trascurabili, non ci si può scherzare molto.

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Filosofia

L’esercizio della filosofia come ricerca dell’essenza.

Saggezza pratica e sapere. Phronesis e Pragma Sophia.

La nascita della filosofia, nella sua ambivalenza di una forma di aspirazione al sapere, riluce di intenzioni, attriti, scissioni, scosse e unioni. Facile intuire che affondi nei primordi inaccessibili, se non per vie letterarie e filologiche, del IV e V secolo nel Mediterraneo, nell’Egeo. Greca con derivazioni asiatiche, questa pare sia la sua nascita misteriosa. Difficile individuare il primo utilizzo del termine greco philosophia e dei suoi derivati philosophos (filosofo) e philosophein (filosofare). La tradizione risale a Talete, oppure a Pitagora basandosi su fonti di Diogene Laerzio. Pare che nasca a Mileto, città che a quei tempi era situata nei pressi della costa dell’Asia minore, terminale dei commerci che collegavano la Mesopotamia alle coste del mar Egeo. Erodoto, originario appunto dell’Asia Minore, nei suoi numerosi viaggi andò a vivere anche ad Atene. È forse proprio nella sua opera che si incontra per la prima volta il riferimento a una attività “filosofica” che però si sviluppa e si consolida come socratica. Furono i Socratici a fare, per primi, un uso ampio della nozione di filosofia/filosofo, identificando con essi Socrate e la sua pratica discorsiva. La radice originaria dell’istinto filosofico è problematica, perché muove dalla volontà di svelare, comprendere, capire ciò che appare incomprensibile, o poco convincente, è questa la nascita mediterranea e arcaica dell’amore per il sapere. Una reazione alla meraviglia, allo stupore, alla paura. Del creato, del mondo, del fato. Un espediente dell’intelletto che serve a vivere.

L’abitudine di suddividere la storia della filosofia in prima e dopo Socrate è piuttosto recente, intorno al 1900 con Diels e poi Kranz, filologi tedeschi e rappresenta una convenzione storiografica. Socrate si interessa all’uomo non alla natura.

Che ogni azione sia guidata da un pensare è, con queste premesse, questione della più antica tradizione filosofica. Che il retto pensare, credere, intendere sia condizione necessaria per un agire orientato al bene, utile o ideale diremmo noi contemporanei, è riflessione della prima grecità. Empedocle, fu il primo pensatore a cui dobbiamo il concetto di princìpi che governano l’ordine delle cose, concordia e discordia. Scriverà in due poemi, pervenuti in frammenti, della costituzione del mondo e dell’amore come unica potenza del bene contro il potere distruttivo della discordia che separa gli elementi.

Dopo Socrate e Platone, Aristotele dedicherà una parte importante della sua Etica Nicomachea (libri VIII e IX) alla discussione sulla philia, tradotto  con “amicizia”. La philia mette insieme in vincoli di affinità. Per Aristotele la forma più nobile di amicizia è quella che non si basa solo sull’utile o sul dilettevole, ma sul bene. Per Aristotele la vita migliore è quella dedita alla riflessione meditativa. Il filosofo, sarebbe dunque l'”amico del sapere”, cioè del conoscere, non per usarlo come mezzo o solo per piacere intellettuale, ma come fine a sé stesso, conoscitivo, accrescitivo. Il conoscere è legato a sophìa, sapienza, conoscenza. Aristotele il grande raccoglitore, il selezionatore, l’incasellatore,  greco di cultura, ma macedone perciò straniero per provenienza, distinse inoltre per la prima volta la sapienza dalla saggezza. Fino a Platone i due termini indicavano semplicemente la condotta razionale della vita umana, cioè la saggezza. Dopo di lui i saperi si dividono in pratici e teoretici. Aristotele tende a valorizzare la risoluzione socratica della virtù in competenza, mira alla descrizione della sua capacità operativa, che gli appare tecnica come quella di geometri ed architetti, e non condivide l’idea socratica che il sapere basti a determinare la volontà del bene. Aristotele ha di fatto rinunciato ad una critica veritativa delle assunzioni di valore proponendo la tesi di un’origine della virtù non puramente razionale, ma consuetudinaria e sociale. Scrisse «Non è possibile essere virtuosi senza la saggezza, né essere saggi senza la virtù etica.»

In Platone phronesis si configura come quell’intelligenza riguardo alle cose umane. Platone non distingueva tra loro sapienza  e saggezza che Aristotele distinse e contrappose in due termini. In italiano, saggezza e sapienza hanno acquistato e mantenuto nei secoli una spiccata cifra semantica: etica la saggezza, noetica la sapienza. La sapienza di sofia, della parola filosofia, va quindi letta in italiano nel preciso valore semantico di sapienza. Nelle meravigliose pagine del Fedro in cui Platone afferma che l’amore deriva dalla bellezza e che essa promana nel sensibile dell’essere dalle qualità migliori dell’anima, phronesis è usata per dire bellezza interiore, come composizione di virtù speciali, unica visibile tra tutte la bellezza è l’accesso al divino. “Quali amori smisurati provocherebbe la phronesis se si potesse vedere!”

Aristotele suddividerà la sapienza come condotta e come sapere inaugurando quella teoreticità astratta che la filosofia ha impersonato per secoli, senza peraltro perdere la specificità che la caratterizza, acquisendo però una vaghezza e uno status di aleatorietà e fumisteria che ancora nel sentire comune la avvolgono. Mantenere perciò l’idea che la filosofia sia un supporto collocabile all’interno della riflessione etica e non noetica, cioè legata solo al comportamento e non alla conoscenza è l’estrema riduzione a merce di scambio spendibile nel mondo contemporaneo, una maschera commerciale. Che essa sia individuabile come analisi mentale, di pensieri, di teorie, di ideologie,  la spezza peraltro in un dualismo intellettuale per il quale la riflessione guida l’agire, assunto quanto mai dubbio ma dato per assodato. L’agire, azione, prassi, si genera come mescolanza di istinto, ragione, sensazione, intuito, interesse, natura, attitudine.

L’accezione precedente cioè socratica e platonica intende Filosofia come amore per il sapere. Filosofia è la passione per il sapere che ci lega alla vita ogni giorno. La connessione vita, sapere e filosofia indica chiaramente che la filosofia è perciò saper vivere. E’ probabilmente qui che si può individuare una via d’uscita filosofica dall’imbuto aristotelico. Nulla a che fare con l’aristotelica teoresi, o etica neutra e indefinita, senza escluderle certo ma senza dividere tra esse e categorizzare l’esistenza. L’accostamento aristotelico di filosofia e pensiero è fuorviante e rende debole il ragionamento. Il pensiero viene sempre dopo la realtà. L’immediato accadere delle cose è il primo dato di verità fattuale. Se questo è vero fare filosofia significa aver coscienza di vivere nella vita. E’, detto altrimenti, riconoscere che la necessità di  imparare la vita è la vita stessa, e per farlo –  oltre a vivere – concorrono idee, concetti, azioni, riflessioni e verifiche. Come a scuola, dove oggi si rinchiude il sapere, scholé parola dimidiata che ab origine significava tempo sottratto al lavoro, oggi invece sempre più traduce addestramento al sistema. Non è il lavoro quindi, seguendo questo ragionamento, l’ambito di realizzazione dell’uomo, topos otto/novecentesco come sintesi di realizzazione dell’umanità, quanto piuttosto il tempo da esso libero, di greca memoria, scholé. Il tempo dedicato ad imparare a vivere. Che si caratterizza come tempo dedicato alle cose più nobili, alte, della conoscenza e dell’amicizia, della vita.

In un certo senso la phronesis aristotelica offre uno strumento di adattamento socio politico ideale: se esiste una saggezza pratica, come Aristotele intende phronesis, e l’uomo può esercitarla per connettere pensiero e azione in modo che possa comprendere la realtà, e comporre la visione del mondo individuale, ebbene chi può garantire che una visione del mondo non possa essere illusoria, facilmente indotta e costruita, manipolata, suggerita in sua vece? L’uomo così diventa oggetto malleabile e influenzabile che si auto illude di avere un’idea personale di vita e una visione del mondo, mentre è il mondo che con un artefatto sistema di coercizioni e lusinghe proietta sull’uomo la sua ombra significante. La consapevolezza di avere una visione del mondo allude ad una coscienza. Il filosofo che interpreta e  “disegna” questa presupposta coscienza diventa così l’adattatore sociale. La saggezza pratica si adatta al mondo, è la matrice mondana della vita sociale. Ben diversa appariva la phronesis platonica, o sophìa, che piuttosto incarica l’uomo, ogni uomo e donna, di esercitare la propria psyché, la propria anima per imparare a vivere.

Altra considerazione è la caratteristica della Filosofia al suo apparire. Essa è attiva, comune, perché co-involge, dal non sapere innalza verso il sapere, o tenta di farlo. Dal non sapere al sapere: il conoscere accresce il saper vivere e questo richiede esercizio. L’esercizio di vita è esercizio filosofico. Come intendere un esercizio di filosofia? Qualsiasi atto con cui si addestri il corpo e si applichi la mente, da exercere verbo latino. Per chiarire cos’è la filosofia come esercizio occorre anche spiegare cosa fa, che esercizi propone. La filosofia infatti fa cose. Quali sono le cose che è in grado di fare la filosofia, tutta? Argomentazioni, analisi, discernimento, evocazioni di immagini, inventare storie, riepiloghi, connessioni, rimembranze, nuovi linguaggi, elucubrazioni, teorie, spiegazioni, identificare problemi, scoprire possibilità, lumeggiare soluzioni, sperimentare vie inesplorate. Apre all’infinito. Trascende sempre, la filosofia, porta sempre altrove, cioè rimanda e indirizza verso altro, l’altro, l’oltre, sempre. E’ senza uscita univoca, non è un sistema ordinato. Un esercizio di filosofia è perciò sempre possibile quando accadono “cose” trascendentali, poiché rinviano costantemente altrove, delocalizzano il pensiero, lo fanno realmente circolare, “cose” come quelle sopra elencate che possono accadere in spazi di vita quotidiana.

Se l’origine della filosofia si determina come saper vivere allora appare tradita nella sua intima idea originaria, l’Eidos socratico platonico, che non conduce come pensava Volpi ad un irrazionalismo astratto ma piuttosto ad una ripresa socratica che chiede all’umanità di ripensare il proprio modello, eidos. Il vicolo cieco che la ripresa della filosofia pratica tedesca del ‘900 – questo è in fondo il progetto che mette al centro la phronesis aristotelica,  e l’idea di pratica filosofica – , mette in luce, come Volpi ha invece già in anni ormai lontani evidenziato in maniera esaustiva – è di fatto la semplice ripresa delle tematiche relative agli ambiti di etica-politica-diritto della vecchia filosofia pratica, tematiche che la tradizione marxista e prima hegeliana tedesca colloca nel quadro prassi, dinamica servo/padrone, produzione, capitale, dialettica, logica. Idealismo e marxismo. Individualismo e massificazione. Ideologie  che inquadrano l’individuo in macrosistemi socio politici di matrice totalitaria e di massa.

Se prendiamo per valide le premesse aristoteliche relative all’etica e alla saggezza pratica (phronesis) allora l’oggetto della filosofia pratica è il bene supremo praticabile o fine ultimo delle azioni umane, e questo fine ultimo è la felicità. Così determinata la filosofia pratica dovrebbe essere indirizzata alla ricerca della felicità, e i filosofi pratici presentarsi come esperti ricercatori della felicità.  La cornice, costruita dalla logica politica liberale progressista materialista e ametafisica occidentale rimanda alla concezione dell’uomo come puro inconsapevole dato biologico, atto a comportamenti infondati, orientati al nulla, in balia di impulsi di diversa natura, ambientali, fisici, mentali, che non può controllare. La felicità occidentale è fatta quindi di accumulo e sperpero di beni materiali, soddisfazioni di impulsi animali, godimento ozioso, sopraffazione e sfruttamento, agonismo e culto del malaffare. Grazie Aristotele. Neppure la penultima versione dell’etica aristotelica, cioè lo stoicismo, pare potersi adattare all’idea di phronesis proposta oggi, nonostante le evidenti assonanze, spesso non dichiarate. Il fine dello stoico è l’atarassia, non la felicità. La società odierna rifugge l’atarassia, ovvero il controllo delle pulsioni, piuttosto anzi ne propone il completo dispiegamento, lo sfogo totale. Quanto alla questione pratica filosofica o filosofia pratica il discorso si chiarisce facilmente. Una semplice inversione linguistica non produce affatto effetti concreti tali da parlare di svolta. Come mosche intrappolate o i richiusi della caverna platonica, sbattiamo contro il vetro che ci costringe e continuiamo a vedere le stesse immagini proiettate nelle pareti della caverna.

Piuttosto è un ritorno alle origini –  come il salmone che nuota a ritroso, risale la corrente – di cui si deve discutere. Appunto Socrate e Platone. Idea è la traslitterazione del greco eidos che significa forma che deriva dal verbo idein che significa vedere. Con Platone idea indica il vero essere delle cose, la loro natura interiore, l’essenza. L’occidente filosofico ha perso la sua essenza.

Le obiezioni di chi dice che non è possibile replicare le esperienze della filosofia greca, implicitamente negando il legame tra i primi pensatori e noi oggi, è talmente debole che sarebbe come dire che poiché non è possibile che si ripeta l’ascesa di un dittatore criminale, perché non si possono replicare gli eventi del passato, per le loro caratteristiche specifiche socio culturali e geografiche ad esempio, non potrà mai più accedere un olocausto. Il che è ovviamente falso, nulla vieta e non è possibile dire che è impossibile che domani un folle politico prenda legalmente il potere e dichiari fuori legge una qualsiasi parte di umanità replicando quanto accadde nella prima metà del ‘900.

Tradita l’origine della filosofia la situazione filosofica del nostro tempo appare molto diversa o meglio confusa. Da una parte un’esaltazione della scienza e della tecnologia ben rappresentata da un linguaggio specifico e sorvegliato, che rispetti le indicazioni degli specialisti e le applichi con rigore, argomenti fondati su evidenze e prove, non suscettibili di confutazione, la sottomissione ai dati. Il filosofo può dire solo qualcosa di scontato, di già convalidato dalla scienza, noto a tutti e soprattutto evidente di per sé, presentandolo come una grande scoperta. Dall’altra, il ‘900 soprattutto, è stato il secolo del materialismo economico e dello scavare nel torbido, scrutare nel meandri del basso animalesco umano, scandagliare l’abisso per la consapevolezza del senso di colpa totalizzante e paralizzante, falsamente liberatorio. Il materialismo dialettico ha dominato il pensiero filosofico politico del Novecento fino al 1990 per poi decadere sommerso dai frutti di un pragmatismo politico ed economico europeo criminale e affamante. Tali sembrano le tendenze filosofiche del nuovo millennio: scientismo assolutista e prevalenza di istinti biologici. Tutto adagiato su di un substrato tardocapitalistico che dal 1990 è onninvasivo e globalizzante. .

L’habitus filosofico è mediocre. Il rigore, la scientificità, la credibilità e una qualche  dose di perbenismo oggi sono gli ingredienti sicuri per una visione del mondo razionale e affidabile, rassicurante e consona ai tempi ed allo spirito del mondo che ci governa e così i neo pensatori del nuovo secolo intendono solcare mari che sempre furono inesplorati e misteriosi con vascelli in materiali innovativi senza vele o anacronistiche braccia galeotte. Il filosofo è il primo difensore dell’ordine costituito. Traduce al volgo le direttive dei nuovi potenti liberal democratici. Conciliante, perbenista, consolatorio, rassicurante. Tutto si tiene per questi esegeti dell’ovvio del banale  e dell’oscuro scrutare.

Linguaggio, logica e scienza hanno occupato l’intero campo del pensiero e rifiutano un mondo fatto di parole aperte, di concetti e di idee, sono per un campo recintato con filo di ferrea logica, piantumato di ultime scoperte scientifiche e sorvegliato dai signori del nuovo linguaggio. Un metamondo, un oltregaia, un mondo rappresentato da fatti e di confutazioni, un platonismo realistico. Wittgenstein inaugurò questa proiezione intellettuale del mondo in fatti e  affermazioni apodittiche, ultimo e intimo terrore teutonico all’avvento della finis Austria, estremo tentativo di aggrapparsi al tangibile perché il caos dilaga. L’allucinazione di un ingegnere e matematico disperato. L’uomo resta un enigma. Se non è possibile fare nuovo l’uomo, fallimento progettuale del ‘900, facciamo nuovo e sorvegliato il mondo comune, la società. Da Platone quindi, idee sì ma sterilizzate dal filtro analitico razionale popolare, passando per la negazione di Nietzsche e del suo povero oltre uomo, fino a un Foucault manipolato: sorvegliamo e bandiamo chi non ha i requisiti che noi stabiliamo. Il mondo vero rifiutato per il mondo virtuale.

Posto il sacro tra parentesi, cercando di collocare l’uomo al centro dell’universo, potenziandolo con la tecnica e costruendo un mondo paradiso digitale, la questione religiosa è messa in sgabuzzino. Collocata fuori scena, relegata alla stregua di credenza popolare, illusione dell’immaginazione, prodotto del potere secolare che inventa divinità per legittimarsi. Droga dei poveracci. Fiaba per bambini. Mitologia del passato.

Permangono e si consolidano derivati popolari di quel freudismo da bancarella –  vero colpo di grazia della filosofia del ‘900 – sesso, madre, istinto, uccisione del padre, che ormai da tempo è considerato, dai più accorti studiosi, nulla più che una teoria pseudo letteraria e psicologica. Residui e cascami che riaffiorano nel tentativo di promuovere terapie di pratiche che inseguono concetti e termini di natura diversa inoculati dalla cultura decadente del pensiero debole occidentale per cui colpa, paura, illusione, menzogna, inganno sono tutte derivazione di una antropologia patologica deteriore che vede l’essere umano come substrato materiale e organico, malato insano, preda di speranze vane, perniciose assuefazioni, inconscio torbido, ricordi rimossi, infanzie tradite, madri anaffettive e padri dispotici, violenze e libidini sottostanti azioni ripugnanti. La vita come deresponsabilizzazione istituzionalizzata, la sparizione della responsabilità e l’invenzione dell’inconscio.

Breve inciso. Tale substrato, o inconscio, scandagliato dai sacerdoti della psiche, con la terapia della parola quando non otturato con farmaci, se indagato e emendato non accade nulla. Nullo è infatti l’effetto medico biologico scientifico di qualsiasi pseudo terapia psicobasica, su di  una persona con difficoltà riconducibile al mal di vivere, che non sia la chiarificazione emotivo razionale di una situazione esistenziale. Cioè filosofica.

L’unione di queste due tendenze – scientismo assolutista e prevalenza di istinti biologici – in contrapposizione alla tradizione metafisica, religiosa e filosofica che ha dato inizio alla storia del mondo pensato, ha creato una massa di informi sapienti, di inermi non pensanti, di pseudo scienziati,  che uniscono un gretto e arido materialismo ad un indefinito moralismo composto di una etero-etica progressista priva di indirizzo spirituale. Applausi per Nietzsche.

In questo tempo non ha propriamente senso parlare di phronesis, intesa come da tradizione aristotelica, è fuorviante e manipolatorio. Trattare la capacità di decidere consolidando i confini del conoscere e affermandoli nella esatta disposizione dei tempi di mezzo in cui ci troviamo è operazione mistificatoria, illusoria e malevola. Illusione di filosofia è quella che crede di illuminare con discorsi chiarificatori mentre annienta la concordia e la separa dal vivere recludendo intime passioni e conoscenze superiori. Trascinare al basso ciò che tende all’alto è operazione di meschineria filosofica, quella che attualmente regna sovrana nel mondo derivato e postumo in cui ci troviamo a vivere.

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baudelaire, Poesia

«Ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare». Charles Baudelaire

Il 2 settembre 1867, sotto un cielo tempestoso e triste, uno sparuto corteo segue la salma del poeta e scrittore Charles Pierre Baudelaire al cimitero di Montparnasse, tra essi ci sono Manet, che dipingerà il funerale in un piccolo quadro che tenne con sé tutta la vita, e Paul Verlaine.

Rientrato in Francia l’anno precedente, grazie all’intervento della madre Caroline, da Bruxelles – dove scrisse epiteti tremendi contro il Belgio e i suoi abitanti: beoti, le donne grasse e prive di grazia, paese di mediocri emulatori dei francesi, dediti alla gozzoviglia, privi di gusto e sporchi –  dopo un ictus con semiparesi e afasia, muore l’ultimo giorno  d’agosto. Successivamente alla pubblicazione su diverse riviste di quei Piccoli poemi in prosa, tra il 1861 e il 1862 (La Presse, Le Figaro, La Revue de Paris) che diventeranno Lo spleen de Paris, ed ebbero, pare, un successo più che mediocre, decise di andarsene a Bruxelles per alcune conferenze per le quali era stato scritturato. E così va incontro ad una amara delusione: il Belgio è peggio della peggio provincia francese, conferenze con scarsa partecipazione, primi segnali della malattia, sconforto e solitudine. Dai confini con il Belgio arriverà dopo pochi anni quel ragazzino sfrontato ma poeta eccelso che sarà Arthur Rimbaud che considerava l’autore dei Fiori un dio. “Il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio”

Fu così che quel giorno di settembre Baudelaire venne sepolto nella tomba di famiglia, con l’odiato patrigno, (che sulle barricate parigine del ’48 invitava ad uccidere) che con la madre aveva architettato quella punizione a vita che fu la tutela legale che il poeta subì a causa dei suoi sperperi giovanili e della sua eccentrica vita parigina dei vent’anni, che con le serate all’Hotel Lauzun, la convivenza con Jeanne la ragazza creola, gli acquisti dagli antiquari e gli abiti ricercati, formerà la sua personale teoria estetica del dandy. Scrisse:  «Essere un uomo utile mi è sempre sembrato qualcosa di molto repellente». Fu almeno coerente.

Dieci anni prima della sua scomparsa era stato pubblicato I fiori del male, unica opera poetica edita in vita. Dopo soli 12 giorni dall’uscita il libro viene accusato di oltraggio alla morale pubblica e offesa alla morale religiosa. Denunciato, censurato, processato pubblicamente: un esordio fulminante, nel segno dello scandalo e al tempo stesso un marchio indelebile. All’apparire della poesia moderna l’apparato scatta. Letteratura. il 20 agosto 1857, furono censurate sei liriche delle tredici incriminate. Baudelaire fu condannato a pagare una multa per aver oltraggiato la morale pubblica, la religione e i buoni costumi: secondo il procuratore imperiale della Senna Ernest Pinard, l’opera in questione portava «all’eccitazione dei sensi». Baudelaire e il suo editore, Auguste Poulet-Malassis, sono condannati per oltraggio al pubblico decoro: 300 franchi la multa comminata all’autore, 100 a chi gli ha dato fiducia di stampa. Baudelaire giustamente si lamentava con un amico, scrisse, dopo l’incriminazione: “Da ternt’anni la letteratura è d’una libertà che si vuole d’un tratto punire in me. E’ ciò giusto?” Soprattutto, gli occhi dei censori sono attratti da sei poesie tra le quali: Saffo, Le donne dannate, I gioielli. Nel 1861 Baudelaire ne realizzò una seconda edizione, eliminando le poesie “condannate” e aggiungendone delle nuove. La condanna dura fino al 1949, settant’anni fa, quando la Corte di Cassazione francese ammette che quelle poesie censurate potevano essere reintegrate nel libro… A metà del secolo del Positivismo, della Rivoluzione industriale, delle Nazioni, del progresso illimitato, un soprassalto di rigore morale d’imperio verga la poesia…La poesia.

La poesia di Baudelaire, censura o no,  inaugurerà la modernità. Nel 2019 vanno all’asta dei versi aggiunti a mano alla poesia I gioielli, che era tra quelle censurate, della cui esistenza già si era a conoscenza, In essa il poeta immortalava la nudità: “Nuda, la mia diletta: conoscendo il mio cuore/ non aveva tenuto che i gioielli (…)Era dunque distesa e si lasciava amare, e dall’alto del divano sorrideva di piacere al mio amore profondo e dolce come il mare che verso lei saliva come alla sua scogliera.” Prezzo di partenza stimato tra i 60 e gli 80mila euro. Baudelaire regalò una copia dei Fiori del male  a Gaston de Saint-Valry critico letterario. La copia personale di Gaston porta la dedica del poeta – à Gaston de Saint-Valry, témoignage d’amitié –, ma soprattutto alcuni versi, vergati a matita, finora sconosciuti. La quartina che chiude I gioielli è questa: E allora fui pieno di questa Verità: Che il miglior tesoro che Dio concede al Genio È conoscere a fondo la Bellezza terrestre Per far sgorgare il Ritmo e l’armonia.

Una lettera del 1845 in cui Baudelaire dava l’addio all’amante creola Jeanne Duval è stata venduta all’asta in Francia per 234.000 euro. Ironie postume della storia per un poeta che fu sempre assillato dai debiti.

Che cosa c’era di immorale e oltraggioso nei Fiori di Baudelaire? Dopo la dedica a Theophile Gautier, amico poeta, scrittore, letterato, il testo si apre con Al lettore, e questi versi: «La stoltezza, l’errore, il peccato, l’avarizia, occupano gli spiriti tormentando i corpi – e noi alimentiamo gli amabili rimorsi – come i mendicanti nutrono i loro insetti.». Ma per Baudelaire Dio conserva al poeta, –  che apparve  in questo mondo di noia, che gioca col vento, parla con le nuvole e intreccia la sua mistica coronaun posto tra le schiere beate delle legioni sante, invitato alla festa eterna di Troni, Virtù, Dominazioni, il dolore sua sola nobiltà. Così iniziano I Fiori del male. Lo spleen e l’ideale già sfoderati.

Prosegue con la poetica dell’Elevazione, e delle Corrispondenze: al di là degli stagni, delle valli dei monti – lo spirito fugge i morbosi miasmi, si purifica nell’aria più alta. La natura come un tempio in cui pilastri come colonne vive emettono confuse parole, tra foreste di simboli.

Nessuna lode, nessun tono aulico, nessun ideale da spacciare, ma un panorama di stoltezza, errore, peccato, avarizia, in cui la poesia e la bellezza sono destinate a sofferenza e disgusto. Un deciso cambio di registro per una nuova estetica al passo dei tempi. La modernità, la metropoli, l’arte, il vizio, la lussuria, la miseria, le donne, il vino, la bellezza, la morte. Tutto insieme. Baudelaire scrisse la cronaca poetica del tardo romanticismo da Parigi. Lo scenario: lontano dall’occhio di Dio tra pianure di Noia , profonde e deserte, l’apparato sanguinante delle Distruzione! Nei Razzi scriverà “Ho coltivato il mio isterismo con gioia e terrore”. Il progetto poetico di Baudelaire è chiaro: estrarre la bellezza dal male, trasfigurare l’esperienza dolorosa dell’animo umano nella morsa nella malasorte dell’esistenza.

Maria Zambrano, in Filosofia e poesia scrisse: “Baudelaire sublime e umile, superbo che cede all’umiltà, si autodefinisce peccatore. Ma il peccatore che spera, a causa della poesia, che il Creatore gli abbia riservato un posto nel proprio giardino. Un peccatore che spera di salvarsi come poeta: come figlio.”

Raboni traduttore italiano scrisse: “I movimenti segreti della sensibilità e della coscienza, la malattia, la morte, la noia e la solitudine, l’osservazione della vita in ogni sua forma, dalla più pura alla più perversa, sono al centro della grandiosa e attualissima arte poetica di Baudelaire.”

“Ah! Signore! datemi la forza ed il coraggio di contemplare il mio cuore e il corpo mio senza repugnanza!” (Viaggio a Citera- Les Fleurs du mal 1888)

L’Ame du Vin

Un soir, l’âme du vin chantait dans les bouteilles:

«Homme, vers toi je pousse, ô cher déshérité,

Sous ma prison de verre et mes cires vermeilles,

Un chant plein de lumière et de fraternité!

Je sais combien il faut, sur la colline en flamme,

De peine, de sueur et de soleil cuisant

Pour engendrer ma vie et pour me donner l’âme;

Mais je ne serai point ingrat ni malfaisant,

Car j’éprouve une joie immense quand je tombe

Dans le gosier d’un homme usé par ses travaux,

Et sa chaude poitrine est une douce tombe

Où je me plais bien mieux que dans mes froids caveaux.

Entends-tu retentir les refrains des dimanches

Et l’espoir qui gazouille en mon sein palpitant?

Les coudes sur la table et retroussant tes manches,

Tu me glorifieras et tu seras content;

J’allumerai les yeux de ta femme ravie;

À ton fils je rendrai sa force et ses couleurs

Et serai pour ce frêle athlète de la vie

L’huile qui raffermit les muscles des lutteurs.

En toi je tomberai, végétale ambroisie,

Grain précieux jeté par l’éternel Semeur,

Pour que de notre amour naisse la poésie

Qui jaillira vers Dieu comme une rare fleur!»

L’anima del vino

Dentro le bottiglie cantava una sera l’anima del vino:

“Uomo, caro diseredato, eccoti un canto pieno

di luce e di fraternità da questa prigione

di vetro e da sotto le vermiglie ceralacche!

So quanta pena, quanto sudore e quanto sole

cocente servono, sulla collina ardente,

per mettermi al mondo e donarmi l’anima;

ma non sarò ingrato né malefico,

perché sento una gioia immensa quando scendo

giù per la gola d’un uomo affranto di fatica,

e il suo caldo petto è una dolce tomba

dove sto meglio che nelle mie fredde cantine.

Senti come echeggiano i ritornelli delle domeniche?

Senti come bisbiglia la speranza nel mio seno palpitante?

Vedrai come mi esalterai e sarai contento

coi gomiti sul tavolo e le maniche rimboccate!

Come accenderò lo sguardo della tua donna rapita!

Come ridarò a tuo figlio la sua forza e i suoi colori!

Come sarò per quell’esile atleta della vita

l’olio che tempra i muscoli dei lottatori!

Cadrò in te, ambrosia vegetale,

prezioso grano sparso dal Seminatore eterno,

perché dal nostro amore nasca la poesia

che come un raro fiore s’alzerà verso Dio!”

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Poesia

John Donne, The Dreame – Il sogno

Dear love, for nothing less than thee

Would I have broke this happy dream;

            It was a theme

For reason, much too strong for fantasy,

Therefore thou wak’d’st me wisely; yet

My dream thou brok’st not, but continued’st it.

Thou art so true that thoughts of thee suffice

To make dreams truths, and fables histories;

Enter these arms, for since thou thought’st it best,

Not to dream all my dream, let’s act the rest.

   As lightning, or a taper’s light,

Thine eyes, and not thy noise wak’d me;

            Yet I thought thee

(For thou lovest truth) an angel, at first sight;

But when I saw thou sawest my heart,

And knew’st my thoughts, beyond an angel’s art,

When thou knew’st what I dreamt, when thou knew’st when

Excess of joy would wake me, and cam’st then,

I must confess, it could not choose but be

Profane, to think thee any thing but thee.

   Coming and staying show’d thee, thee,

But rising makes me doubt, that now

            Thou art not thou.

That love is weak where fear’s as strong as he;

‘Tis not all spirit, pure and brave,

If mixture it of fear, shame, honour have;

Perchance as torches, which must ready be,

Men light and put out, so thou deal’st with me;

Thou cam’st to kindle, goest to come; then I

Will dream that hope again, but else would die.

Il sogno

Per nessun altro, amore, avrei spezzato
questo beato sogno.
Buon tema alla ragione,
troppo forte per la fantasia.
Fosti saggia a destarmi. E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi.
Tu così vera che pensarti basta
per fare veri i sogni e le favole storia.
Entra fra queste braccia. Se ti parve
meglio per me non sognar tutto il sogno,
ora viviamo il resto.

Come il lampo o un bagliore di candela,
i tuoi occhi, non già il rumore, mi destarono.
Pure (giacché ami il vero)
io ti credetti sulle prime un angelo.
Ma quando vidi che mi vedevi in cuore,
sapevi i miei pensieri oltre l’arte di un angelo,
quando sapesti il sogno, quando sapesti quando
la troppa gioia mi avrebbe destato
e venisti, confesso che profano
sarebbe stato crederti qualcos’altro da te.

Il venire, il restare ti rivelò: tu sola.
Ma ora il levarti mi fa dubitare
che tu non sia più tu.
Debole quell’amore di cui più forte è la paura,
e non è tutto spirito limpido e valoroso
se è misto di timore, di pudore, di onore.
Forse, come le torce che debbono esser pronte
sono accese e rispente, così tu tratti me.
Venisti per accendermi, vai per venire. Ed io
sognerò nuovamente
quella speranza, ma per non morire.

John Donne, The Dreame, da Poesie amorose. Poesie teologiche, a cura di Cristina Campo, Einaudi 1971

img: R. K. Sun Woman 1901 Pinterest

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Poesia

Orgoglio – Orgueil – Charles Baudelaire

Angeli, vestiti d’oro, di porpora e giacinto

Il genio e l’amore sono facili Doveri,

Ho impastato fango e ne ho fatto oro.

Aveva negli occhi la forza del suo cuore.

A Parigi il suo deserto vivente senza un focolare e senza un buco,

forte come una bestia e libero come Dio.

*****************************************************

Anges, habilles d’or, de pourpre et d’hyacinthe.

Le génie et l’amour sont des Devoirs faciles.

J’ai pétri de la boue et j’en fait de l’or.

Il portait dans ses yeux la force de son coeur.

Dans Paris son desésert vivant sans feu ni leu,

aussi fort qu’une bete, aussi libre qu’un Dieu.

(da Frammenti, I fiori del male, Newton Compton 1972)

img: C. Schwabe, Spleen et ideal 1900

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Attualità

Cronache aforistiche ’22

War. Guerra. Unione europea e Nato spinti fin sull’orlo della vasta Russia con poca prudenza. Un rappresentante attore, milioni in armi. Distruzione, profughi, morte. Crisi energetica. Attentati, omicidi, nucleare. Tutto in otto mesi.

La scuola di alta formazione politica italiana “…adesso tutti si accorgono della signora Ronzulli che ha come curriculum quello di essere un’infermiera e di aver gestito l’arrivo delle ragazze a Villa Certosa. Dove la vogliamo mettere, alla Sanità o all’Istruzione? ” cit. Dagospia Tutto il mio rispetto, solo in questo caso limitato e esclusivo, a chi impedirà a Caligola di nominare il proprio cavallo senatore…..con tutto l’amore per i nobili cavalli, che fanno i cavalli.

«La dispersione scolastica implicita, cioè l’incapacità di un ragazzo/a di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51% Nel corso della sua presentazione Tesauro ha affermato che in Italia esiste «una crudele ingiustizia generazionale perché la crisi ha colpito proprio i bambini. Non solo 1,384mila bambini in povertà assoluta (il dato più alto degli ultimi 15 anni) ma un bambino in Italia oggi ha il doppio delle probabilità di vivere in povertà assoluta rispetto ad un adulto, il triplo delle probabilità rispetto a chi ha più di 65 anni». ll presidente di Save The Children ha ricordato inoltre, che «più di due milioni di giovani, ovvero 1 giovane su cinque fra i 15 e i 29 anni, è fuori da ogni percorso di scuola, formazione e lavoro.

Incomprensioni russe. Esattamente un secolo fa, nel 1922, Il’in, Berdjaev e molti altri membri dell’intellighenzia che Lenin non riusciva a sradicare del tutto (ma che non poteva nemmeno far rimanere in Russia) furono mandati in esilio a bordo delle “navi dei filosofi”, per essere poi lasciati in Europa. Il’in divenne il portavoce del popolo russo bianco emigrato. Era legato a un gruppo di pensatori dell’epoca conosciuti come “eurasiatisti” – l’idea risale a qualche anno prima – e credeva come loro che l’Unione sovietica non sarebbe durata a lungo. Nel 1950 scrisse il saggio What the Dismemberment of Russia Will Mean to the World (“Cosa comporterà lo smembramento della Russia per il mondo”), in cui spiegava cosa sarebbe successo quando l’esperimento marxista fosse fallito. Il’in Ilyin sosteneva che la Russia non fosse uno Stato-nazione come quelli occidentali: per lui era una specie di organismo, un’unità mistica sovrastorica, un po’ come il Volk tedesco ma con un’impronta più cristiana. Quando l’Unione sovietica sarebbe crollata, quest’unità organica sarebbe stata smembrata in altre entità più piccole, separate e indipendenti, che sarebbero state poi assorbite dall’Occidente, neutralizzando così la potenza russa – cosa che, secondo Il’in, l’Occidente ha sempre voluto fare (Il’in è una importante fonte per chi sostiene l’esistenza di una russofobia in Occidente).

Linguaggio a vanvera. Il linguaggio divisivo che sperimentiamo lo è anche per la sua mancanza di rispetto e per la sparizione del dialogo. Un linguaggio che esprime la furia di tutti contro tutti, che racconta l’impotenza di chi sta male e vorrebbe fare qualcosa per stare meglio ma si rende conto della propria inutilità, scarsa autostima e impossibilità di cambiare le proprie condizioni materiali di esistenza. Senza rispetto è anche il linguaggio televisivo di molti talk show, costruiti con ostentazione per élite benpensanti, a tratti intimidatori e linguisticamente manipolatori. In mancanza di rispetto e diventati abili nel praticare la brutalità del linguaggio siamo sempre pronti a scontri improvvisi, a comportamenti aggressivi, espressione di una indifferenza crescente verso gli altri, di tensione diffusa ma soprattutto di instabilità e malessere psichico dalle conseguenze imprevedibili. Cit. Mazzucchelli.

Come l’infosfera sta cambiando il mondo. Luciano Floridi a #Maestri «Nessuno controlla il sistema in modo globale, e la struttura stessa di internet garantisce che nessuno potrà controllarlo in futuro. Internet promuove la crescita della conoscenza creando al contempo forme di ignoranza senza precedenti» La sparizione di una qualsiasi antropologia.

Il filologo tedesco in spiaggia. Il Comune di Atrani e il famoso filologo tedesco Dieter Richter litigano per un lettino in spiaggia. Uno scontro iniziato sul bagnasciuga e poi culminato online con post e comunicati. Tutto inizia quando lo studioso denunciato via internet di essere stato «discriminato» perché gli sarebbe stato rifiutato di accedere in spiaggia prendendo un solo lettino («o due a 35 euro o niente»).

Ideologie politiche del nuovo millennio Democrazie liberali,Nazionalismi tecno capitalistici,Eurasia,Europeismo atlantico, dittature religiose, democrazie orientali.

Pace ma non troppo. Manifestare per la Pace. Dopo circa 8 mesi di bombe, morti, profughi. I famosi riflessi pronti. Che tempismo. E purtuttavia c’è chi storce il naso. Ad alcuni non piace chi lo propone. E inoltre bisogna chiarire prima: e le armi, e il sostegno? Troppi distinguo. Pace sì ma non con quelli e senza condizioni. Ovvero, ciò significa, consapevoli o no, forse ipocriti: non pace ma guerra, ancora guerra, sì alla guerra.

Dissenso inatteso. Incredibile. Nel paese teocratico atomico, delle donne nascoste e sottomesse. Nel paese del partito unico, di Stato, comunista e capitalista, di decennale potere indiscusso. Dalle piazze e da un cavalcavia.

img: © Non conosciamo la proprietà intellettuale della foto utilizzata, ovemai qualcuno ne richiedesse il riconoscimento ce lo comunichi.

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Filosofia, Linguaggio

Wittgenstein: regola e uso. 100 anni dal Tractatus

Sul concetto di significato nel pensiero di Ludwig Wittgenstein

“Le parole sono azioni.” (L.W. Pensieri diversi 1945)

In questo scritto cercheremo di ripercorrere il passaggio dalla Picture Theory of language di Ludwig Wittgenstein, così come fu teorizzata nel Tractatus del 1922, alla teoria dei giochi linguistici delle Ricerche filosofiche (1953) e di  caratterizzare come il significato venga inteso dal filosofo austriaco nei due diversi periodi dei suoi studi.

In questo testo le diciture primo e secondo Wittgenstein sono convenzionali in quanto usate dalla maggior parte degli studiosi del filosofo e rappresentative delle due fasi del suo pensiero. Bisogna specificare che il riferimento al primo periodo corrisponde alla pubblicazione del Tractatus del 1921, mentre il secondo periodo, come è noto, lo si fa corrispondere alle Ricerche filosofiche del 1953, un testo che però fu pubblicato postumo.

Ludwig Wittgenstein nacque a Vienna nel 1889 ultimo figlio di una delle più facoltose famiglie della capitale austriaca, di origine ebraica convertita al cristianesimo. Wittgenstein studia ingegneria meccanica a Berlino e in seguito e si iscrive all’Università di Manchester con l’obiettivo di perfezionare gli studi tecnici. La lettura di Principi della matematica di Bertrand Russel e la conoscenza di Gottlob Frege a Jena lo indirizzò verso gli studi filosofici in particolare alla logica. Tra il 1911 e il 1921 tra diverse vicissitudini personali, tra cui la Grande Guerra come soldato austriaco e prigioniero in Italia, scrisse quello che sarà il testo più importante della sua vita.

Il Tractatus venne pubblicato nel 1921, quando Wittgenstein riuscì ad accordarsi con una piccola rivista filosofica tedesca Annalen der Naturphilosophie, con il titolo Logisch-philosophische Abhandlung, che scontentò l’autore per gli errori e i refusi contenuti. Fu solo l’anno successivo grazie all’interessamento e con un’introduzione di B. Russell che il libro venne pubblicato in inglese, (Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, a cura di C. K. Ogden e F. P. Ramsey, Kegan Paul, Trench, Trubner & Co., 1922). Analogamente a Russel, Frege e Moore, l’interesse di Wittgenstein era inizialmente teso ai fondamenti della matematica e alla logica. Alla sua pubblicazione il Tractatus Logico-Philosophicus, strutturato secondo sette rigorose proposizioni fondamentali, e in seguito per la serie di commenti e le interpretazioni che susciterà, eserciterà un’influenza molto significativa sulla filosofia del tempo e quella a seguire, e avrà un influsso specifico nello sviluppo di alcune correnti filosofiche del ‘900 quali l’atomismo logico, il Neopositivismo e la Filosofia analitica, così come eserciterà una certa influenza anche in altri ambiti quali, ad esempio, la teoria dell’informazione e la psicologia.

Il primo approccio al linguaggio, così come lo presentò nel Tractaus logico-philosophicus, in Wittgenstein fu essenzialmente logico, per il filosofo infatti una proposizione e ciò che essa esprime devono avere una forma logica. Per il Wittgenstein la logica mostra il mondo. Il filosofo sosteneva l’idea che esista un linguaggio privilegiato artificiale per accedere al mondo. Era quanto egli proponeva nel Tractatus, in piena continuità con i fondazionalisti della logica e matematica suoi maestri, ovvero Bertrand Russell (1870-1972) e Gottlob Frege (1848-1925). La logica formale contemporanea nasce dall’estremo scetticismo dei filosofi sul linguaggio ordinario, concepito come vago e ambiguo. Sia la vaghezza che l’ambiguità erano proprietà che rendevano il linguaggio non necessariamente inutile, ma sostanzialmente inadatto a risolvere i problemi alla base della filosofia e della matematica. Nel Tractatus Wittgenstein affermava che “La totalità delle proposizioni è il linguaggio” e lo scopo dichiarato dell’opera era quello di mostrare che i problemi filosofici si fondano sul fraintendimento della logica del linguaggio. Nel Tractatus Wittgenstein introduce la nozione di linguaggio ideale, di cui la logica rappresentava il modello e il linguaggio di tutti i giorni vi si poteva avvicinare più o meno.

Il tema principale dell’indagine di Wittgenstein è quindi il rapporto tra linguaggio, mondo reale e pensiero, partendo dalla constatazione che il mondo non è l’insieme delle cose, bensì dei fatti. Nel Tractatus troviamo due teorie degli enunciati che si sostengono a vicenda: la teoria dell’enunciato come immagine, e la teoria dell’enunciato come funzione di verità. L’enunciato però non possiede una forma specifica di raffigurazione, ma come tutte le immagini ha qualcosa in comune con la situazione rappresentata. Infatti, diversi tipi di immagine hanno in comune con la realtà certi aspetti della propria forma di raffigurazione (la scultura gli aspetti tridimensionali, la pittura i colori, il disegno le proporzioni). L’enunciato, cioè l’immagine costituita da simboli, non può condividere con la realtà questi aspetti concreti ma deve pur sempre avere qualcosa in comune con essa: ovvero la sua forma più astratta, la sua forma logica. Il pensiero e il linguaggio non sono la realtà, ma hanno delle strutture in comune con questa. Il linguaggio non può che essere la proposizione: gli oggetti, dice Wittgenstein, possono solo essere nominati, ma non ci dicono nulla della realtà.

Noi facciamo immagine della realtà, come detto, tramite il linguaggio e il pensiero. Scrive Wittgenstein nel Tractatus: “La proposizione è un’immagine della realtà. La proposizione è un modello della realtà quale noi la pensiamo” La proposizione elementare è per Wittgenstein una raffigurazione, un’immagine, di un fatto elementare , ossia di uno stato di cose. “La proposizione mostra come stanno le cose, se essa è vera. E dice che le cose stanno così.” Wittgenstein descrive così la logicità del mondo, che non è logico in sé: il mondo diventa logico in quanto è possibile descriverlo tramite proposizioni, cioè con il linguaggio. Con la teoria delle funzioni di verità Wittgenstein definisce la visione estensionale della logica, detta estensionale perché il valore di verità di un enunciato è chiamato anche la sua estensione. Per il principio di funzionalità, l’estensione di un enunciato è funzione dell’estensione delle parti componenti.

Secondo Wittgenstein, nel Tractatus, il linguaggio è una copia del mondo. Il mondo reale è la totalità dei fatti, come abbiamo visto, cioè di ciò che accade. Il linguaggio è una raccolta di proposizioni. Una proposizione vera esprime un fatto reale. Esistono fatti reali e proposizioni vere in misura uguale. Questa è in sintesi la teoria delle raffigurazioni (teoria dell’immagine).

Wittgenstein salda la logica alla teoria del linguaggio. Dunque: linguaggio da una parte e mondo dall’altra; il primo raffigurazione del secondo, una raffigurazione in cui la struttura “si mostra” e non può essere descritta. Questa distinzione fra “dire” e “mostrare” è fondamentale nel Tractatus: una proposizione mostra, ma non dice la sua forma logica. L’oggettività del pensiero è per il filosofo espressa nel linguaggio secondo il senso dei termini e degli enunciati sul mondo; che la filosofia sia chiarificazione logico-linguistico-concettuale è l’idea del Tractatus, del cosiddetto primo Wittgenstein.

Nei testi pubblicati postumi con il titolo Blue Book e Brown Book (The Blue and Brown Books, edito da R. Rhees. Blackwell, Oxford, 1958) relativi a trascrizioni del 1935 è possibile già intravedere la genesi delle riflessioni del filosofo che poi andranno a formare il corpus delle Ricerche filosofiche.

Circoscrivere e spiegare il passaggio logico – filosofico delle riflessioni di Wittgenstein dal Tractatus alle Ricerche e la conseguente diversa interpretazione del linguaggio stesso e della questione del significato vale a  riassumere studi e confronti che impegnarono Wittgenstein per sedici anni, dal 1929 al 1945,  per quasi un ventennio di riflessioni, determinate dal suo ritorno a Cambridge in qualità di docente. Si possono esemplificare i due elementi già richiamati: linguaggio privato e paradosso del seguire le regole.  Wittgenstein si chiede se sia possibile un linguaggio che possa interpretare gli stati individuali e privati di ognuno di noi, le proprie esperienze intime ed interiori, sentimenti, umori, infine arrivando a negare questa possibilità. In Ricerche filosofiche nel paragrafo 201 Wittgenstein scrive: «il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo d’agire, poiché qualsiasi modo d’agire può essere messo d’accordo con la regola». Questo estremo scetticismo, che vede l’impossibilità di far risalire un comportamento al rispetto di una qualsiasi regola predeterminata, porta l’autore a definire il linguaggio, come vedremo, esclusivamente come uso, determinato in ciò da regole di volta in volta scelte dai parlanti nel contesto utilizzato. In sostanza Wittgenstein afferma : “quali sono le circostanze adatte in cui è appropriato fare una determinata asserzione?” Un riferimento per questo aspetto della filosofia di Wittgenstein su regole e linguaggio privato è il testo Wittgenstein on Rules and Private Language, 1982, di  Kripke.

Pare che l’occasione per ripensare la sua teoria del linguaggio, così come espressa nel Tractatus, del 1922, Wittgenstein la ebbe in un colloquio con Pietro Sraffa, economista italiano esiliato a Londra per motivi politici, il quale chiese al filosofo quale referente logico avesse il tipico gesto italiano che porta la mano raccolta alla sommità delle dita sotto il mento, che si può tradurre con non m’interessa, me ne frego, non m’importa. Questa domanda fece molto riflettere Wittgenstein, che negli anni ’30 del novecento rivide parzialmente le sue teorie sul linguaggio.

Superando la propria prima teoria logico-linguistica raffigurativa o pittoriale di pensiero e conoscenza rispetto alla realtà, il cosiddetto secondo Wittgenstein vedeva ogni forma o struttura logica reale oggettiva assumere il senso solo all’interno di un linguaggio e legava la verità al significato: all’analisi espressivo-concettuale. Wittgenstein sembra dire che non ci sono atomi logico-linguistici speculari degli atomi empirico-fattuali: così la filosofia si sgancia dalla scienza; la filosofia descrive e non prescrive, chiarisce ma non conosce.

In Ricerche filosofiche, (Philosophische Untersuchungen, in inglese Philosophical Investigations)  pubblicate due anni dopo la morte dell’autore, nel 1953, il linguaggio non è più inteso come regola e protocollo delle proposizioni elementari logicamente ordinate, ma come un insieme di espressioni che svolgono funzioni diverse, nell’ambito di pratiche e regole discorsive differenti, secondo la Teoria dei giochi linguistici. Se permane una continuità tra le due opere principali del filosofo austriaco, il Tractatus e le Ricerche, essa risiede nel fondamentale interesse dell’autore per il linguaggio, e per la sua concezione della filosofia, intesa come attività di chiarificazione del linguaggio. Nelle Ricerche il linguaggio è sempre comune, non esiste un linguaggio privato. Il linguaggio, per Wittgenstein, è una forma di vita, il nostro modo di essere.

23. But how many kinds of sentence are there? Say assertion,  question, and command? – There are countless kinds: countless  different kinds of use of what we call “symbols”, “words”, “sentences”. And this multiplicity is not something fixed, given once  for all; but new types of language, new language-games, as we  may say, come into existence, and others become obsolete and  get forgotten. (Wittgenstein L., 1953, Philosophical Investigations, McMillan, New York.)

Il linguaggio ordinario è il nostro stesso universo, composto di più parti, e limitarsi ad una sua sola parte, considerandola come corretta, è soltanto fuorviante. Il linguaggio ordinario non ammette argini e steccati e non ha neppure senso chiedersi se esista un linguaggio più preciso e meno ambiguo. L’ambiguità, infatti, non nasce dal fatto che uno stesso segno può attribuirsi a più cose, rendendo il segno un qualcosa di intrinsecamente ambiguo. Ogni espressione linguistica ammette più interpretazioni perché l’applicazione della grammatica del linguaggio a varie espressioni segue regole diverse e la stessa aderenza alla regola cambia in base all’uso.

Il significato dunque non dipenderà più dalle condizioni di verità, ma dalla sua accettazione e dalla sua condivisione all’interno di una comunità linguistica. A differenza del Tractatus, nelle Ricerche la logica non è più normativa, ma nel linguaggio quotidiano sono contenute le regole del suo stesso funzionamento.

“Gioco linguistico” significa che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita.

“Negli ultimi anni gli interessi di Ludwig Wittgenstein si allontanarono dalla logica per accostarsi all’analisi linguistica… Forse la tesi fondamentale delle sue ultime teorie filosofiche è che il significato di una parola consiste nel suo uso… Ludwig Wittgenstein ha introdotto l’analogia dei giochi linguistici… il linguaggio… ha regole che devono essere osservate da chi partecipa al gioco… Ludwig Wittgenstein ha ripudiato completamente la precedente elaborazione logica del Tractatus logico-philosophicus» (Bertrand Russell, La saggezza dell’Occidente, 1959, TEA 2012, p. 407).

Il Tractatus analizzava il linguaggio senza tenere conto delle circostanze nelle quali viene utilizzato, nelle Ricerche filosofiche invece Wittgenstein riconosce l’importanza del modo di vita e delle attività che fanno da sfondo alle espressioni linguistiche usate di volta in volta, la corrente di vita che sottende alle forme linguistiche usate è essa stessa parte del linguaggio in uso, questa è la teoria dei giochi linguistici. Il linguaggio, nel secondo Wittgenstein, è un fatto astratto e concreto, quando assume una certa forma reale (una proposizione, ad esempio). La sua realtà dipende dall’uso che determina una particolare forma del linguaggio, ovvero una sua formulazione concreta. La “formulazione concreta” è un’applicazione specifica del linguaggio: non è un caso che la parola “application” ricorra nelle pagine proprio perché è il contraltare concreto dell’astratta grammatica del linguaggio.

Quindi, ritornando alla questione iniziale, cosa si può dire della teoria del significato in Wittgenstein? Che cosa significa una parola? Non esiste una interpretazione univoca della domanda, non c’è una logica privilegiata per affrontare questo quesito. Può essere mostrato solo in controluce l’insieme degli usi possibili del significato di una parola, analizzandone gli usi effettivi e, al massimo, la generale grammatica della parola, che non va intesa come le regole del linguaggio, che non sono mai univoche né mai definite una volta per sempre né hanno applicazioni universali. Il significato di una parola è il suo uso, come afferma Wittgenstein: il linguaggio è una forma di vita. Per determinare il significato di una parola, dunque, sarà necessario conoscere le “regole del gioco”, tra cui la grammatica, il contesto socio-culturale, la vita dei partecipanti, l’ambiente. Ma – aspetto di fondamentale importanza –, il linguaggio può significare qualcosa solo se gli attori che prendono parte a un dialogo condividono le stesse “regole”.

“La parola «significato» si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio. E talvolta il significato di un nome si definisce indicando il suo portatore.” (Ricerche filosofiche)

img: rielaborazione da Adelphi, Pensieri Diversi

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Filosofia

La Città ideale di Platone.

Nell’estate del 2022 ho collaborato con Alessio Nardin, regista, autore, attore.

Discutemmo, al mercato in un caffè, di arte, filosofia e teatro e mi chiese un testo su Platone, su La Repubblica in particolare, da utilizzare per un film che stava girando sul tema del lavoro.

Il docufilm dal titolo Epos et labor è stato presentato in anteprima a Venezia, nell’ambito della Mostra del Cinema, il 9.9.22

Questo è il testo.

Come bisogna vivere? Questo chiede Platone nel dialogo La Repubblica, che si dovrebbe dire Politeia, il vero titolo dei dialoghi cioè la costruzione della cosa comune. Repubblica è la traduzione latina di politeia, res publica, la cosa pubblica. Se la giustizia deve essere alla base di un governo e di una città ideale è necessario parlare di anima, educazione di lavoro e  virtù. Questo perché conoscenza e potere sono intimamente intrecciati. Platone dice che lo scopo e il fondamento di una comunità politica basata sulla ragione è la giustizia. La giustizia per Platone è ciò che rende virtuose le altre capacità umane. La giustizia garantisce l’unità e la forza dello stato. La realizzazione della giustizia nell’individuo e nello stato non può che procedere parallelamente. Nessuna comunità umana può sussistere senza la giustizia. Lo stato è giusto quando ogni individuo attende solo al compito che gli è proprio; ma l’individuo che attende solo al compito proprio è esso stesso giusto. Platone ritiene che lo Stato debba aiutare le persone a sviluppare le virtù cardinali: sapienza, coraggio, temperanza e giustizia, perché l’anima è divisa in tre parti: razionale, volitiva e concupiscibile, e solo l’armonia di queste porta alla giustizia. Queste virtù corrispondono alle diverse classi sociali: i governanti, i guerrieri e gli artigiani. Per raggiungere l’armonia in uno Stato è necessario che ogni cittadino svolga nella società il compito che meglio corrisponde alla qualità della sua anima. Platone progetta una comunità politica unita che si distacchi da quella tradizionale fatta di appartenenze e privilegi di ceto e di censo e che permetta l’identificazione del cittadino con l’anima della polis. Per questo povertà e ricchezza smisurate non possono sussistere e dividere i cittadini tra loro, così come gli interessi privati nel bene pubblico devono essere impediti. Etica e politica devono crescere insieme. La malattia della città è lo specchio della malattia dell’anima. Lo squilibrio tra la parte razionale dell’anima e quella irrazionale genera disarmonia e infelicità, è così anche per lo Stato e nella gestione del bene comune. Oikos significa proprio questo: la struttura comunitaria giusta come modello ideale di politica. I legami e i ruoli sociali, il lavoro, la proprietà, la famiglia, sono tutte realtà che Platone pensa di modificare in funzione del Bene superiore, aggiunge che tutte le donne dovrebbero essere di tutti gli uomini e viceversa, e che le donne possono essere guerriere e filosofe regine. Platone immagina che i produttori e i commercianti, i soli che potranno godere del possesso di beni e denaro, mantengano materialmente i legislatori, i sapienti, i migliori (filosofi) che hanno il compito di diventare classe dirigente. I custodi dovranno tutelare la comunità dai nemici. La città governata da uomini giusti formerà cittadini giusti.  Platone lo dice: questo è un modello ideale, un “paradigma in cielo”. Il modello della città giusta è però la sola finalità politica degna di essere perseguita, un’utopia progettuale. La Repubblica si apre con una riflessione sulla vecchiaia e si chiude con un mito che parla di rinascita. Nel mezzo si trova una straordinaria narrazione sul sapere: solo chi ha contemplato il Bene, la conoscenza, (di cui parla il mito della caverna) può essere educatore/reggitore della Città ideale. L’uomo giusto che insegue il bene sarà portato ad assecondare la propria intima vocazione e troverà un posto nell’organizzazione corretta dell’oikos, la casa comune. Platone ritiene che per vivere nel giusto bisogna fare piazza pulita delle opinioni (doxa) e ottenere la conoscenza corretta (epistème) attraverso la ragione, la conoscenza, il sapere.

img: Atene 1869 arts craft and architecture

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Poesia

Rimbaud. Aphinar, l’inesausto salpare.

Il servizio di Aphinar è l’ultimo desiderio del fu poeta ragazzino divenuto commerciante avventuriere 37enne, sul letto dell’ospedale di Marsiglia da dove chiedeva di prenotare un posto a bordo di buon mattino per salpare da Suez. Aphinar non esiste, è un’evocazione nel delirio da morfina di Rimbaud sul letto di morte, è l’estrema utopia di un carattere inquieto, desiderante, proiettato costantemente verso un altrove capace di racchiudere tutte le possibilità, dove sia lecito possedere la verità in un’anima e  in un corpo. Forse sognava la partenza abbracciando l’alba d’estate, con l’aria marina che brucia i polmoni, in un grande vascello d’oro con bandiere multicolori nella brezza del mattino, il mare che si confonde con il sole.

Privo di una gamba da 5 mesi, amputata per quel che allora pareva un’infiammazione al ginocchio, e probabilmente era un tumore, incapace di muoversi anche con le stampelle per i continui dolori, rabbioso, triste, disperato, Rimbaud spera ancora in una nuova partenza. Come ha fatto per tutta la vita. Insoddisfatto, inquieto, mai domo, sempre in cerca di un altrove. Venga, che venga il tempo che di sé innamora, scriveva vent’anni prima. La sorella Isabelle lo sostiene, lo accompagnerà nei suoi ultimi giorni. La morfina lo aiuterà a lenire il dolore e lo sentiranno mormorare frasi e lunghi discorsi molto dolcemente con una voce che incanta, dirà Isabelle.

Rimbaud scrisse le poesie per cui oggi lo ricordiamo tra i 15 e 20 anni. Scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini. Studente modello della scuola del paese, orgoglio di una madre rigida, conservatrice, devota e figlia delle Ardenne, estrema periferia rurale della Francia verso il Belgio. La poesia nello spirito adolescente fu detonatore per la sua indole randagia, il suo vagabondare. Quando arrivava la primavera non sapeva resistere e partiva. L’elenco delle località che visitò tra i 20 anni e i 37 quando morì è impressionante. Germania, Belgio, Gran Bretagna, Italia, Svizzera, Austria, Cipro, Gibilterra, Aden, Sumatra, Batavia, Giava, Irlanda, Danimarca, Svezia, Egitto, Etiopia, Mar Rosso, Corno d’Africa, Yemen. In circa 15 anni. Fu poeta, insegnante, giornalista, bigliettaio in un circo, operaio, scaricatore di porto, si arruolò nelle milizie coloniali, disertore, responsabile di una cava, sorvegliante, impiegato in una ditta di caffè, infine commerciante di gomma, pelli e cotone, caffè, oro e avorio.

Fuggiva dalle nebbie di Charleville nelle Ardenne. Da Aden, nella penisola arabica, scrive alla famiglia nel 1880 che si annoia, “il posto più noioso sulla terra“, ma, aggiunge “subito dopo quello abitato da voi”. Su questo fu sempre della stessa opinione. “Muoio, mi decompongo nella mediocrità, nella meschinità, nel grigiastro.” Così scriveva a G. Izambrad suo professore (colui che lo sostenne e a cui dobbiamo le sue prime poesie che conservò), da Charleville all’indomani della sua prima fuga nel 1870 a 16 anni e del conseguente arresto per vagabondaggio, da cui lo soccorse l’insegnante.

Nel 1871 scrisse la nota lettera del veggente in cui teorizza la sua formula poetica, la sua estetica: il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi. Amore, sofferenza, follia. Per giungere all’ignoto con l’intelligenza delle proprie visioni con fede e forza sovrumana. Sogna un linguaggio nuovo, rompe con il verso alessandrino che era il canone poetico francese del tempo, propone un materialismo totale, poesia oggettiva, scriverà in prosa. Dario Bellezza dice che la poesia di Rimbaud  è un accostamento ardito tra sensibile e metafisico. Se la visionarietà è la sua eccellenza il materialismo in nuove forme ne è il corrispettivo sensibile. Dai mazzi di raso bianco e verghe di rubino, alle mani di Marie, fogne, carne sanguinolenta, fumo di carbone e fango della strada. Rimbaud è anche in questo un visionario salto acrobatico romantico verso il ‘900. Scrisse: verrà il tempo d’un linguaggio universale. Questa lingua sarà anima per l’anima, riassumerà tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e tira. Questo futuro sarà materialista. Lo scrisse bene lui stesso evocando la sua arte poetica: Ho steso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella, e danzo. Questo era il suo programma e cercò di metterlo in opera per i successivi 4 anni.

Fu a Parigi negli anni della Comune della quale sposava gli ideali. Ne rimase deluso, e maltrattato, come lo deluse l’ambiente letterario, i parnassiani, le riviste. Il successo non gli arrise. Fece scandalo, litigò con tutti. Restò solo con Verlaine, in un turbinio folle di poesia, alcool, stupefacenti, vagabondaggi, fughe e ritorni. Ma Boheme, un copione che diventerà il vademecum di tutti gli aspiranti poeti maledetti artistoidi del ‘900, la vita bohemienne. Fino alla rottura, allo sparo famoso, la ferita, il processo e quindi la separazione tra i poeti. Da tutto ciò nacque Une saison en enfer, Una stagione all’inferno, pubblicato nel 1873. Una stagione all’inferno fu l’unico testo che decise di far stampare, a Bruxelles, a spese della madre. Il tipografo non fu pagato, l’autore ritirò alcune copie, il resto lo lasciò lì dove fu ritrovato nel 1901, nei magazzini della stessa tipografia della capitale belga, la Alliance Typographique (MJ Poot et Compagnie), dove giacevano ancora le copie non pagate e quindi non  ritirate da Rimbaud. Une saison è un canto di disfatta e fallimento e chiude un periodo di sperimentazione. Si chiude con Adieu, l’addio al tempo magico dell’adolescenza ribelle. Seguono le poesie di Illuminations, composte forse tra la fine del 1872 e il 1874, e consegnate a Verlaine, pubblicate postume rappresentano l’ultima opera in prosa, per molti il suo capolavoro.  

Quindi una cesura netta, una trasformazione radicale di vita. Dopo il litigio con Verlaine parte per Londra con l’idea di diventare guida, accompagnatore, insegnante o giornalista. Da lì in poi ogni suo tentativo è quello di affrancarsi professionalmente e integrarsi come possibile nella vita ordinaria. A trent’anni ipotizzerà anche il matrimonio e il ritorno in Francia. Ci tornerà solo gravemente malato.

Poco indagata la figura del padre, militare di professione di stanza in Africa che abbandona la famiglia, da cui il figlio prese lo spirito d’avventura e quel che sapeva sull’arabo che gli servirà dopo la poesia. Ipotizzata la conversione all’islam, una volta scoperte le manipolazioni della sorella sugli ultimi giorni, è sicuramente certa la sua religiosità testimoniata dalle sue poesie, piene di Dio, di anima e di metafisica, da non confondere con l’anticlericalismo esplicito. Nessuno ancora sa spiegare la genesi e il senso delle prose nominate postume Poesie dette evangeliche, che non sono opere giovanili, ma si collocano tra Voyelles e Une saison en enfer, 1873 e sono un confronto con la figura di Gesù nel Vangelo di Giovanni, negli episodi della samaritana, le nozze di Cana e la guarigione dell’infermo. “Avanziamo verso lo Spirito. Lo Spirito è vicino, perché Cristo non mi aiuta donando alla mia anima nobiltà e libertà?” Scriverà ancora in Saison en enfer: ”Ho detto: Dio. Voglio la libertà nella salvezza: come ottenerla? Se Dio mi accordasse la calma celeste, aerea, la preghiera- come i santi antichi-. I santi! Gente forte! Gli anacoreti, artisti come non se ne ha più bisogno! In Mauvis sang, Dio è riscatto del derelitto, del povero, della razza inferiore: J’attends Dieu gourmandise.

Precursore di una idea nuova di donna poeta scrisse: Verranno questi poeti! Quando sarà spezzato l’infinito asservimento della donna, quando lei vivrà per sé e da sé, dopo che l’uomo – finora abominevole – l’avrà congedata, sarò poeta anche lei! La donna troverà la sua parte d’ignoto! I suoi mondi d’idee saranno diversi dai nostri? – Lei troverà cose strane, insondabili, repellenti, deliziose, le prenderemo, le comprenderemo.

Troppo indagata e accusata, conseguenza di un eccessivo e invadente nonchè sfranto freudismo, la madre. Etichettata come fredda, bigotta, avara, insensibile, conservatrice, sembra essere la responsabile di tutto ciò che accade al figlio Arthur. Piccola possidente terriera delle Ardenne, abbandonata dal marito con i figli piccoli, si vede un figlio scappare di casa a 15 anni e tornare ferito da uno sparo e inseguito dalle voci di una presunta promiscuità e sregolatezza. La si può capire, E aggiungere che, conoscendo la abitudini familiari, sue e del ramo familiare del marito, vagabondaggio congenito, dedizione all’alcool, fuga dalle responsabilità, gusto dell’avventura, è probabile che fu l’unica a indovinarne il tragico destino.

Di Rimbaud non colpisce, – ma certo è notevole -, come sottolineò la critica letteraria degli anni ‘60/’70 del Novecento, la precocità del talento, né il ribellismo adolescente, il rifiuto della morale cattolica e del sistema borghese di fine ‘800, (molto troppo sottolineato visto il repentino convertirsi del poeta alla logica affaristica europea colonialista, estrema aderenza al modello occidentale laico e scientifico) nemmeno il rapporto con Verlaine è in fondo degno di particolare nota, se si conoscono un poco i greci e Socrate. Tutto oggi trito e ritrito, divenuto cliché e veramente poco costruttivo, il ribellismo è divenuto caricaturale, di facciata. In ogni caso questi sono tutti aspetti e caratteristiche che la critica e gli studiosi quasi sempre sottolineano e hanno fatto buona parte della fortuna di Rimbaud.

Il dato esistenziale non è solo scandaloso, è essenziale perché in Rimbaud colpiscono la selvaggia visionarietà, la noncuranza, la poca cura per la carriera, per la pubblicazione, per il riconoscimento. Fu senza compromessi. Gli mancò, e come poteva non mancargli in fondo aveva 16 anni, il senso del mestiere, dell’apprendistato, la pazienza, la costanza. Ma custodisce la sprezzatura. Mi sono riconosciuto poeta, disse e questo gli bastava. Poeta visionario di immagini inaudite. Che non ha mai inteso costruirsi una vera carriera letteraria. In Africa quando gli scrivono che in patria è il capostipite dei poeti emergenti oppone totale indifferenza, nemmeno risponde, perché è già proiettato in un altrove di vita, di progetto esistenziale, molto concreto: fare soldi con affari discutibili. E’ il suo perpetuo andare oltre, superarsi in nuove e inesplorate esperienze, di poetica e di vita vissuta. Questo è il suo tratto distintivo. Rimbaud è il poeta trascendente perennemente in cerca di diventare altro, Je est en autre, io è un altro.

Questo offre e chiede Rimbaud, andare oltre, anche oltre lui stesso, superarlo, non è possibile sostare in lui restare imberbi e abbagliati.

Al margine della foresta – i fiori di sogno tintinnano, scoppiano, illuminano, – la fanciulla dal labbro d’arancia, le ginocchia incrociate nel chiaro diluvio che sgorga dai prati, nudità ombreggiata, attraversata e vestita dagli arcobaleni, dalla flora, dal mare.( Infanzia – Illuminations 1873-1874)

img: repubblica.it

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Caffè filosofici, pratica filosofica

2022 Pensare il presente, immaginare il futuro

Caffè Filosofici 2022

a cura di Davide Ubizzo, consulente filosofico

2022 Pensare il presente, immaginare il futuro

La complessità della situazione reale che ci circonda, sulla quale influiscono processi di globalizzazione, dinamiche geopolitiche, l’istantaneità delle comunicazioni e lo sviluppo di una pervasività digitale senza precedenti, pur richiedendo soluzioni e adattamento sempre veloci e incisive, richiede anche un supplemento di riflessione, un pensiero lento e paziente, capace di tracciare un profilo di senso unitario, al di là delle notizie, distorte, multidimensionali e spesso allarmistiche offerte dagli organi di informazione.

L’oggi è il tempo che più di ogni altro ci appare attraversato da una crisi radicale, in cui lo stesso tentativo di attribuire senso alla realtà si scontra con l’assoluta mancanza di ogni significato.

“(…) tutt’altro che eliminata la minaccia nucleare, sempre in atto la politica di rivalità tra le grandi potenze, non spenti pericolosi focolai di guerra, ancora in atto guerre coloniali, tre milioni di uomini morti di fame ogni mese nel mondo, per nulla superate anche negli stessi paesi evoluti sperequazioni e attriti di classe, di razza, persino di regione. La civiltà di questi ultimi sembra essere caratterizzata dal prepotere del consumo, anzichè dal rispetto della dignità e dalla preoccupazione di liberare l’uomo.”

Calendario e argomenti degli incontri:

Martedì 7 Giugno ore 17.30
Sull’orlo del precipizio: affrontare la complessità del presente

Società, informazione, cultura, politica, tecnologia, lavoro, giovani, educazione, economia, nessuno di questi ambiti si può dire al riparo da un’idea di crisi che permea tutto il nostro mondo della vita quotidiana e il nostro pensare la realtà. La nostra visione del mondo appare velata da uno schermo di mancanza di senso o peggio da una privazione di prospettiva.

Martedì 14 giugno ore 17.30
Infosfera e nuovi linguaggi: il labirinto della rete

Soggetti di dati, siamo così definiti anche dalla UE – l’algoritmo fa le veci nell’odierna società del conosci i te stesso, è Socrate nell’ipersfera,  perché ti analizza personalizzando la tua offerta in rete. Flussi di dati elaborati da un algoritmo che li rielabora in discesa a mia forma. L’algoritmo saprà cosa io desidererò domani. L’algoritmo sarà me stesso.

Martedì 21 giugno ore 17.30
Nello sciame. Rivoluzione digitale e informazione nella cultura contemporanea

“La tecnologia sta portando alle estreme conseguenze, con risultati paradossali e paralizzanti, alcuni miti e concetti fondativi: identità, anima, libertà, tempo, morte”

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