Attualità

Vivi nascosto: i fatti del mondo e l’inclemenza del tempo.

Le prime tre proposizioni del Trattato di Wittgenstein assegnano ai fatti la realtà del mondo: Il mondo è tutto ciò che accade. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. Il mondo è determinato dai fatti e dal loro essere tutti i fatti. Insomma Wittgenstein fattualizza il mondo. Secondo queste riflessioni che tipo di mondo sarebbe il nostro? L’estetica del malessere è un diverso termine per qualificare la realtà contemporanea, ineffabile e innominabile attuale disse Calasso. Il fallimento di Heidegger che tentò di nobilitare l’essere-nel-mondo , con la fenomenologia dell’esserci, l’analitica esistenziale di Essere e tempo, con il risultato che il dasein è così banale e mediocre da ridurre la filosofia al quotidiano disagio del vivere. Angoscia, nulla, morte. La banalità del reale. Al dasein si aggiunge la filosofia dell’assurdo di Rensi, filosofo veronese, cioè la constatazione che l’assurdo regna nella realtà e nelle menti ed è fondamento della religione. Ontologia e pessimismo come metro paradigmatico, anche il comico come essenza del tragico di Ionesco definisce bene il presente. Il rimedio forse è rifugiarsi dall’inclemenza del tempo, che fu la scappatoia realista prospettata da Gomez Davila. Del resto già il neopitagorico Apollonio di Tiana suggeriva di vivere nascosti.

«La dispersione scolastica implicita, cioè l’incapacità di un ragazzo/a di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51%

Nel corso della sua presentazione Tesauro ha affermato che in Italia esiste «una crudele ingiustizia generazionale perché la crisi ha colpito proprio i bambini. Non solo 1.384 mila bambini in povertà assoluta (il dato più alto degli ultimi 15 anni) ma un bambino in Italia oggi ha il doppio delle probabilità di vivere in povertà assoluta rispetto ad un adulto, il triplo delle probabilità rispetto a chi ha più di 65 anni». ll presidente di Save The Children ha ricordato inoltre, che «più di due milioni di giovani, ovvero 1 giovane su cinque fra i 15 e i 29 anni, è fuori da ogni percorso di scuola, formazione e lavoro. In sei regioni, il numero dei ragazzi e delle ragazze Neet (acronimo di «not in employment, education or training», ndr) ha già superato il numero dei ragazzi, della stessa fascia di età, inseriti nel mondo del lavoro. In Sicilia, Campania, Calabria per 2 giovani occupati ce ne sono altri 3 che sono fuori dal lavoro, dalla formazione e dallo studio. Dati che – ha sottolineato – fanno a pugni con la richiesta del mondo produttivo».

https://www.corriere.it/scuola/secondaria/22_maggio_19/save-the-children-un-15enne-due-non-capisce-quello-che-legge

Incomprensioni russe

Esattamente un secolo fa, nel 1922, Il’in, Berdjaev e molti altri membri dell’intellighenzia che Lenin non riusciva a sradicare del tutto (ma che non poteva nemmeno far rimanere in Russia) furono mandati in esilio a bordo delle “navi dei filosofi”, per essere poi lasciati in Europa. Il’in divenne il portavoce del popolo russo bianco emigrato. Era legato a un gruppo di pensatori dell’epoca conosciuti come “eurasiatisti” – l’idea risale a qualche anno prima – e credeva come loro che l’Unione sovietica non sarebbe durata a lungo. Nel 1950 scrisse il saggio What the Dismemberment of Russia Will Mean to the World (“Cosa comporterà lo smembramento della Russia per il mondo”), in cui spiegava cosa sarebbe successo quando l’esperimento marxista fosse fallito. Il’in Ilyin sosteneva che la Russia non fosse uno Stato-nazione come quelli occidentali: per lui era una specie di organismo, un’unità mistica sovrastorica, un po’ come il Volk tedesco ma con un’impronta più cristiana. Quando l’Unione sovietica sarebbe crollata, quest’unità organica sarebbe stata smembrata in altre entità più piccole, separate e indipendenti, che sarebbero state poi assorbite dall’Occidente, neutralizzando così la potenza russa – cosa che, secondo Il’in, l’Occidente ha sempre voluto fare (Il’in è una importante fonte per chi sostiene l’esistenza di una russofobia in Occidente).

Linguaggio a vanvera

Il linguaggio divisivo che sperimentiamo lo è anche per la sua mancanza di rispetto e per la sparizione del dialogo. Un linguaggio che esprime la furia di tutti contro tutti, che racconta l’impotenza di chi sta male e vorrebbe fare qualcosa per stare meglio ma si rende conto della propria inutilità, scarsa autostima e impossibilità di cambiare le proprie condizioni materiali di esistenza. Senza rispetto è anche il linguaggio televisivo di molti talk show, costruiti con ostentazione per élite benpensanti, a tratti intimidatori e linguisticamente manipolatori. In mancanza di rispetto e diventati abili nel praticare la brutalità del linguaggio siamo sempre pronti a scontri improvvisi, a comportamenti aggressivi, espressione di una indifferenza crescente verso gli altri, di tensione diffusa ma soprattutto di instabilità e malessere psichico dalle conseguenze imprevedibili.

https://www.linkedin.com/pulse/il-mondo-divisodal-linguaggio-carlo-mazzucchelli

Antropologia digitale

“Stai cucinando il pollo ascoltando Lou Reed che hai scaricato da un’App on line e la ricetta è sull’Ipad.”

Luciano Floridi a #Maestri – Come l’infosfera sta cambiando il mondo

https://www.raiscuola.rai.it/scienzesociali/articoli/2021/11/Luciano-Floridi-a-Maestri

Il filologo tedesco in spiaggia

Il Comune di Atrani e il famoso filologo tedesco Dieter Richter litigano per un lettino in spiaggia. Uno scontro iniziato sul bagnasciuga e poi culminato online con post e comunicati. Tutto inizia quando lo studioso denunciato via internet di essere stato «discriminato» perché gli sarebbe stato rifiutato di accedere in spiaggia prendendo un solo lettino («o due a 35 euro o niente»).

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/22_giugno

C’è confusione.

Tuteliamo le minoranze e la libertà, al tempo stesso il “politicamente corretto” a tratti sfocia in una censura castrante per la stessa libertà (vedi il sensitivity reader nella narrativa): come vive questa contraddizione?

«Malissimo. Non siamo affatto liberi, c’è confusione su questo. Giorni fa studenti Lgbtq+ sventolando la bandiera della Palestina dicevano: “Siamo a favore di voi fratelli musulmani”. Quando hanno capito che in quei Paesi gli omosessuali sono puniti con 30 anni di prigione, allora hanno corretto il tiro: “Ah ok, ora sappiamo come stanno le cose, ma siamo ancora con voi”».

Estratto dell’articolo di Miriam Massone per “la Stampa” Bret Easton Ellis 21.10.23

«Dipende dal contesto»

Il loro credo fondamentale è questo: poiché gli Stati Uniti dalla loro fondazione sono una società intrinsecamente sessista, razzista, xenofoba, oggi non si può perseguire una «parità dei diritti» perché sarebbe fasulla; bisogna invece ridurre i diritti dell’America privilegiata e oppressiva (i bianchi) per riparare le ingiustizie. Togliere il diritto di parola a chi non difende attivamente le minoranze è sacrosanto. Si instaura una piramide di caste rovesciata, in cui gli ex-ultimi devono essere sistematicamente i primi. Diversità, Equità, Inclusione sono i principi con cui si nobilitano le nuove discriminazioni. Il vittimismo diventa il criterio ispiratore della vita sociale. Chiunque dissente è una minaccia per i diritti degli oppressi, va zittito, neutralizzato.

F Rampini, La capa di Harvard salvata in nome della libertà di espressione (che le università Usa ostacolano). Corriere della sera. 12.12.23

Pornografia della vulnerabilità.

“Come non amare la plasticità dell’inglese – sadfishing (…) È perché la sensatezza non fa grandi clic. Non quanti ne fa l’emotività, il sentimentalismo, il melodramma, il dirsi fragili, il dare la colpa agli altri, e soprattutto il format del secolo: accendere la telecamera del telefono, e piangere.” Sadfishing, posting sad content online to garner sympathy. Postare contenuti tristi per provocare solidarietà. ( Guia Soncini, Non ci resta che piangere La pornografia della vulnerabità, e altre lagne con telecamera, 6 marzo 24)

Coca e Fernet. “In Argentina lo danno ai cavalli”. Orgoglio milanese.

“ … in Argentina l’abbinamento con la Coca Cola è diventato una sorta di bevanda nazionale. Ho scoperto anche una serie di usi diversi del nostro amaro, come nel caso di un consorzio agrario in cui vendevano il Fernet per integrare l’alimentazione di mucche e cavalli. Dicevano che, miscelato con erba e fieno, serviva a mantenere in buon ordine lo stomaco degli animali».

https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/24_marzo_21

Stefano Lorenzetto per “OGGI”

Roma

Il Mercury, cinema a luci rosse, si trovava a 700 metri dalla basilica di San Pietro, in via Porta di Castello 44. «Proprietario dei muri era il Vaticano. Sul finire degli anni Ottanta, con l’arrivo delle videocassette, andò in crisi. Fu trasformato nel Muccassassina, il locale notturno più trasgressivo della Capitale: frocioni, drag queen, dark room, Cicciolina e la ventenne Vladimir Luxuria a fare da buttadentro», racconta Roberto D’Agostino.

https://www.dagospia.com/rubrica-29/

Padri filosofi

«Prima del ‘68 vivevamo nell’età della disciplina, il messaggio della famiglia coincideva con quello della società: se vuoi raggiungere i tuoi obiettivi lavora e sacrìficati. Dopo il ’68 questa società si è smobilitata per un anelito di libertà: il motto era Vietato vietare! Poi, su questa componente si è inserita l’importazione della cultura americana che richiedeva autoaffermazione e performance spinta. La cultura americana e la cultura del ‘68 sono confluite: le regole possono ammettere tranquillamente le deroghe, però dal lunedì al venerdì tu devi funzionare a livello di performance, competenza, velocizzazione del tempo, il sabato e domenica fai quello che vuoi».

https://www.corriere.it/sette/attualita/24_marzo_23

Img: 2012-D-G-Bandion

Standard
Attualità

Il Giorno del Ricordo 2004 – 2024

Attraverso i testi della Presidenza della Repubblica italiana, un modo per ricordare i vent’anni dell’istituzione del Giorno del Ricordo il 10 febbraio. Data simbolo della firma del Trattato di Pace di Parigi, monito e memoria, che sancì la perdita delle terre adriatiche.

La Repubblica italiana riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.

2005

Un lungo messaggio, quello diffuso dal Quirinale, con il quale Carlo Azeglio Ciampi esprime il proprio apprezzamento nei confronti della “Giornata del ricordo”, e rivolge il proprio pensiero “a coloro che perirono in condizioni atroci nelle foibe”, “alle sofferenze di quanti si videro costretti ad abbandonare per sempre le loro case in Istria e in Dalmazia”. Avvenimenti, afferma il Capo dello Stato, che “formano parte integrante della nostra vicenda nazionale, devono essere radicati nella nostra memoria, ricordati e spiegati alle nuove generazioni” .«La ricostruzione e la rinascita della nuova Italia – ha detto ancora Ciampi – costarono sacrifici grandissimi. In particolare, gli italiani delle terre d’Istria e di Dalmazia furono colpiti da una violenza cieca ed esecranda e dalla sventura di dover abbandonare case e luoghi familiari».

2007

Il dramma del popolo giuliano-dalmata fu scatenato «da un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenendo nel Giorno del ricordo. «Oggi che in Italia abbiamo posto fine ad un non giustificabile silenzio, e che siamo impegnati in Europa a riconoscere nella Slovenia un’amichevole partner e nella Croazia un nuovo candidato all’ingresso nell’Unione – ha sottolineato il capo dello Stato -, dobbiamo tuttavia ripetere con forza che dovunque, in seno al popolo italiano come nei rapporti tra i popoli, parte della riconciliazione, che fermamente vogliano, è la verità. È quello del Giorno del Ricordo è precisamente un solenne impegno di ristabilimento della verità».

2008

Giorgio Napolitano: “Oggi, le ferite lasciate da quei terribili anni si sono rimarginate in un’Europa pacifica, unita, dinamica; un’Europa consapevole che gli elementi che la uniscono sono infinitamente più forti di quelli che l’hanno divisa o possono dividerla; un’Europa che, grazie alla cultura della pace e dell’operosa convivenza civile, è riuscita a prosperare come nessun’altra regione al mondo. Eppure, questa stessa Europa ha visto i Paesi dei Balcani, parte integrante della propria storia e della propria identità, divenire teatro ancora pochi anni fa di conflitti sanguinosi, che hanno lacerato Stati, comunità, famiglie, in un cupo ritorno all’orrore del passato.

Sia dunque questo il monito del Giorno del Ricordo: se le ragioni dell’unità non prevarranno su quelle della discordia, se il dialogo non prevarrà sul pregiudizio, niente di quello che abbiamo faticosamente costruito può essere considerato per sempre acquisito. E a subirne l’oltraggio sarebbe in primo luogo la memoria delle vittime delle tragedie che ricordiamo oggi e il cui sacrificio si rivelerebbe vano. Dimostriamo dunque nei fatti che quegli Italiani che oggi onoriamo non sono dimenticati, e che il dolore di tanti non è stato sprecato; dimostriamo di aver appreso tutti la lezione della storia, e di voler contribuire allo sviluppo di rapporti di piena comprensione reciproca e feconda collaborazione con paesi e popoli che hanno raggiunto o tendono a raggiungere la grande famiglia dell’Unione Europea.”

2019

“Un capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenza e spargimento di sangue innocente. Mentre, infatti, sul territorio italiano la conclusione del conflitto contro i nazifascisti sanciva la fine dell’oppressione – ha detto ancora il capo dello Stato – e il graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli Italiani nelle zone occupate dalle truppe jugoslave”. “Non si trattò – come qualche storico negazionista o riduzionista ha provato a insinuare – di una ritorsione contro i torti del fascismo. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni. Solo dopo la caduta del muro di Berlino – il più vistoso, ma purtroppo non l’unico simbolo della divisione europea – una paziente e coraggiosa opera di ricerca storiografica, non senza vani e inaccettabili tentativi di delegittimazione, ha fatto piena luce sulla tragedia delle foibe e del successivo esodo – ha detto il capo dello Stato -, restituendo questa pagina strappata alla storia e all’identità della nazione”.

2020

Mattarella: ”Una tragedia provocata da una pianificata volontà di epurazione su base etnica e nazionalistica. Le foibe, con il loro carico di morte, di crudeltà inaudite, di violenza ingiustificata e ingiustificabile, sono il simbolo tragico di un capitolo di storia, ancora poco conosciuto e talvolta addirittura incompreso, che racconta la grande sofferenza delle popolazioni istriane, fiumane, dalmate e giuliane. Alla durissima occupazione nazi-fascista di queste terre, nelle quali un tempo convivevano popoli, culture, religioni diverse, seguì la violenza del comunismo titino, che scatenò su italiani inermi la rappresaglia, per un tempo molto lungo: dal 1943 al 1945. Le stragi, le violenze, le sofferenze patite dagli esuli giuliani, istriani, fiumani e dalmati non possono essere dimenticate, sminuite o rimosse. Esse fanno parte, a pieno titolo, della storia nazionale e ne rappresentano un capitolo incancellabile, che ci ammonisce sui gravissimi rischi del nazionalismo estremo, dell’odio etnico, della violenza ideologica eretta a sistema ».

2022

Sergio Mattarella. «Il Giorno del Ricordo richiama la Repubblica al raccoglimento e alla solidarietà con i familiari e i discendenti di quanti vennero uccisi con crudeltà e gettati nelle foibe, degli italiani strappati alle loro case e costretti all’esodo, di tutti coloro che al confine orientale dovettero pagare i costi umani più alti agli orrori della Seconda guerra mondiale e al suo prolungamento nella persecuzione, nel nazionalismo violento, nel totalitarismo oppressivo. È un impegno di civiltà conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli istriani, dei fiumani, dei dalmati e degli altri italiani che avevano radici in quelle terre, così ricche di cultura e storia e così macchiate di sangue innocente. I sopravvissuti e gli esuli, insieme alle loro famiglie, hanno tardato a veder riconosciuta la verità delle loro sofferenze. Una ferita che si è aggiunta alle altre.

2023

Sergio Mattarella. Siamo oggi qui, al Quirinale, per rendere onore a quelle vittime e, con loro, a tutte le vittime innocenti dei conflitti etnici e ideologici. Per restituire dignità e rispetto alle sofferenze di tanti nostri concittadini. Sofferenze acuite dall’indifferenza avvertita da molti dei trecentocinquantamila italiani dell’esodo, in fuga dalle loro case, che non sempre trovarono rispetto e solidarietà in maniera adeguata nella madrepatria. Furono sovente ignorati, guardati con sospetto, posti in campi poco dignitosi. Tra la soggezione alla dittatura comunista e il destino, amaro, dell’esilio, della perdita della casa, delle proprie radici, delle attività economiche, questi italiani compirono la scelta giusta. La scelta della libertà. Ma nelle difficoltà dell’immediato dopoguerra e nel clima della guerra fredda e dello scontro ideologico, che in Italia contrapponeva fautori dell’Occidente e sostenitori dello stalinismo, non furono compresi e incontrarono ostacoli ingiustificabili. Grazie al coraggio, all’azione instancabile e a volte faticosa delle associazioni degli esuli istriani, dalmati e della Venezia Giulia, il tema delle foibe e dell’esodo è oggi largamente conosciuto dalla pubblica opinione, è studiato nelle scuole, dibattuto sui giornali. Le sofferenze subite dai nostri esuli, dalle popolazioni di confine, non sono, non possono essere motivo di divisione nella nostra comunità nazionale. Al contrario, richiamo di unità nel ricordo, nella solidarietà, nel sostegno. Ribadendo lo stupore e la condanna per inammissibili tentativi di negazionismo e di giustificazionismo, segnalo che il rischio più grave di fronte alle tragedie dell’umanità non è il confronto delle idee, anche tra quelle estreme, ma l’indifferenza che genera rimozione e oblio.

2024

«Le sofferenze» degli italiani d’Istria, Dalmazia e Fiume «non furono, per un lungo periodo, riconosciute. Un inaccettabile stravolgimento della verità che spingeva a trasformare tutte le vittime di quelle stragi e i profughi dell’esodo forzato, in colpevoli – accusati indistintamente di complicità e connivenze con la dittatura – e a rimuovere, fin quasi a espellerla, la drammatica vicenda di quegli italiani dal tessuto e dalla storia nazionale», lo ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante la celebrazione del «Giorno del Ricordo», al Quirinale. E ha precisato: «Un muro di silenzio e di oblio – un misto di imbarazzo, di opportunismo politico e talvolta di grave superficialità – si formò intorno alle terribili sofferenze di migliaia di italiani, massacrati nelle foibe o inghiottiti nei campi di concentramento, sospinti in massa ad abbandonare le loro case, i loro averi, i loro ricordi, le loro speranze, le terre dove avevano vissuto, di fronte alla minaccia dell’imprigionamento se non dell’eliminazione fisica».«I tentativi di oblio, di negazione o di minimizzare sono un affronto alle vittime e alle loro famiglie e un danno inestimabile per la coscienza collettiva di un popolo e di una nazione». «La ferocia che si scatenò contro gli italiani in quelle zone non può essere derubricata sotto la voce di atti, comunque ignobili, di vendetta o giustizia sommaria contro i fascisti occupanti». ha aggiunto Mattarella.

IMG: Dreamstime Pola Istria Arena

Standard
Attualità, Filosofia

Io, mondo, uomo.

Antropologia e distopia.

Cornelio Fabro, filosofo cattolico semi dimenticato nel 1969, scrisse (nel testo a commento della filosofia di Severino che contribuì al suo allontanamento della Cattolica) de “ l’uomo-fenomeno nella sua avventura storica”, che ha abbandonato la religione e filosofia verso la mitizzazione della scienza. Giovanni Maria Bertin, pedagogista, altrettanto dimenticato, nel 1968 scriveva “La civiltà sembra essere caratterizzata dal prepotere del consumo, anziché dal rispetto della dignità e dalla preoccupazione di liberare l’uomo. Lo sforzo massimo è in essi rivolto ad intensificare la produzione e ad allargare i mercati, in modo da elevare i profitti e (subordinatamente) elevare la capacità di acquisto delle masse lavoratrici affinché queste consumino sempre di più (…)

Questo potrebbe dire qualcosa dell’uomo dei nostri giorni, anche se son passati più di 50 anni.

Il Novecento soprattutto, è stato il secolo del materialismo economico, beni, produzione, mercato, consumo,  e dello scavare nel torbido, scrutare nel meandri del basso animalesco umano, scandagliare l’abisso per la consapevolezza del senso di colpa totalizzante e paralizzante, falsamente liberatorio. Il materialismo dialettico ha dominato il pensiero filosofico politico del Novecento fino al 1990 per poi decadere sommerso dai frutti da una prassi politica ed economica criminale e affamante. L’attualità frutto di quel secolo appare in quelle che  sembrano le tendenze filosofiche del nuovo millennio: scientismo assolutista e prevalenza di istinti biologici. E’ stato anche altro, il Novecento, ma questo è ciò che ne rimane oggi.

Società, informazione, cultura, politica, tecnologia, lavoro, giovani, educazione, economia, nessuno di questi ambiti si può dire al riparo da un’idea di crisi che permea tutto il nostro mondo della vita quotidiana e il nostro pensare la realtà. La nostra visione del mondo appare velata da uno schermo di mancanza di senso o peggio da una privazione di prospettiva.

Una società sempre più liquida, un’informazione così caotica che nemmeno l’idea di fake news riesce a contenerla e a garantire un discrimine, un generale ripensamento dei valori sociali e dell’etica, accelerazione dello sviluppo tecnologico e della sua pervasività, precarietà e prevalenza dell’economico, spaesamento cinismo e deprivazione del valore umano della relazione. Pandemia e guerre.

Il tempo sta cambiando. L’agire umano e l’esperienza perdono il loro primato nella complessità e nella scala dell’organizzazione sociale di oggi. Ibania, la città del controllo totale, occhiuto e pervasivo, è realtà. Gli attori protagonisti sono invece sistemi complessi, infrastrutture e reti in cui il futuro sostituisce il presente come condizione strutturante del tempo.

I dispositivi digitali hanno cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo ossessivo e sempre visualizzabile in immagini memetiche  attraverso uno schermo. Governato da un algoritmo. Il soggetto è parte uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si muovono disordinati e imprevedibili come insetti mutanti. Ci si interroga su ciò che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di sé per contare i “mi piace”, quando il privato esibito si trasforma in un pubblico che cannibalizza l’intimità e la privacy. E su cosa accade ad una società che mistifica la virtù in nome del performabile. E su che cosa comporta abdicare al significato e al senso per un’informazione reperibile sempre sincronicamente ma spesso deforme e inaffidabile.

La visione positiva della vita vissuta e autentica vista come vivere bene, nella dignità, negli affetti, nei propri valori, in una condizione nella quale ognuno possa esprimere liberamente e profondamente se stesso, in un clima di reciproco riconoscimento, sembra svanire come sogno o illusione, utopia.

Il tempo del presente necessita di un’etica della complessità, cioè di una capacità di comprendere diversi linguaggi, di farsi multialfabeta ovvero saper affrontare diverse “grammatiche” per comprendere il mondo e abitarlo consapevolmente. Forse queste grammatiche non ci sono o non abbiamo saputo apprenderle e insegnarle.

Oggi assistiamo al supermarket della consulenza, fast e blended. Veloce e personalizzata, di tutto un po’. Si riaffacciano residui e cascami che riaffiorano nel tentativo di promuovere terapie di pratiche che inseguono concetti e termini di natura diversa inoculati dalla cultura decadente del pensiero debole occidentale per cui colpa, paura, illusione, menzogna, inganno sono tutte derivazione di una antropologia patologica deteriore che vede l’essere umano come substrato materiale e organico, malato insano, preda di speranze vane, perniciose assuefazioni, inconscio torbido, ricordi rimossi, infanzie tradite, madri anaffettive e padri dispotici, violenze e libidini sottostanti azioni ripugnanti. La vita come deresponsabilizzazione istituzionalizzata, la sparizione della responsabilità e l’invenzione dell’inconscio. Tutto lavora sull’uomo come macchina desiderante. Si inventano bisogni, si alimentano paure.

Manca la chiarificazione emotivo razionale di una situazione esistenziale complessa ed in rapida evoluzione, di cui non si vede il telos, il fine ultimo, lo scopo. Chiarificazione emotivo razionale cioè quella competenza che è solo filosofica.

Sembra confermare questa asserzione anche la recente intervista dello psichiatra novantenne E. Borgna  «Le malattie mentali non esistono, non si possono dimostrare. Chi vuol fare lo psichiatra dovrebbe leggere Giacomo Leopardi. Ma anche Emily Dickinson e Giovanni Pascoli. Non si può curare la fragilità solo con gli psicofarmaci». Neppure la psichiatria sembra poterci aiutare.

A Milano qualcuno paga molti soldi per andare a sentire qualcuno che afferma candidamente: «Io non ho un lavoro e non ho mai lavorato in vita mia. E non ho nemmeno una vocazione. La sola cosa che sono bravo a fare è stare fermo a non fare niente.»

Possiamo stupirci se tutto ciò si ripercuote violentemente sulla nostra quotidianità, su cui proiettiamo di continuo fantasie patologiche autoavverantesi, e non sappiamo come reagire, se non chiedendo alle esauste e svuotate agenzie educative, o ad una classe dirigente palesemente inadeguata, di fare quello che scientemente abbiamo rinunciato a fare da svariati decenni?

«Chi ha un perché del vivere può sopportare quasi ogni come» Scriveva Nietzsche.

Noi abbiamo un perché?

Img: Bacon, autoritratto,1971

Standard
Attualità

Cronache aforistiche ’22

War. Guerra. Unione europea e Nato spinti fin sull’orlo della vasta Russia con poca prudenza. Un rappresentante attore, milioni in armi. Distruzione, profughi, morte. Crisi energetica. Attentati, omicidi, nucleare. Tutto in otto mesi.

La scuola di alta formazione politica italiana “…adesso tutti si accorgono della signora Ronzulli che ha come curriculum quello di essere un’infermiera e di aver gestito l’arrivo delle ragazze a Villa Certosa. Dove la vogliamo mettere, alla Sanità o all’Istruzione? ” cit. Dagospia Tutto il mio rispetto, solo in questo caso limitato e esclusivo, a chi impedirà a Caligola di nominare il proprio cavallo senatore…..con tutto l’amore per i nobili cavalli, che fanno i cavalli.

«La dispersione scolastica implicita, cioè l’incapacità di un ragazzo/a di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51% Nel corso della sua presentazione Tesauro ha affermato che in Italia esiste «una crudele ingiustizia generazionale perché la crisi ha colpito proprio i bambini. Non solo 1,384mila bambini in povertà assoluta (il dato più alto degli ultimi 15 anni) ma un bambino in Italia oggi ha il doppio delle probabilità di vivere in povertà assoluta rispetto ad un adulto, il triplo delle probabilità rispetto a chi ha più di 65 anni». ll presidente di Save The Children ha ricordato inoltre, che «più di due milioni di giovani, ovvero 1 giovane su cinque fra i 15 e i 29 anni, è fuori da ogni percorso di scuola, formazione e lavoro.

Incomprensioni russe. Esattamente un secolo fa, nel 1922, Il’in, Berdjaev e molti altri membri dell’intellighenzia che Lenin non riusciva a sradicare del tutto (ma che non poteva nemmeno far rimanere in Russia) furono mandati in esilio a bordo delle “navi dei filosofi”, per essere poi lasciati in Europa. Il’in divenne il portavoce del popolo russo bianco emigrato. Era legato a un gruppo di pensatori dell’epoca conosciuti come “eurasiatisti” – l’idea risale a qualche anno prima – e credeva come loro che l’Unione sovietica non sarebbe durata a lungo. Nel 1950 scrisse il saggio What the Dismemberment of Russia Will Mean to the World (“Cosa comporterà lo smembramento della Russia per il mondo”), in cui spiegava cosa sarebbe successo quando l’esperimento marxista fosse fallito. Il’in Ilyin sosteneva che la Russia non fosse uno Stato-nazione come quelli occidentali: per lui era una specie di organismo, un’unità mistica sovrastorica, un po’ come il Volk tedesco ma con un’impronta più cristiana. Quando l’Unione sovietica sarebbe crollata, quest’unità organica sarebbe stata smembrata in altre entità più piccole, separate e indipendenti, che sarebbero state poi assorbite dall’Occidente, neutralizzando così la potenza russa – cosa che, secondo Il’in, l’Occidente ha sempre voluto fare (Il’in è una importante fonte per chi sostiene l’esistenza di una russofobia in Occidente).

Linguaggio a vanvera. Il linguaggio divisivo che sperimentiamo lo è anche per la sua mancanza di rispetto e per la sparizione del dialogo. Un linguaggio che esprime la furia di tutti contro tutti, che racconta l’impotenza di chi sta male e vorrebbe fare qualcosa per stare meglio ma si rende conto della propria inutilità, scarsa autostima e impossibilità di cambiare le proprie condizioni materiali di esistenza. Senza rispetto è anche il linguaggio televisivo di molti talk show, costruiti con ostentazione per élite benpensanti, a tratti intimidatori e linguisticamente manipolatori. In mancanza di rispetto e diventati abili nel praticare la brutalità del linguaggio siamo sempre pronti a scontri improvvisi, a comportamenti aggressivi, espressione di una indifferenza crescente verso gli altri, di tensione diffusa ma soprattutto di instabilità e malessere psichico dalle conseguenze imprevedibili. Cit. Mazzucchelli.

Come l’infosfera sta cambiando il mondo. Luciano Floridi a #Maestri «Nessuno controlla il sistema in modo globale, e la struttura stessa di internet garantisce che nessuno potrà controllarlo in futuro. Internet promuove la crescita della conoscenza creando al contempo forme di ignoranza senza precedenti» La sparizione di una qualsiasi antropologia.

Il filologo tedesco in spiaggia. Il Comune di Atrani e il famoso filologo tedesco Dieter Richter litigano per un lettino in spiaggia. Uno scontro iniziato sul bagnasciuga e poi culminato online con post e comunicati. Tutto inizia quando lo studioso denunciato via internet di essere stato «discriminato» perché gli sarebbe stato rifiutato di accedere in spiaggia prendendo un solo lettino («o due a 35 euro o niente»).

Ideologie politiche del nuovo millennio Democrazie liberali,Nazionalismi tecno capitalistici,Eurasia,Europeismo atlantico, dittature religiose, democrazie orientali.

Pace ma non troppo. Manifestare per la Pace. Dopo circa 8 mesi di bombe, morti, profughi. I famosi riflessi pronti. Che tempismo. E purtuttavia c’è chi storce il naso. Ad alcuni non piace chi lo propone. E inoltre bisogna chiarire prima: e le armi, e il sostegno? Troppi distinguo. Pace sì ma non con quelli e senza condizioni. Ovvero, ciò significa, consapevoli o no, forse ipocriti: non pace ma guerra, ancora guerra, sì alla guerra.

Dissenso inatteso. Incredibile. Nel paese teocratico atomico, delle donne nascoste e sottomesse. Nel paese del partito unico, di Stato, comunista e capitalista, di decennale potere indiscusso. Dalle piazze e da un cavalcavia.

img: © Non conosciamo la proprietà intellettuale della foto utilizzata, ovemai qualcuno ne richiedesse il riconoscimento ce lo comunichi.

Standard
Attualità

Le navi dei filosofi

1922 -2022

Il sospetto, il deragliamento dall’ortodossia, l’eresia, e la lotta contro i nemici del popolo o dello stato di stampo sovietico e nazional sociale contro gli infedeli alla linea del partito, per chi esercita la libertà di pensiero e di ricerca, siano essi simpatizzanti, alleati o avversari, oppositori, pensatori, studiosi o letterati è una traccia che si trascina e nasce dal ‘900 totalitario europeo.

In campo sovietico si concretizzò e realizzò già a partire dal 1922 in Russia con la vicenda grottesca delle navi dei filosofi, che da allora dovrebbe fungere da monito monolitico sull’illusione di fare vera e feconda cultura e filosofia a fronte di totalitarismi e idee criminali legate a matrici politiche e ideologiche di qualsiasi natura. Eppure espellere gli indesiderati o i renitenti alla norma è caratteristica delle dittature e anche di quelle forme di governo che dittature non si dicono. Se ne potrebbero ricordare diversi esempi. Di sicuro il folle e irrealizzato intento nazista di espatriare tutti gli ebrei d’Europa in Madagascar, o le isole di confino italiane durante il fascismo, i vari campi di lavoro e internamento austroungarici, e inglesi, belgi, jugoslavi, e ancora le gabbie statunitensi del Training Camp dove fu rinchiuso Pound dai suoi stessi conpatrioti a Coltano Pisa, o la Guantanámo dei democratici americani del nuovo millennio.

E’ però curiosa la vicenda del ’22 sovietico perché inquadra una rivoluzione che nel mentre nasce si impone al tempo stesso come repressione. Da allora infatti qualsiasi movimento sociale e culturale avverso all’idea marxista e leninista sarebbe stato ostacolato e distrutto, attraverso l’esilio, oppure la diffamazione, la corruzione dei rappresentanti, la denigrazione dei partecipanti quando non direttamente con la loro eliminazione diretta o espulsione.

La rivoluzione del 1917, scoppiata nel momento in cui la Russia dello Zar Nicola Romanov era impegnata nel conflitto mondiale, vide imporsi la nascita e lo sviluppo di una nuova e improvvisata élite europea, i bolscevichi. Quella del 1917 fu in realtà la più grande rivoluzione plebea della storia dell’umanità, nella quale decine di milioni di persone si sollevarono e insorsero nelle campagne. La rivoluzione nelle campagne crebbe seguendo un  programma ispirato a quello del movimento  politico dei populisti russi dell’Ottocento (che  si proponeva di emancipare le masse contadine  per formare una società egualitaria. Il partito socialista di ispirazione marxista che alla fine prese il potere (i bolscevichi, ndr) era espressione solo di una minoranza della classe operaia. Di fatto i bolscevichi non presero il potere, lo raccolsero. Capi del bolscevismo sono stati Lenin e Trotzki (Trockij). Il secondo fu fatto eliminare in Messico nel 1940 dopo l’espulsione dal Partito Comunista Sovietico e l’esilio a seguito del contrasto con Iosif Stalin per divergenze politiche e strategiche e scrisse “Morirò rivoluzionario, proletario, marxista, materialista dialettico e di conseguenza ateo convinto.”

Fin dal 1914, essi indicarono il loro programma: “trasformazione della guerra imperialista in una guerra civile degli oppressi contro gli oppressori e per il socialismo”. Bolscevismo (in russo bol′ševizm) significa “massimalismo” in contrapposizione di menscevismo (in russo men′ševizm) che significa “minimalismo”. L’abilità di Lenin fu quella di consentire  l’attuazione di un programma popolare che si fondava sull’utopia egualitaria, facendo leva sulla miseria e sull’insoddisfazione del mondo contadino russo. Che non era il suo mondo. Se lo Stato bolscevico avesse avuto un vasto  consenso popolare non avrebbe avuto bisogno  di istituire tribunali speciali e di costruire un  feroce Stato di polizia. Il terrore rosso fu uno degli elementi essenziali del regime bolscevico, di chiara matrice giacobina, a cui lo stesso Lenin affermava di rifarsi. A differenza dei francesi il terrore russo bolscevico fu continuo,  imposto alla popolazione, organizzato in una istituzione già dal ’17 e celebrato come simbolo dello Stato. Il fondamento ideologico del terrore, la sua sistematicità e la dignità politica che gli venne riconosciuta lo differenziarono da tutte le precedenti casistiche. La prassi dell’uso indiscriminato e arbitrario della violenza, dell’omicidio, e della sopraffazione coercitiva verso gli avversari, sia presunti che effettivi, anche preventiva, fu modello storico e pratico per tutte le future “armate rosse” europee ed internazionali, per esempio quella jugoslava di Tito nel 1943.

“L’espulsione degli elementi controrivoluzionari e dell’intellighenzia borghese è il primo avvertimento del potere sovietico a questi elementi sociali”, scriveva la Pravda verso la fine di agosto del 1922. In tutto oltre 160 persone (contando anche i familiari) furono forzati a lasciare il Paese. Tra questi, professori, medici, insegnanti, economisti, scrittori e figure politiche e religiose. Tutti avevano una cosa in comune: si opponevano fieramente al regime sovietico. Erano spesso ricercatori o scienziati, e si considera che tra il momento in cui furono esiliati e il 1939 abbiano pubblicato all’estero qualcosa come 13 mila lavori in vari settori scientifici.

Le ragioni per le quali le autorità sovietiche espulsero così tanti intellettuali erano in parte legate alla riforma dell’istruzione statale. Nel 1921, i bolscevichi frenarono l’autonomia delle università, capendo l’importanza dell’educazione nella creazione di una nuova società socialista, e volendo rafforzare il controllo sui centri educativi. La riforma dell’università causò malcontento e scatenò l’ondata dei cosiddetti “scioperi dei professori”.

Ma c’erano anche altre questioni. Molti intellettuali erano pensatori religiosi e, in quanto tali, non avevano posto nella Russia socialista, e atea, secondo i leader bolscevichi. Ciò si rende evidente se si esamina l’articolo di Lenin del marzo 1922 che aprì la strada per l’azione delle “Navi dei filosofi”. Si intitolava “Sull’importanza del materialismo militante”. Nikolai Berdyaev, uno dei passeggeri della suddetta nave, scriverà nel suo libro Philosophy of Art: “Lo stato socialista non è uno stato secolare, ma uno stato bolscevico sacro … Assomiglia a uno stato teocratico autoritario. Il socialismo professa la fede messianica. I guardiani dell’idea messianica del proletariato hanno creato una gerarchia specifica: il Partito Comunista, che era molto centralizzato e aveva poteri dittatoriali “. Semplicemente non c’era posto per tali pensatori nel mondo antimetafisico e ateo di Lenin e Trotskij. Per questo motivo, Lenin considerava questi uomini come nemici e spie militari. In un’occasione durante questa campagna, Lenin pronuncerà parole che risuoneranno nel mondo: “È indispensabile che lo facciamo, dobbiamo catturare tutte quelle spie militari e inviarle permanentemente e sistematicamente all’estero”. Leo Trotskij, allora il suo principale sodale, andrà oltre nelle sue dichiarazioni, dicendo: “Abbiamo bandito queste persone perché non avevamo motivo di spararle e non potevano essere tollerate”.

Lo scontro per Lenin e Trotskij era a livello culturale, cioè teorico e filosofico, sul cui piano il nascente movimento era allora piuttosto debole. Infatti Lenin scriveva: “In mancanza di una base filosofica solida non vi sono scienze naturali né materialismo che possano resistere all’invadenza delle idee borghesi e alla rinascita della concezione borghese del mondo”. Per “una base filosofica solida” Lenin intendeva tutto lo sviluppo possibile della teoria della dialettica materialistica. Nella dialettica e nelle teorie della prassi i bolscevichi deformarono le matrici filosofiche occidentali in senso materialistico: la dialettica si configura come teoria marxista pseudoscientifica della conoscenza che vede nell’unità conflittuale di elementi contraddittori (la lotta di classe) la causa fondamentale che detta l’auto-movimento del processo storico, e che si compie nella sua applicazione pratica: infatti, l’analisi dialettica è orientata a supportare la classe dirigente comunista nella formulazione della strategia e della tattica politica del proletariato. Scriveva: “Dobbiamo organizzare uno studio sistematico della dialettica hegeliana da un punto di vista materialistico”. Il bug di Lenin è qui: considerare la dialettica come «la scienza delle leggi del movimento, del mondo esterno così come del pensiero».  I quadri filosofici che si unirono intorno alla rivista “Sotto la bandiera del marxismo”, all’inizio degli anni ’20, non erano numerosi ma a questo lavoro, indicava Lenin, era necessario far partecipare gli scienziati della natura stringendo con loro una forte collaborazione.

L’illusione comunista è scritta tutta qui: il fallimento della apodittica affermazione che poiché le leggi dello sviluppo dei “fenomeni” sociali sono conoscibili mediante l’analisi oggettiva e materiale dei rapporti di produzione e della vita economica degli organismi sociali, e seguendo come unico criterio non schemi arbitrari bensì «la fedeltà alla realtà», è possibile dimostrare la necessità oggettiva del superamento dell’ordine esistente in uno superiore.

Piegare il mondo e tutti  i cittadini ad un’idea non è semplicemente possibile se non a costo del controllo totale attraverso un sistema pervasivo e nascosto di crimini efferati, della limitazione della libertà e delle diversità dell’essere umano, e dell’uso indiscriminato e continuo di una forza superiore a quella della realtà mondo medesima. Come è noto la non-confutabilità, secondo Popper, rende il materialismo dialettico essenzialmente non scientifico.

Qualche anno più tardi (2002) Danilo Zolo dirà: « Ho preso congedo dal  marxismo per la mia impossibilità di condividerne i suoi tre pilastri teorici: la  filosofia dialettica della storia con le sue presunte “leggi scientifiche” dello sviluppo; la teoria del valore-lavoro come base della critica del modo di produzione capitalistico e come premessa della rivoluzione comunista; la teoria dell’estinzione dello Stato ed il connesso rifiuto dello stato di diritto e della dottrina dei diritti soggettivi».

Nel maggio 1922, già prima della creazione dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, Lenin decise di esiliare tutti gli intellettuali russi che si opponevano al potere bolscevico, incaricando a Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, capo della polizia politica, di preparare la deportazione degli intellettuali. Inoltre, fu modificato il codice penale della Repubblica sovietica russa del 1922, per permettere l’espulsione amministrativa e furono preparati dei dossier contro gli intellettuali in questione. Gli intellettuali furono arrestati dalla GPU nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1922. Furono condannati e poterono scegliere tra l’esecuzione e l’espulsione. Per giunta, doverono pagarsi il viaggio e non poterono prendere oggetti di valore o libri. Le due navi che trasportarono gli intellettuali da Pietrogrado a Stettino furono l’Oberbürgermeister Haken, che partì il 29 settembre 1922 e giunse a destinazione il 1º ottobre 1922 con 35 intellettuali russi e le loro famiglie, e la Preussen, che partì a novembre.

Curiosamente è poco noto il fatto che a Mosca nel ’22 (da giugno a novembre) si trovava anche Antonio Gramsci, l’italiano che teorizzò in Italia la figura e il ruolo degli intellettuali futuri, cioè fedeli alla linea del partito. Alla luce di quanto probabilmente vide si capisce meglio il suo ideale di intellettuale “organico” al Partito. Se è difficile considerarlo un campione del libero pensiero, l’intellettuale gramsciano, per lo meno salverebbe la propria vita e la propria quotidianità, contrariamente ai colleghi russi non comunisti, aderendo all’idea del partito cioè ad una ideologia più o meno sommariamente delineata.

Intellettuale, quello proposto dal teorico comunista sardo, che deve eliminare l’oratoria, stare con il proletario, essere parte del soggetto collettivo, che è nell’idea di Gramsci il Partito di massa grande collettivo politico, e che deve essere perciò anche un intellettuale collettivo, in quanto in grado di elaborare una visione complessiva del mondo autonoma e antagonista a quella dominante. Solo se sottomesso l’intellettuale ha senso per Gramsci, vale a dire l’opposto della rivendicazione della libertà e della persona. Si tratta dell’antipersonalismo del comunismo, che è “negazione dello spirito” (Berdyaev).

Lesley Chamberlain “The Philosophy Steamer Lenin and the Exile of the Intelligentsia”

In September 1922 Russia expelled around seventy philosophers, academics, journalists and others considered unlikely ever to come round to a Marxist-Leninist point of view. Lenin, who founded the Soviet Union three months later, initiated the campaign and chose many of the names on the list himself. This book recounts, for the first time in English, the story of these men who were deported for their anti-Communist attitudes and what happened to them when they made new lives in Berlin, Prague and Paris. This historic event, which, including family members, forcibly deprived more than 200 Russians of their homeland, takes its name from the religious philosophers, who were Lenin’s most prominent victims. The Philosophy Steamer, which contains rare photographs from police and family archives, concludes by asking what this event meant in the history of ideas. Why should ‘reason’, the cause Lenin espoused, have wanted to  banish religion, just as the twentieth century got underway?

img: wikipedia, la nave Oberbürgermeister Haken

Standard
ambiente, Attualità, pratica filosofica

2022 Dialoghi di cittadinanza. La sostenibilità sociale dell’Agenda 2030.

I Dialoghi di cittadinanza nascono nella primavera del 2017, come progetto di pratica filosofica di gruppo in contesti pubblici. L’occasione era la rassegna chiamata “Patentino di educazione alla cittadinanza”, proposta e patrocinata dall’amministrazione di Cavallino – Treporti, comune litoraneo della Città Metropolitana di Venezia. Questo percorso, nato nel 2016, è giunto perciò alla  settima edizione. Gli appuntamenti in programma si tengono nel periodo primaverile, con cadenza settimanale e seguono un tema comune di attualità culturale o socio/politica stabilito e proposto di stagione in stagione; quelli finora affrontati sono stati: Individuo e società, Res publica e partecipazione, Post verità e false verità, L’uomo e l’agire nella società. Nel 2021 il tema è stato Pensare per uno sviluppo sostenibile.

Il 2022 vede ancora l’Agenda 2030 come tema guida nel suo aspetto sociale. In questo senso questi incontri cercano di mettere in luce gli aspetti meno toccati dell’Agenda, ovvero il sociale nelle sue declinazioni: le relazioni: l’altro, la politica, la società, partecipazione e cittadinanza. Il digitale:  l’oltremondo, il metaverso, l’infosfera. Il pensiero:  Quale ruolo ha l’uomo nel mondo?

Questi gli spunti per questi Dialoghi di cittadinanza 2022.

Il 24 marzo il primo incontro. Problematizzare l’Agenda 2030. Per un pensiero ecocentrico. Che cosa significa ecocentrismo? E problematizzare? E’ una delle caratteristiche della pratica filosofica , non dare per scontato nessun assunto se non indagato con ragione. Ricercare i problemi inerenti ad un determinato fatto o argomento. Proporre più ipotesi. Disambiguare. Pensare in modo alternativo. Vedere in altro modo.

Il 31 marzo il secondo incontro. Etica digitale e complessità, affrontare la complessità attuale mediante un approccio etico al digitale cura di Pamela Boldrin. Laureata in tecniche di neurofisiopatologia nel 2004 all’Università di Padova, in filosofia nel 2013 a Ca’ Foscari Venezia. Ha conseguito il titolo di perfezionamento in bioetica presso l’università di Padova nel 2016. Insegna bioetica all’università di Padova e scrive di scienza e bioetica

Standard
Attualità, filosofia digitale, pratica filosofica

Il Mondo Nuovo 2021

«A dieci mila chilometri da questo mondo

C’è un bar, c’è un bar, c’è un pub, c’è un tram

È una baracca di lamiera

C’è dentro l’uomo nero

Ti guarda coi suoi occhi rossi e ti sorride

Ti chiede se per caso vuoi ancora da bere

Da bere, da bere, da bere, da bere, da bere

O forse no» (Pop X , Antille 2020)

«

Il tempo sta cambiando. L’agire umano e l’esperienza perdono il loro primato nella complessità e nella scala dell’organizzazione sociale di oggi. Gli attori protagonisti sono invece sistemi complessi, infrastrutture e reti in cui il futuro sostituisce il presente come condizione strutturante del tempo. Anche Dio rimane una possibilità che si può dare nel futuro.

I dispositivi digitali hanno cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo ossessivo e sempre visualizzabile in immagini memetiche  attraverso uno schermo. Il soggetto è parte uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si muovono disordinati e imprevedibili come insetti mutanti. Ci si interroga su ciò che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di sé per contare i “mi piace”, quando il privato esibito si trasforma in un pubblico che cannibalizza l’intimità e la privacy. E su cosa accade ad una società che mistifica la virtù in nome del performabile. E su che cosa comporta abdicare al significato e al senso per un’informazione reperibile sempre sincronicamente ma spesso deforme e inaffidabile.

Gli USA in questo senso sono il vaso di Pandora dell’Occidente, un verminaio di rancori e forze centrifughe verso posizioni sempre più estreme. La Cina è un mondo che appare sempre più distopico e avulso, la Russia un enigma assopito, l’Europa una Babele di voci incongruenti.

La sfida – che si possa assumere un atteggiamento altamente speculativo e teoretico ossia genuinamente filosofico – per il quale se è vero che la metafisica non può essere approfondita e studiata separatamente dalla fisica, al contempo questa non può essere declinata in chiave esclusivamente scientifica o somatistica, perché evoca appunto una metafisica che sappia offrire – a essa come all’insieme delle scienze – un orizzonte più generale. Una mistica che ci invita a partecipare coscientemente, cioè umanamente, all’avventura della realtà.

Nel frattempo qui in questo contesto surreale è venuto allo scoperto il vulnus dello shock strutturale, dell’immobilismo burocratico in cui si trovano le istituzioni e della lenta e farraginosa funzionalità delle stesse a rispondere a situazioni di crisi diverse, sovrapposte tra loro: prima sanitaria, ma poi economica e politica. Una vera e propria empasse (in)decisionista, e complice di questa difficoltà è (probabilmente) una sempre maggiore frammentazione istituzionale e la sovrapposizione di ruoli, enti, organismi vari, tecnici, “forze speciali” di intervento, che rappresentano una forza centrifuga dallo Stato ed in grado di destrutturarlo in tanti piccoli microcosmi.

Come non convincersi che il capitalismo sia l’unico sistema politico economico realistico attuale? In realtà, non è così, perché nella vita di ogni giorno, le persone non si curano né del capitalismo né dell’idea che sarebbe l’unico sistema sostenibile. In realtà, l’unico modo di pensare il realismo capitalista è in termini di deflazione della coscienza. Lo diceva anche il terzultimo papa alla caduta del Muro. Resta il mistero sul destino della domanda cos’è la coscienza?

Intanto come nell’evoluzione delle specie l’unità di selezione era il gene, così nel campo della cultura l’elemento su cui si gioca l’evoluzione del pensiero è il «meme» (abbreviativo di “mimene”, cioè “unità di imitazione”). Che può essere molte cose: una idea, una frase, una musica e una qualunque creazione artistica, una teoria scientifica, una filosofia o una religione che si diffonde di cervello in cervello.

Appariranno nuove identità digitali e nuove comunità alternative. Proprio qui la filosofia e la pratica filosofica dovrebbero entrare in gioco, il gioco delle superpotenze digitali. Da una parte per metterlo in questione, per esercitare quel potere di critica senza riguardi, (soppesare, criticare, valutare, metter in discussione, indagare presupposti e fini, intenzionalità e volontà) sempre se, la filosofia non voglia essere la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo, quando tutto è già accaduto.  Dall’altra per garantire spazi di libertà da ogni forma di controllo, sorveglianza e qualunque sistema totalitario anche digitale.

img: dismagazine. La foto rappresenta non una cittadina di qualche luogo del sud est asiatico come sembrerebbe ma Willets Point nel Queens a New York, un sobborgo industriale che pare una rappresentazione abbastanza verosimile di una città qualsiasi del prossimo futuro. (nda)

Riferimenti:Byung-Chul Han, Angela Nagle, Iain Hamilton Grant, M. Proietti, Mark Fischer, Gianluca Liva, Quentin Meillassoux, Armen Avanessian, Suhail Malik, Giuliana Rotondi, Pop X.

Standard
Attualità, filosofia digitale

Il dilemma dei social.

Uno studio su 5.000 persone ha rilevato che un maggiore utilizzo dei social media è correlato al calo auto-riferito della salute mentale e fisica e della soddisfazione di vita. Il numero di paesi con campagne di disinformazione politica sui social media è raddoppiato negli ultimi 2 anni. Il 64% delle persone che si sono iscritte a gruppi estremisti su Facebook lo ha fatto perché gli algoritmi li hanno guidati lì. (Tratto dal sito del film “The social dilemma“)

Il tema è sempre caldo, in ambito nuove tecnologie informatiche l’ultima notizia riguarda la più recente app del momento, Tik Tok e il fatto che negli USA si vorrebbe proibirla, ma solo perché è cinese.

The Social Dilemma è un documentario di Jeff Orlowski arrivato da poco sulla più famosa piattaforma streming, in realtà un docufilm (o docudrama) poiché incrocia interviste reali e finzione.

Il motto “Se non stai pagando per il prodotto, allora il prodotto sei tu” viene qui descritto e spiegato nei termini più specifici della questione. The Social dilemma analizza gli effetti dell’uso compulsivo di Facebook, Instagram, Twitter & co. Su ognuno di noi e sulla società contemporanea, spiega tutti i rischi che corriamo frequentando i social. In estrema sintesi:  le piattaforme social utilizzano un algoritmo studiato appositamente per invogliarci a rimanere connessi per il maggiore tempo possibile. Il meccanismo che regola tutto ciò è mutuato dal gioco d’azzardo e dalle slot machine ed è chiamato sistema di rinforzo intermittente positivo. Più restiamo collegati a un social media, più gli introiti della piattaforma aumenteranno. Più ci rendono dipendenti da loro e più loro ci guadagnano, diventano straricchi con quello che noi riteniamo “svago”. I social network sfruttano la capacità del nostro cervello di generare scariche di piacere per tenerci inchiodati e passare quanto più tempo possibile sulle applicazioni in quella che viene chiamata “economia dell’attenzione”. Inframmezzato da inserti di fiction che raccontano l’invasività della tecnologia nelle vite e nelle relazioni delle famiglie contemporanee, la sostanza del film sono le confessioni di alcuni (ex) big della Silicon Valley pentiti di aver contribuito a creare il mostro social che invade come un blob digitale il nostro vivere quotidiano. Ex protagonisti reali, figure come Justin Rosenstein (inventore del pulsante “mi piace” di Facebook), l’investitore Roger McNamee (anche lui in passato a supporto dell’opera di Zuckerberg) Tim Kendall, ex CEO di Pinterest ed ex direttore della monetizzazione in Facebook, Guillaume Chaslot, l’uomo a cui dobbiamo il meccanismo dei video consigliati su YouTube e Tristan Harris, uno dei creatori di Gmail.

I quali a dirla tutta stupiscono per la loro ingenuità etico morale.

Presentato al Sundance Festival del 2020, The Social Dilemma racconta il lato oscuro dei social media attraverso le testimonianze di chi ha contribuito a rendere queste piattaforme quello che sono oggi: luoghi virtuali in grado di manipolare in maniera subdola chi li frequenta, senza destare nell’individuo il minimo sospetto. Dall’ingenuo e pioneristico sogno di “mettere le persone in comunicazione” tramite il digitale, alla creazione e vendita di profili personalizzati di utenti, o meglio gli “utilizzatori”, come i consumatori di droga, lo dice l’esperto di statistica Edward Tufte nel film. A chi? Ad aziende interessate solo a conquistare sempre più ampie fette di mercato a qualsiasi costo, per profitto ovviamente. Il marketing delle persone. Chi paga? Pagano “gli inserzionisti” ovvero tutti coloro che vogliono vendere qualche cosa e hanno interesse a veicolare i loro prodotti tramite i social. Compreso chi vuole manipolare opinioni. Basta che compri pubblicità. Da qui nasce lo strapotere delle maggiori aziende americane di tecnologia informatica che hanno visto il loro profitti aumentare costantemente. Queste grandi aziende mirano al controllo sul modo in cui miliardi di noi pensano, agiscono e vivono.

Nulla di nuovo in realtà, da qualche anno ormai anche in Italia se ne parla, ne avevo scritto qui nel 2019 ma questa produzione rende la questione pubblicamente critica e problematica. Nel novembre del 2017 apparve un’intervista in cui Sean Parker, l’hacker che ha fondato Napster e ha lavorato con il fondatore del social più famoso fece mea culpa: «Solo dio sa cosa fanno queste piattaforme al cervello dei nostri bambini». Morozov scrisse nel 2011 un testo che indagava le ricadute politiche dell’uso dei social, L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet. Jerome Lanier pioniere dell’informatica, musicista e scrittore, famoso per il suo lavoro di ricerca sulla Realtà virtuale ormai da anni ne parla pubblicamente il suo Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social è  del  2018 e Tu non sei un gadget e del 2010. Cosimo Accoto, giovane ricercatore al MIT di Boston, contro il retaggio idealistico e antitecnologico, indaga la natura linguistica del codice algoritmico, e delle sue applicazioni software in Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale, del 2017. Luciano Floridi, con gli studi sull’etica del digitale, ha pubblicato Pensare l’infosfera.

Fake news, algoritmi, influencer, manipolazioni mediatiche, censura, privacy: questi rappresentano i temi in gioco e sono diversi e complessi. Da ormai alcuni anni queste riflessioni critiche sul digitale hanno iniziato a girare tra le diverse comunità culturali internazionali e lo hanno fatto partendo dall’interno, dagli addetti ai lavori da chi ci lavora, i pentiti. Il ritardo è grave ed è della società e delle istituzioni incapaci di reagire ad un così rapido progresso gestito dalla finanza e strutturato sulla libertà di mercato. Ci sono in campo proposte ? Ce ne sono. Rottura del monopolio, imporre codici etici, imporre limitazioni, legiferare sulla trasparenza, favorire l’incremento e la diffusione del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati, studiare e comprendere i meccanismi psicologici e neuronali che creano la dipendenza da smartphone, obbligare i colossi digitali ad abbandonare i metodi più aggressivi impiegati per tenerci incollati a smartphone e social network, questi sono solo alcuni. Bisogna dire che sono obiettivi “politici” e riguardano la “classe dirigente” spesso non del tutto autonoma ed indipendente  e anzi vincolata a molti di questi colossi del digitale. Pensiamo ad esempio all’accordo G Suite for Education / Miur per la gestione della Didattica e distanza in seguito alla chiusura delle scuole per la pandemia COVID 19 nel periodo marzo/settembre 2020.  Individualmente ognuno può ricorrere a quelle capacità umane innate ma che vanno allenate: il pensiero critico, la capacità di analisi e comprensione,  la questione etica e l’ educazione questi sono gli strumenti che anche nel digitale possono  aiutare a contrastare le difficoltà di pensiero: difficoltà di essere consapevoli, difficoltà a vedere o a leggere situazioni, difficoltà a concettualizzare, a dare spiegazioni, a fornire un argomento, a proporre più ipotesi, a problematizzare. Difficoltà che ci impediscono di far lavorare il cervello, l’anima lo spirito, quelle facoltà che l’uso indiscriminato, pervasivo, incontrollato dei media digitali rischia di compromettere.

I nerd che intervengono nel film alla fine offrono alcuni consigli di “resistenza” al modello di business che ci vuole cavie da social, eccoli:

  • Solo la volontà collettiva potrà fronteggiare lo scenario distopico che l’abuso dei social incrementa,
  • riconoscere il problema aumenta la possibilità di affrontarlo,
  • il fallimento della tecnologia odierna è un problema di leadership,
  • disinstalla le app che non ti sono indispensabili,
  • disattivare tutte le notifiche,
  • non usare Google ma Qwant che rispetta la tua privacy,
  • non accettare video consigliati da YouTube,
  • usa le stensioni di Chrome per rimuovere i consigli,
  • prma di condividere qualsiasi cosa verifica i fatti,
  • non incrementare il sistema con clic baiting o esche digitali
  • attingi le informazioni da siti diversi,
  • esponiti a punti di vista diversi dal tuo,
  • non dare dispositivi ai tuoi figli,
  • dispositivi fuori dalla camera da letto
  • stabilire tempi di utilizzo a priori,
  • cancella i tuoi account.

Img: Superthumb.

Standard
Attualità, Filosofia

La realtà distopica

Cyberspazio

Esattamente un mese fa esplodeva la questione SARS-CoV-2.

Emanule Severino in un’intervista, rilasciata poco prima di lasciarci, (e di vedere i fatti di oggi) alla domanda: “In che direzione stiamo andando?” Rispose: «È un tempo molto interessante. Siamo in questo tempo intermedio, uso la metafora di quei trapezisti che, essendo inizialmente attaccati al trapezio, lo lasciano per afferrarsi all’altro, che ci sia sotto o no una rete, ma nel frattempo sono sospesi. Noi siamo in questo momento di sospensione che è carico di significato.» In questi giorni mi è tornato in mente quel che disse, in altro luogo qualche tempo fa, quando affermava che la vera questione filosofica è: la realtà esiste di per sé o esiste solo nella nostra coscienza perché e in quanto noi la pensiamo? Per Severino il pensiero, per essere ‘vero’, non ha bisogno e non deve “corrispondere” ad alcuna cosa “esterna” affermazione che è un’apparente radicale idealismo ma in realtà è un assoluto realismo, perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione fenomenica della realtà esterna, ma la realtà in sé stessa. Il reale e l’ideale, potremmo dire parafrasando Hegel che nella Prefazione alla Filosofia del diritto nel 1820 scrive “Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale ” per dire che ogni fatto che si manifesta nel mondo risponde ad una legge razionale, e perciò comprensibile e spiegabile all’uomo, ma anche che tutto ciò che è pensabile è reale. Un inguaribile ottimismo (e assolutismo) della ragione che tutto percorre e può comprendere. Al che Giuseppe Rensi, dimenticato filosofo veronese, ateo, scettico e credente metafisico, ribaltava negli anni ’40 del ‘900 con un secco: “il reale è irrazionale e il razionale è irreale” contro la nota sentenza hegeliana. L’esperienza tragica di chiunque oggi ce lo dice, per il filosofo veneto infatti nella vita predomina l’assurdo. Gli eventi,  sono prodotti inattesi, effetti inintenzionali ed imprevedibili di azioni poste in essere per ottenere ciò che, alla fine, non si realizza. Quasi a suggerire che a governarci siano forze misteriose, complesse e sconosciute. Una variante potrebbe essere che l’Agire pervade l’Essere, il pensiero stesso è praxis, come avrebbe detto altrimenti Giulio Preti, altro filosofo semi dimenticato. O per dirla con Antonio Banfi “Non è il pensiero che insegna a vivere alla vita, ma la vita che insegna al pensiero a pensare”.

Questo è del resto sotto i nostri occhi, non il trionfo certo della scienza positiva, vincente e obiettiva sede di incrollabili fiducie ed episteme ontologico del presente. Il linguaggio stesso ne è sintomo, il linguaggio mediatico su tutti. Gli studiosi cosiddetti esperti dibattono e litigano, sintomi, diffusione, epidemiologia, numeri e dati, cure e presìdi tutto è incerto, confuso, poco oggettivo. OMS, Ministeri, BCE, consiglio europeo, direttori sanitari. La realtà nuda e cruda ci investe con slogan emotivi, appelli ossessivi, umanitarismo alla buona, tutto centrifugato nell’infosfera. Ciò che sta accadendo in Italia è sostanzialmente senza spiegazione: stiamo navigando al buio, non sappiamo cosa accadrà domani e perché sta accadendo tutto ciò in queste proporzioni, abbiamo troppe domande e nessuna risposta. Chi vede altro vede male.

Scrivo questo oggi sulla scorta di eventi che trafiggono la vita di questi giorni. Queste idi di marzo così ineffabili in cui le libertà usuali sono sospese e si vive con mille accortezze mai avute e come separati in casa. Giorni in cui vediamo un’invisibile e pneumatico virus minacciare la stabilità globale, sociale, economica, umana. Un pericolo di vita. Albert Camus, nel suo libro La peste mise in esergo una citazione di Defoe. “E’ ragionevole descrivere una sorta d’imprigionamento per mezzo  d’un  altro  quanto  descrivere  qualsiasi  cosa  che  esiste  realmente  per  mezzo di un’altra che non esiste affatto”. Stiamo infatti vivendo una vita nella vita, perché il ‘fuori’ non è sicuro e quindi dobbiamo tutti alienarci dal mondo estraniandoci in una bolla domestica, dubbiosi e scettici altalenanti tra bio-potere e pandemia, recalcitranti eremiti. Si realizza in effetti ciò che Camus prefigurava:  il vacillare della responsabilità sociale, i dubbi della fede  religiosa,  l’edonismo  di  chi  non  crede  alle  astrazioni (studi scientifici, teorie, complotti) e nemmeno al tangibile (la rapidissima diffusione e mortalità del virus), ma neppure è capace di “essere felice da solo”, di starsene da sè a casa propria pascalianamente, il traballante impegno nel fare il proprio  dovere;  l’indifferenza,  il  panico,  lo  spirito  burocratico  e  l’egoismo  gretto  sono gli  alleati del morbo.

E scorrono nella memoria Il mondo nuovo di Huxley, e Philip Dick di La svastica sul sole e Blade Runner di Ridley Scott, o il Lupo della steppa di Herman Hesse, 1984 di Orwell ovviamente, ma anche Fahrenheit 451 di Bradbury o quella ricerca di un uomo misterioso che ci conduce a scoprire gli universi presenti nel nostro mondo, in Da un altro mondo di Stefano Zampieri. Opere della letteratura distopica, un tempo derubricata a letteratura fantastica o fantascientifica e declassata a serie inferiore. Testi che immaginano realtà alternative che mantengono alcune delle caratteristiche della realtà ma ne distorgono altre. “Rappresentazione di una realtà immaginaria del futuro, ma prevedibile sulla base di tendenze del presente percepite come altamente negative, dove viene presagita un’esperienza di vita indesiderabile o spaventosa.” Un’utopia dominata dal negativo.

In questi tempi ci si chiede increduli quanto oggi la realtà abbia superato tutto ciò in modo così inaspettato e repentino che ci ha sorpreso e sbalordito. Anche nei toni mantrici e auto consolatori dello slogan andrà tutto bene, quando fino a ieri tutto andava verso il peggio, nei canti e nello sventolio di bandiere nazional popolari alle finestre di  un popolo radicalmente individualista e anarchico, (ricchissimo di inventiva e umanità) incapace di riconoscere un heimat, un genius loci pur che sia, anche culturale, che non sia il limitar del paesello proprio, o le eterne, esauste e fruste diatribe ideologiche (piazzate a sproposito). E’ un tempo di sospensioni spirituali e assenze religiose in un paese sede vaticana,  nell’indaffaratismo lombardo, nell’autarchia veneta. La realtà supera la fantasia anche nell’insistenza con cui si vuol costringere un popolo, – che vive per la natura del clima e per la posizione geografica sostanzialmente all’aperto, in strada –  alla clausura. Insomma per i caratteri storici ottocenteschi che Leopardi già descrisse: disincanto, il cinismo e il disinteresse. O, per citare Dante, Italia “di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”

Una certa cultura critica basata sulla razionalità scientifica oggi ci dice che questo paradigma di diffusione virale (a cui pare dovremmo abituarci come costante del futuro) è l’effetto collaterale del nostro modello di sviluppo occidentale che consuma, stravolge e uccide la terra, e se non invertito quanto prima porterà morte, distruzione, estinzione dell’umana stirpe. Di sicuro il pensiero liberale, razionale ‘forte’, economicista imperante e rapace sta dimostrando una radicale fragilità, impensata fino a pochi anni fa, in un periodo di post ideologico ottimismo mercantile, il globale diventa così reale nel locale anche nella diffusione virale. Alla fine della storia della dialettica materialista scopriamo l’assurdo nel senso tragico della vita, che non è né pessimismo né nichilismo: il pessimismo è pensare che tutto vada per il peggio, il nichilismo invece che nulla abbia valore, e se ce l’ha prima o poi lo perda.

Il senso tragico è realistica accettazione della ‘nuda vita’ così come ci si presenta, la cosa stessa. È, del resto, proprio soltanto dalla sensazione di vivere lanciati e abbandonati senza paracadute nello spazio vuoto d’un mondo d’assurdo esterno ed interno e di cieco caso, che sorge intimo e veramente profondo e potente quel senso tragico della vita” Lo scriveva Rensi in La filosofia dell’assurdo nel 1937.  La  nuda vita è già da sempre qualcosa di escluso che entra per inclusione, la rappresentazione della realtà distopica di oggi.

 “Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor” (Leopardi, l’Ultimo canto di Saffo)

img.mediterranea on line

Standard
Attualità

Leggere libri.

8065a74a3828afda31fcd76cd974f65b--celebrities-reading-reading-is-sexy

Il libro sta bene. Anzi benissimo. Le vendite crescono. La lettura meno.

Alla Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri nel corso del Seminario veneziano di dicembre scorso, all’Isola di San Giorgio,  dedicato ai librai di tutta Italia sono stati resi noti i dati del 2019 di Messaggerie Libri (il più importante distributore italiano di prodotti editoriali) che riguardano il periodo 2017-2019.

I dati sulla lettura nel nostro Paese – Il 36% degli italiani tra i 15 e i 75 anni non legge libri, ebook, non ascolta audiolibri – le difficoltà delle reti di distribuzione, le disparità regionali fortissime, la pirateria stessa-  sottolineano le criticità più evidenti. I report delineano una profonda trasformazione del mercato, con i libri di carta in crescita, soprattutto nel 2019.

Il Veneto è una delle regioni d’Italia in cui si legge di più. Nel Veneto si vendono il 10% dei libri di tutta Italia e le librerie hanno aumentato la domanda di titoli di oltre il 7%. Guardando il dato per provincia, Verona è al primo posto, seguita da Padova, Venezia, Treviso. Caso dell’anno Rovigo, che ha aumentato del 48% la richiesta di titoli. I dati presentati nel report Istat , riferiti all’anno 2018, riportano che al Nord legge una persona su due, in Sicilia solo una su quattro.

La  lettura  risulta molto più  diffusa  nelle  regioni  del  Nord: ha  letto  almeno  un  libro il  49,4%  delle persone  residenti nel  Nord-ovest e  il  48,4%  di  quelle  del  Nord-est. Al Sud  la  quota  di lettori scende al 26,7% mentre nelle Isole si conferma una realtà molto differenziata tra Sicilia (24,9%)e Sardegna (44,7%). Persistono perciò ampi divari  territoriali:  legge  meno  di una  persona  su  tre  nelle  regioni  del  Sud  (28,3%),quasi una su due  in quelle del Nord-est (49,0%).

Le biblioteche sono più frequentate nelle regioni del Nord-est (21,7%della popolazione)e del Nord-ovest (19,8%). Tra uomini e donne c’è un divario rilevante. Nel 2018 la percentuale delle lettrici è del 46,2% e quella dei lettori è al 34,7%. Per la prima volta inoltre la performance dell’Italia in questo settore risulta addirittura migliore di quella degli altri Paesi: nel 2019 il  mercato francese secondo le stime delle associazioni di categoria pare sia cresciuto solo del 2% e quello tedesco dell’1,4%. Gli Stati Uniti calano addirittura dell’1,3% in termini di copie vendute.

Secondo la classifica Amazon delle città dove si legge di più, relativa al  2019, è Milano la patria dei lettori: per il settimo anno consecutivo conquista il titolo di città che acquista più libri, sia in formato cartaceo che digitale. La medaglia d’argento va a Padova, che scalza Torino, scivolata dal secondo posto del 2018 al sesto. Il terzo posto lo guadagna Pisa.

I dati Istat ci dicono che solo il 40% degli italiani legge almeno un libro l’anno. Un dato sottostimato perché comprende esclusivamente titoli consumati per diletto e non a scopo professionale. In ogni caso, emerge un’Italia divisa in due. Una vera emergenza nazionale. Al Nord il tasso di lettura è più che doppio rispetto a quello del Mezzogiorno, mentre il centro si colloca intorno al 43,5%.

 

   “Sono convinto che chi non legge resta uno stupido. Anche se nella vita sa destreggiarsi, il fatto di non ingerire regolarmente parole scritte lo condanna ineluttabilmente all’ignoranza, indipendentemente dai suoi averi e dalle sue attività.”

Edward Bunker

Img:Pinterest

Standard
Attualità, istria

Ricordo 2020

2018sisan

«Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. […] Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. […]» (Simone Weil, L’enracinement 1949)

Le vicende del confine orientale sono parte della mia storia personale che si dipana tra gli anni ’70 e l’oggi, il ricordo è la cifra della mia bildung.

Ricordo. Una volta, eravamo io e i miei 2 estrosi fratelli, a bordo di una Fiat Uno rossa al confine di Rabuiese, quando cercavamo di trattare con una guardia confinaria slovena che ci contestava la mancanza di una carta verde per andare in Jugoslavia, fu prima del ’91. Ricordo se non erro che riuscimmo in qualche modo a passare perché poi in una curva della bella e tortuosa strada costiera sbattemmo con il muso della macchina contro il paracarro della carreggiata. O forse era un viaggio diverso. Non ricordo esattamente se riuscimmo a proseguire, forse ce la cavammo con una ruota sgonfia subito riparata. Ricordo un viaggio tentato in una Mini De Tomaso con il mio fratello omonatale, viaggio interruptus per esplosione della batteria o del radiatore nel bel mezzo dell’A4, forse a Cessalto che è risaputo essere luogo funesto di quel tratto. Ricordo il viaggio di ritorno a bordo del carro attrezzi, prima e unica volta, e lo sguardo desolato con cui guardavamo il panorama, avviliti per il guasto alla macchina e il viaggio mancato.

Ricordo quindi numerosi viaggi estivi nel caldo accecante, pieni di colori vividi e percorsi faticosi su strade polverose ripagati da scogliere solitarie e bianche da cui spiccare tuffi rigeneranti. Ricordo un viaggio via mare dal gusto retrò, con la motonave Marina, e i delfini saltare al largo del Lido di Venezia. E poi un viaggio in autobus da Pola a Trieste con mia figlia piccola, divertente e accidentato, ricco di soste e di persone. Ricordo sempre il mare in tutte le sue sfumature e le chiare acque. Ricordo ruote bucate, diverse e con automobili differenti, in strada, in riva al Carnaro, sulla via del mare, e il vulakanizer che per pochi spicci te le riparava. Penso di esser stato in Istria la prima volta all’età di 2 o 3 anni.

Ricordo i ricci di mare pescati e mangiati con Toni a Punta San Stefano e le prime nuotate sotto il Monte Madonna, il frinire assordante delle cicale. Ricordo le case, vecchie, semplici e maestose, fatte di pietre squadrate, fresche e ombrose d’estate al riparo dalla calura, quelle di famiglia di altrui proprietà. Ricordo le borse piene di limoni, detersivo, caffè e fertilizzante della Montedison, beni introvabili allora lì. Ricordo le All Star Converse da basket di pelle bianca e con il logo rosso, acquistate a Pola, le ho usate fino a sfondarle, mi piacevano davvero molto. Ricordo la cucina economica (“lo spaker”) i tini di vino acidulo, l’alambicco in rame sotto la pergola, le tavolate all’aperto in corte all’ombra del gelso, i trattori e i campi rossi seduto sul pararuota.

Ricordo le persone, i cosiddetti “rimasti”: Romano, Maria, la Nerina, la Claudia, la Kate, Aldo e Stella, Paolo e poi Bruno e Miriana, Bruna e Sandra. Atmosfere, gusti, sapori e odori, questo resta impresso, sempre. Tavolate di cibi semplici e schietti. Con gente sempre semplice e schietta. Gnocchi o fusi con il sugo rosso di gallina, carni grigliate e saporite, formaggi e prosciutti stagionati. E la deliziosa Malvasia di Parenzo, che non dà alla testa, ma questo più avanti perché la vinificazione commerciale è arrivata in seguito. Il pesce, ricordo, i rossi riboni fritti e le sarde. Il pane soprattutto, la struza appena sfornata. E poi le barche al largo della piccola baia deserta. Imparai in Istria a nuotare, nelle acque limpide del Carnaro un’estate degli anni ’70. Ricordo i giochi d’acqua e i bagni e gli scherzi di giovani scapestrati, le chiappe esibite a scherno del pescatore allertato, perdonati perchè conosciuti.

Ricordo la campagna, vasta e rigogliosa, segnata da tratti coltivati e altri totalmente incolti. I colori sempre vividi in piena luce, tutte le tonalità del verde, il contrasto con il cielo limpido, i segni rossi e bianchi dei sentieri a tracciare il percorso. Ricordo campi e terreni coltivati faticosamente dai miei avi.

Ricordo tutti i monumenti, le chiese, gli archi, i muri a secco, i cimiteri, e i campanili. Ricordo camminate e cittadine, villaggi e contrade, storia e memorie. Ricordo il Monte Zaro e le calli intorno al centro di Pola, il museo archeologico nel suo angolo quieto al riparo dei resti romani. La terribile edilizia jugoslava. Il mercato del pesce e della frutta e della verdura con le donne del contado che ti invitano all’acquisto. Visinada, Sanvincenti, Rovigno, Albona, Cherso e Montona, Grisignana, Portole, Momian e Lubenizze e Lussino. Il dialetto dell’Istria meridionale, che è musicale, unico e aspro, quasi un veneto un poco corretto da cadenze come orientali. Ricordo detti e racconti in innumerevoli chiacchierate di tempi e storie del passato.“Magna picio” e poi “bevi, bevi piria”, da grandi. Mali Prinz mi chiamavano da bambino. Il mio ricordo è tutto familiare, è culturale, impossibile da sradicare.

Ricordo pure l’ignoranza e la maldicenza e l’indifferenza, in Italia.

Ricordo anche sempre le notti, i cani abbaiare nel vento, il buio pesto, denso, e il silenzio. Ecco sì, lì è nascosto qualcosa che non passa, qualcosa di tragico e di tremendo, che segna queste terre e che non si può dimenticare.

Img: DU 2018.

Standard
Attualità

Venezia vista dall’acqua.

2018stefanosoffiato.jpg

“Città ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura” (Francesco Petrarca ad un amico 1321)

Henry James, “Scrivere a Venezia è difficile perché il mondo non ha bisogno di ulteriore bellezza.”

Βενετιϰή, Venetica, Venetia, Bunduqiya, Wenecja, Venetsia, ΒενετιϰόϚ, Venedig, Benetki, Venèsia.

Nel 1500 “Venezia, “trionfante”, è una città unica, miracolosa. Ogni città-stato italiana si dice in realtà singolare, ma di tutte Venezia si dice, ed è detta, la più singolare” scrive Elisabeth Crouzet-Pavan nel suo  Venezia trionfante. 118 isole, 150 rii o canali, circa 400 ponti. Un tempo regione augustea, “dalla Pannonia all’Adda”. La grande Venezia, (Regio X Venetia et Histria con l’Istria) di epoca romana, scomparve pare nel 569 d.C. lasciando lo spazio alla seconda Venezia come viene chiamata dallo storico venetico più antico, Giovanni Diacono, quella che noi oggi così conosciamo.

Venezia nel mito vanta diverse date di nascita e fondazione, impossibile distinguere e provarne una per certa. Forse il 421 con la fondazione (improbabile) della Chiesa di San Giacometto a Rialto,  o il  697 con il primo Dux Paulicio, esarca bizantino, o il  811 con Agnello Parteciaco (o Partecipazio), poi Badoer, che fonda a Rivoaltus il palazzo sede ducale, oppure la data dell’827 con l’arrivo del corpo di San Marco da Alessandria d’Egitto, oppure il 1063 la ricostruzione di San Marco e anche il 1082 quando Alessio Comneno con la Crisbolla sancì l’indipendenza da Bisanzio ma ancora c’è la data del 1094 con la nuova consacrazione della Basilica e  il miracolo del ritrovamento del corpo di San Marco o, infine, il 1297 ultima data possibile ipotizzabile con la serrata del Maggior Consiglio che fonda il patriziato veneziano.

Oggi Venezia è sommersa. Venezia sul crinale di un’era nefanda priva di equilibrio e di assennatezza. Venezia che oggi sta per esser piombata nel gorgo della forza di una natura debordante i vincoli umani; una Venezia in pericolo ove mancano però uomini attenti che, all’improvviso, la possano vedere e la salvino. Come Jaffier il traditore redento, salvatore e condannato, della tragedia di Simone Weil. O meglio, abbondano uomini e donne che seppur attenti prefigurano una spirale di visioni infauste ma non sanno come intervenire. Dilaga la psicosi del complotto. Dei presunti esperti, dello Stato, degli italiani, degli affaristi senza scrupoli, dei politicanti, della politica, dell’Europa. Venezia è perduta.

«Dio non permetterà che una cosa tanto bella venga distrutta. E chi vorrebbe far male a Venezia? Il nemico più implacabile non ne avrebbe il cuore. Che vantaggio avrebbe un conquistatore a sopprimere la libertà di Venezia? Solo qualche suddito in più. E chi vorrebbe, per così poco, distruggere qualcosa di tanto bello, qualcosa di unico al mondo!» (S. Weil, Poèmes)

Di questi tempi grami in cui l’acqua sembra voler inghiottire con voracità Venezia, quell’acqua marina che invade le rive e penetra da ogni pertugio, si assiste turbati a uno spettacolo naturale di violenza devastante e repentina, come l’onda di denigrazione e cinismo, rivendicazioni e odio e profonda insipienza, quella che ci sommerge come l’acqua.

Incuranti di calici screziati e legni antichissimi, di lamine dorate in tessere incollate, di colonne e pietre levigate, che ancor oggi sulla linea di riflesso dell’acqua che s’innalza risaltano di intatto splendore. Ignari di vetri soffiati, di ricami delicati, di frutti prelibati, di artefici alchemici alimentari.  Del tutto a digiuno di Venetia et Histria, di tribuni marittimi, di Magister Militum, di Cronaca Altinate, di Mauro e Aurio, di Santa Giustina alle Vignole, di Narsete, di San Teodoro, e di pirateria adriatica, di Istria e Dalmazia. Dei Gritti, dei Pisani, dei Grimani, dei Contarini, dei Morosini, degli Zorzi. Di Veronica Franco e Isabella Cortese. O di Elena Lucrezia Cornaro. Di Interdetto papale, di congiura di Bedmar, di Marino Falier. Di narentani ed Uscocchi. Di Napoleone, di sale e di vino e di olio. E di Carpaccio, di Tiziano, di Giorgione, di Tiepolo e Tintoretto, di Paris Bordone e Cosmè Tura. Di Scamozzi, Sanmicheli, Palladio, Sansovino. Di Candia, di Zante, di Rettimo, di Zara, di Scutari e Durazzo, delle Tremiti, di Cipro. E di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, che ne sanno?

“Beauty is difficult”, la bellezza è difficile. Ezra Pound nel 1908 a Venezia con 80 dollari in tasca pubblica a sue spese la prima raccolta di poesie, A Lume Spento, cantando il sole veneziano, Alma Sol Veneziae. Pound cantava Venezia nella sua Litania notturna «O Dio delle acque, / monda i nostri cuori dentro di noi, / E le nostre labbra per lodarti. / Perché ho veduto / L’ombra di questa tua Venezia / rifrangersi sulle acque, / E le tue stelle // L’hanno veduto dal loro corso remoto / Hanno veduto questa cosa, / O Dio delle acque, / Come sono le tue stelle / Silenti nel loro grande moto, / Così il mio cuore / è silente dentro di me». Quella di Pound, nelle prime poesie veneziane, è una Venezia solare, portatrice di energia, di vita, non di morte come quella di Thomas Mann.

E nel nome della bellezza, platonicamente, la città è cresciuta, generata nella e dalla bellezza, partorita nel bello secondo il corpo (la materia povera delle lagune) e secondo l’anima, (il credo ortodosso cristiano) culla di filosofia a Padova, lo Studium Patavinum, o alla Marciana, di Marco colma di testi antichi, oggi biblioteca nazionale. Che ne sanno oggi dei viaggi di Dante, Petrarca, Leone ebreo,  Erasmo da Rotterdam, Paolo Sarpi, Galileo Galilei, Giordano Bruno (arrestato a palazzo Mocenigo a S. Tomà e portato a San Domenico di Castello), Hobbes,  Rousseau (che vive ai Tre Archi di S. Giobbe), Goethe che arriva dal Brenta in Burchiello, Schopenhauer, Nietzsche che va al Lido a fare i bagni con il fidato Koselitz/Peter Gast, J.P. Sartre, Luigi Stefanini e il filosofo Giuseppe Rensi che cerca una stampa del Cavaliere Solitario, nella città più bella del mondo?

L’antica basilica di San Marco porta scolpite e composte nei marmi, da Bisanzio, le sacre e ieratiche figure di santi e le narrazioni evangeliche che portano a Dio come ad un’ascesa spirituale. I veneziani vollero ancorare al sacro mistero cristiano la loro sorte terrena. 9000 metri quadrati di lamine e tasselli d’oro di vetro e ricoperti con una sottile foglia  da 24 carati, sulle cupole dell’Emanuele, dell’Ascensione e della Pentecoste dove troneggia la Colomba Bianca simbolo dello Spirito Santo da cui scendono 12 fiamme di fuoco sulle teste degli Apostoli, ai piedi dei quali vi sono coppie di figure con il nome di diversi luoghi del mondo che rappresentano i popoli che ricevettero il messaggio di Cristo. Con l’aggiunta di una sagace scaltrezza che pose in Cripta i resti di Marco, il santo, fatto patrono. Dall’arte di Costantinopoli arrivano anche le 1927 pietre preziose della Pala d’Oro. Rubini, smeraldi, topazi, perle, corniole, zaffiri, ametiste, agate.

Rialto fu sempre luogo cardine della vita commerciale veneziana, fin dal 1200, e deve la sua configurazione alla natura di scambio e commercio gravante attorno alla piccola chiesa di San Giacomo, sotto i portici al cui riparo si trattavano merci di tutto il mondo conosciuto, (e dove nasceva una delle prime banche d’Europa) nelle cui locande alloggiavano mercanti stranieri, e nelle osterie si ristoravano cittadini e forestieri. Il ponte cinquecentesco (fino al 1591 il ponte era in legno) congiungeva le due zone principali di Venezia: San Marco centro politico e religioso con le mercerie, e Rialto (Rivo Altus) primigienia sede della Nuova Venezia del 700 d.C. luogo di traffici, accordi, commerci. Alvise Zorzi lo considera “il più straordinario crogiolo di lingue, di popoli e di razze e, insieme il più variopinto centro d’affari che si fosse mai visto dopo la caduta di Costantinopoli”. Nella Drapperia o Draparia, nelle botteghe e nei botteghini antistanti gli orefici e i gioiellieri trattavano turchesi persiani e smeraldi indiani, cristallo di rocca e lapislazzuli afghani, rubini, zaffiri, corniole, topazi e diamanti, e da questi artigiani prese il nome la larga calle che fronteggia l’edificio del (fu) Magistrato alle Acque, nel cui cornicione d’angolo, verso il Ponte di Rialto, spicca una statua della giustizia con spada e bilancia, probabilmente d’epoca romana, simbolo di equità nei traffici commerciali. Rialto Mercato veneziano per eccellenza, con la sua Erbaria e le Beccarie, carne e verdure, e il vino veneziano che dà nome alle cantine di mescita, le Malvasie. La diffusione del vitigno e del nome venezianizzato  di Malvasia: dalla Grecia all’Italia, Istria e Dalmazia, Spagna e Portogallo. Si diffonde con la caduta dell’Impero Romano d’Oriente quando a Venezia tocca il porto fortificato di Monemvasia, ovvero Malvasia, i cui vigneti danno da sempre vino eccellente. Molte osterie della città lagunare cominciarono a vendere esclusivamente Malvasia, tanto da venir identificate con il termine stesso. Ancor oggi a Venezia calli e ponti ricordano questo vitigno e con il termine “Malvasie” si indicano i locali in cui si servono principalmente vini sfusi.

E poi San Pietro di Castello che fu prima Basilica cittadina, ad Olivolo, sorta nella metà del secolo VII, una delle isole che formavano la Venezia primigenia e bizantina, che custodisce la Cattedra di San Pietro, in realtà parte di un’antica stele funeraria islamica con motivi decorativi arabi e incisioni in cufico di versetti del Corano. A Grado stava il Patriarca di Venezia fino al XVI secolo quando si trasferì a San Pietro di Castello e lì restò fino al 1807. (San Marco era la cappella privata del Doge). L’altar maggiore, dov’è collocato il corpo del primo patriarca, San Lorenzo Giustiniani, fu scolpito l’anno 1649 con disegno di Baldassare Longhena. Lorenzo Giustiniani fu asceta e mistico, fondatore dei cosiddetti Celestini di San Giorgio in Alga, dall’isola dove si ritirò per vivere in comune con loro, riconosciuti poi come “Compagnia di canonici secolari” ordine monastico in seguito diffusosi in Italia ed Europa concordandosi alla regola agostiniana, fondato appunto nell’isola di San Giorgio in Alga, fulcro della spiritualità lagunare, situata a nord della città affacciata sul Canale Vecchio di Fusina che da Venezia prosegue sino all’imbocco del Brenta, oggi isola totalmente depredata e abbandonata, ridotta a pochi ruderi circondati di rovi.

La Laguna luogo di eremi e di mistici. Come il soggiorno, forse leggenda, nel 1220 di Francesco d’Assisi di ritorno dall’Oriente e dalla Quinta crociata, o dall’Egitto. Anche se rimangono molti dubbi sulla veridicità del fatto certo è che nel 1228 il patrizio Jacopo Michiel, proprietario dell’isola detta Isola delle Due Vigne, accordandosi con Sant’Antonio da Padova, ministro provinciale, fece erigere una chiesa a nome di San Francesco. Questa risulta essere la prima chiesa dedicata al santo, dove campeggia il motto: “Beata solitudo, sola beatitudo”

E di Venezia e della sua natura bizantina si può intendere dalle leggi superstiti e dalle consuetudini che acquisisce dal morente impero romano d’Oriente, dopo esser stata lido romano, tra Lio Piccolo ad Altino, sotto Aquileia, all’avvicinarsi del nuovo millennio, verso l’anno mille. Il diritto romano e le antiche leggi riformate da Giustiniano rientrarono subito in vigore nei territori lagunari dipendenti da Bisanzio. Come intendere altrimenti la consacrazione della cattedrale di Torcello alla Madre di Dio, Theotokos secondo Efesi 431 e il Cristo pantocratore che domina le cupole nei mosaici a San Marco? Grazie al suo passato greco-bizantino visibile ad ogni angolo e grazie al suo ruolo di mediatrice tra Est e Ovest, Venezia è il simbolo della coabitazione umana e di civile convivenza. Dalle sponde della Serenissima il viaggio verso Oriente, per terra o per mare (dall’Adriatico, allo Ionio, all’Egeo) si svolgeva attraverso un cammino che conduceva sulla via delle Indie o verso Costantinopoli. Un itinerario ricco di suggestioni, fortemente attraente, altamente rischioso. L’Oriente, rappresentò il luogo più indicato per la “formazione” diplomatica e per l’esercizio della buona pratica mercantile dei giovani patrizi che usualmente si dedicavano ai commerci dopo gli studi filosofici a Padova. Le Relazioni presentate al Senato dagli ambasciatori di ritorno dalla propria missione informavano le autorità cittadine sugli esiti dell’incarico politico svolto presso la corte del Sultano e non tralasciavano impressioni o valutazioni ricchissime di notizie.

L’oratorio di Santa Fosca a Torcello costruito in fasi diverse tra il IX e il XII secolo, è l’edifico veneto bizantino, forse il più romanico di Venezia: di perimetro ottagonale ha una pianta a croce greca con il braccio orientale più sviluppato e triabsidato, la chiesa è porticata su cinque lati e ha un volume centrale più alto, cilindrico, tipico delle costruzioni medievali religiose italiane. L’isola fu primigenia sede vescovile dei veneti in fuga da Altino, porto romano interrato nel tempo e attaccato dai barbari. Fosca, vergine e martire, le cui spoglie furono trasportate dall’oasi di Sabratha in Libia in Laguna nel 1011, nacque a da una famiglia pagana di Ravenna, quindicenne volle diventare cristiana con la propria nutrice Maura e insieme si fecero battezzare. Si dice che “Il padre Siroi, contrario a questa scelta, denunciò la figlia al prefetto Quinziano, ma la polizia, al momento dell’arresto, arretrò spaventata, dal fatto che la trovarono in compagnia di un angelo.” Furono arrestate, processate e torturate, infine decapitate il 13 febbraio, i loro corpi  gettati in mare o trafugati da marinai e trasportati in Tripolitania dove ebbero sepoltura nelle grotte presso Sabratha (oggi Saqratha).

Venezia porto sicuro per profughi ed esuli, come l’isola di San Lazzaro degli armeni e gli ebrei del Ghetto. Fu rifugio offerto nel 1717 quando la Serenissima accolse i monaci profughi fuggiti dalle persecuzioni turche. L’isola conserva l’antica stamperia e un prezioso sarcofago egiziano. Dalla Riva degli Schiavoni (luogo di sbarco dei profughi istriani, giuliani e dalmati nel 1947) si raggiunge con la linea 20 del vaporetto, seconda fermata dopo l’isola San Servolo, dove c’era il manicomio. A San Lazzaro veniva a meditare lord Byron, «amico degli armeni» di cui volle imparare la lingua. I mercanti partiti dalle pendici dell’Ararat, il monte di Noè, erano presenti in città fin dal Medioevo, come attestano gli antichi toponimi. Ruga Giuffa, non lontano da San Marco, era il quartiere dei mercanti armeni provenienti dalla città di Julfa, ora in Iran, prospero centro sulla Via della Seta. il Sottoportego degli Armeni, nei pressi di San Marco, nasconde la piccola chiesa di Santa Croce e il minuscolo campanile del XIII secolo, un luogo misterioso e arcano che sembra uscito dalle strisce di Corto Maltese di Hugo Pratt, il veneziano artista del fumetto. Qui si raccoglievano i mercanti per ascoltare la messa con la liturgia armena, di molto anteriore al rito latino romano. E se vogliamo essere pignoli  con il termine “armelin” i veneziani chiamano le albicocche, frutto onnipresente in Armenia.

Fu la  Quarta Crociata che portò a Venezia un vero e proprio impero coloniale e sancì la sua egemonia su tutto il Mediterraneo orientale: la città lagunare arrivò a controllare gli stretti, l’ingresso nel Bosforo e tutta la rotta marittima dalla laguna veneta fino a Costantinopoli. La repubblica marinara controllò principali porti dell’Ellesponto e del Mar di Marmara, dei centri strategici del Peloponneso oltre che di Ragusa e Durazzo. Tra la metà del ‘400 e fino alla caduta Venezia stringeva accordi anche nelle isole Ionie, e Creta, che comprò da Bonifacio, controllava così la maggior parte delle isole dell’arcipelago e la città di Adrianopoli, centro nevralgico della Tracia imperiale. Le isole Cicladi non facevano parte dello Stato di Venezia, non essendo rette direttamente da magistrati dogali, ma la lunga dominazione veneta è testimoniata da numerose chiese cattoliche, resti di fortificazioni e di edifici adibiti a dimora anche in altre isole, soprattutto a Tinos e Syros, e poi a Paros, Andros, Santorini, (corruzione del nome Sant’Erini, che le fu dato dai veneziani in onore di Santa Irene di Tessalonica, martire del 304, a cui era dedicata la basilica di Perissa, località della parte sud-orientale dell’isola) Ios, Folegandros, Amorgos.

La Repubblica di Venezia fu uno dei più potenti e fieri stati dell’Italia preunitaria, ma attorno al 1500 la crescente potenza della città lagunare destava preoccupazione sia agli altri stati italiani che alle potenze straniere presenti nella penisola, ma soprattutto a papa Giulio II: a preoccupare il pontefice era la dichiarata volontà della Repubblica di espandersi verso la Romagna. Le trattative avviate dal papa contro Venezia coinvolgevano gran parte degli stati italiani ma anche le principali potenze europee. Tutti avevano dei conti da regolare con lo Stato marciano. Quando tutti si allearono contro Venezia e la sconfissero, consegnarono nuovamente l’Italia a stranieri vittoriosi. La “rotta della Ghiaradadda” fu un colpo terribile per Venezia; la ritirata di ciò che rimaneva dell’esercito marciano si arrestò solamente sulle “ripe salse“, ovvero tra Mestre e Peschiera. Le potenze della lega di Cambrai approfittarono della crisi veneziana per agire; le truppe pontificie conquistarono le terre romagnole, inclusa Ravenna, mentre nel sud la Spagna si riprendeva i porti pugliesi; il duca di Ferrara occupava il Polesine e Rovigo. Quanto a Luigi XII, questi annetteva al Ducato di Milano le città di Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Peschiera e la Ghiaradadda. Verona, Padova e Vicenza si ribellavano dandosi a Massimiliano I. Dalla paura di un’Italia unita e veneziana alla disgregazione e parcellizzazione straniera della penisola.

Venezia in conflitto atavico con la Roma papale. Perchè la Repubblica conservava con cura la propria autonomia. Il Vaticano esigeva privilegi speciali che Venezia non volle (quasi) mai concedere. Per le questioni territoriali con il Patriarcato di Aquileia. Per le contese territoriali e fluviali in Romagna. Per la negata esenzione fiscale agli enti religiosi, per la scelta –  sempre rifiutata dalla Serenissima ma da Roma richiesta – di poter decidere i titolari delle sedi espiscopali. Perchè Venezia non garantiva l’immunità al clero rispetto ai suoi tribunali. Per il controllo anche dei vascelli battenti bandiera vaticana operato da Venezia nell’Adriatico. Perchè la Serenissima rifiutò di applicare l’Indice dei libri proibiti sul suo territorio, e così per l’ospitalità distintiva della Repubblica per chiunque professasse fedi differenti: marrani, ebrei, protestanti, greci ortodossi, nonchè i turchi. Nel 1568 papa Pio V indirizzò implicitamente contro Venezia l’encicicla In Coena Domini, con la quale esigeva obbedienza incondizionata. (Venezia negò per un anno, dopo l’arresto nel 1592, l’estradizione a Roma di Giordano Bruno, poi capitolò). Infine si arrivò all’Interdetto del 1606, punizione ecclesiastica che interdice il culto e i sacramenti in uno Stato cattolico e che, per tale motivo, è considerata equivalente alla scomunica. La vicenda vedrà scendere in un accesissimo dibattito personaggi illustri come i cardinali Baronio e Bellarmino per la Santa Sede e Paolo Sarpi e Antonio Querini per la Repubblica veneta. La Repubblica dichiara le censure pontificie contrarie alle Divine Scritture, alla dottrina dei santi Padri, “in pregiudizio dell’autorità secolare donataci da Dio e della libertà del Stato nostro”. La contesa terminerà il 21 aprile 1607 con una “sconfitta” del papa appena velata: egli toglieva l’interdetto senza che Venezia prestasse un’adeguata soddisfazione, né rinunciasse alla sua presa di posizione sulla questione di principio.

Venezia nasce dalla paura e dalla meraviglia, nasce nel turbine delle invasioni straniere dei barbari Longobardi che si scatenò tra il V e il VI secolo sopra l’angolo nord-orientale della penisola italica. I primi veneziani in fuga, in cerca di un riparo sicuro, profughi, migranti veneti che si fanno pescatori, commercianti, a vanto della loro città divennero abilissimi costruttori anfibi di meraviglie in mosaico e pietra d’Istria. Diventano Venetici. Spirito, ingegno, onore e genio. Vendita del pesce e raccolta del sale crearono le prime fonti di ricchezza. Se non si presta attenzione alla difesa della libertà e dell’autonomia non si capisce Venezia. L’unicità di una città-stato costruita tra mare e laguna, sospesa tra terra e mare è tutta qui. A questo allude il suo simbolo, il leone alato (oltre che maestà, potenza, saggezza, giustizia, pace, forza militare e pietà religiosa quale simbolo dell’evangelista Marco) quello  cinquecentesco del Carpaccio che posa una zampa sulla terra e l’altra sull’acqua. E’ qualcosa di intermedio: un grande daimon. E la sua felicità, il suo buon demone, fu questo gioco di riflessi tra cielo, mare e acqua salsa. Una terra mobile che si colora e scompare, che si allaga e si secca, su cui il tempo sembra rallentare. Fermare il tempo, congelare l’ideale.

In quanto città eterna rappresenta l’immagine scolpita dell’impresa millenaria di una stirpe audace qual era a quel tempo la gente veneta. Venezia è una liturgia di amore uranico cesellata e sospesa nei secoli, figlia di penuria e ingegno, che seppe elevare un tempio su colonne di canneti e limonio. Per questo Venezia è città filosofica, straordinaria e peculiare, perché come ricorda Diotima nel Simposio platonico, come Eros che è filosofo, e ha come madre la mancanza, la privazione, Penia, che mendica avanzi dal banchetto degli dei, suo padre è ingegno, Poros, che è figlio di sapienza e scaltrezza, così Venezia costruita dal poco o nulla della barena limo-argillosa, “suolo salso” altamente clorurico, diventa città d’oro, con ingegno e inventiva  straordinari. Si può ignorare l’incuranza verso un bene così prezioso, verso un frutto eccelso dell’ingegno romano, veneto e italico, così delicato e fragile?

“La bellissima e meravigliosa realtà di Venezia va oltre la più stravagante fantasia di un sognatore. L’oppio non riuscirebbe a creare un posto come questo, e un posto così incantevole non potrebbe venire fuori neppure da una visione.Tutto quello che avevo sentito, letto o fantasticato su Venezia è lontano mille miglia. Sai che tendo a essere deluso quando si tratta di aspettarsi troppo ma Venezia è sopra, oltre, al di fuori dell’immaginazione umana.” (Charles Dickens ad un amico 12 novembre 1844)

“Venezia vista dall’acqua” è il titolo di un volume di G. Piamonte pubblicato nel 1968 dalla fu casa editrice stamperia di Venezia.
img: ©Stefano “Steve” Soffiato 2018
Standard
Attualità, filosofia digitale, Politica

Infosfera, tra nuovi linguaggi e ingenuità. Sul digitale.

web digital.pngAppunti per una riflessione sulla filosofia digitale tra Floridi, Baricco, Accoto e Morozov.

Se è vero, come scrive  David Bohm, che «la scienza è divenuta la religione dell’età moderna», la tecnologia e in particolare le ICT –  cioè le tecnologie legate alla comunicazione e a all’informazione – oggi creano gli spazi in cui si realizzano le nostre relazioni quotidiane. Come ci modificano e quanto stanno influenzando la nostra vita lo ritroviamo in quanto scrive Luciano Floridi, quando afferma che la sfida del digitale rappresenta una rivoluzione di così grande impatto e così veloce nel suo evolversi e la filosofia avrebbe il dovere di interrogare questo enorme cambiamento.

Una premessa necessaria riguarda la formazione degli autori che studiano e scrivono di filosofia digitale che sono per la maggior parte fisici, matematici e informatici, l’eccezione appare italiana con Floridi, (e con il giovane Cosimo Accoto, Research Affiliate all’MIT di Boston) come vedremo.  La filosofia digitale  nasce con la diffusione dei computer e del pensiero computazionale, il computer infatti per tale concezione  è anche una macchina filosofica. Giuseppe Longo afferma che con il pensiero digitale si afferma l’idea che la realtà sia, al suo fondo, un tessuto o una struttura di informazioni. «Il computer ha segnato il ritorno a una filosofia in senso forte, cioè a una metafisica e a un’ontologia, allontanandosi da una serie di incarnazioni deboli e parziali sviluppatesi negli ultimi tempi (filosofia del linguaggio, epistemologia, filosofia del diritto, filosofia della scienza e via enumerando).»  La filosofia del digitale oggi rappresenta una corrente di pensiero i cui esiti e sviluppi sono ancora tutti da verificare, ma che legge la realtà come costituita  di  informazione  e  animata  dalla  continua  esecuzione  di algoritmi,  tra  i  quali  sono  fondamentali  gli  automi  cellulari. Se si vuole individuare una data, un momento storico, per la nascita del pensiero digitale, detto anche talvolta filosofia dell’informatica, Longo lo individua nel 1981 con l’affermazione: “il Cosmo è un Grande Computer” nel contributo di Wheeeler Zuse, intitolato The Computing Universe, al Massachusetts Institute of Technology dove si tenne il convegno su “Fisica e computazione” dichiarazione che allora apparve inaudita e pretenziosa ma che oggi lo è molto meno visti i recenti sviluppi della tecnologia ICT a livello globale.

Le riflessioni di Fredkin, Chaitin e Wolfram sono le espressioni forse più esplicite  di questo movimento filosofico. Per Edward Fredkin, considerato il pioniere della Digital Philosophy , «L’informazione è alla base della realtà materiale, che fin  dal  tempo  dei  presocratici  costituisce  il  campo  d’indagine  privilegiato  della filosofia, ma è anche alla base della realtà mentale del soggetto che si pone la domanda  e  investiga.  In  parole  ancora  più  trasparenti,  l’informazione  (questa volta  intesa  in  senso semantico)  è  anche  alla  base  della  formulazione  della verità, il cui possesso dovrebbe acquietare la sete di conoscenza che muove la ricerca.  L’informazione  è  insieme  l’oggetto  e  il  soggetto.  Informazionale  è  la natura della verità: secondo Fredkin tutto si muove all’interno di questo circolo.» L’apporto maggiore  di  Fredkin  consiste  in  un’asserzione  ontologica:  l’informazione  è  il principio  primo  della  realtà,  il  suo elemento  costitutivo.  In  altri  termini:  dove Pitagora  poneva  i  numeri  e  Leibniz  immaginava  le  monadi,  ecco  che  Fredkin colloca l’informazione. (La Nascita della Filosofia Digitale G.O. Longo, A. Vaccaro). “Esistono tre grandi domande filosofiche: cos’è la vita? Cosa sono la coscienza, il pensiero, la memoria e simili? Come funziona l’universo? Il punto di vista informazionale le concerne tutt’e tre.” (E. Fredkin in R. Wright, Three scientists and Their Gods, cit., p. 9.)

La filosofia digitale pone alcune questioni urgenti che qui attraverso questi autori emergono con chiarezza: l’etica e la governance del digitale, l’educazione alla ICT, la gestione degli algoritmi nella rete, la manipolazione dei dati a livello globale, la politica digitale.

Mentre compaiono le prime indagini sulle conseguenze dell’abuso dell’uso di strumenti ICT , soprattutto sulle funzioni cognitive, memoria, attenzione e concentrazione, da uno studio su larghissima scala condotto dalla Cancer Society e dall’Istituto di Epidemiologia dei Tumori di Copenhagen non è emerso alcun rischio di aumento di tumori cerebrali o del sistema nervoso più in generale. Si afferma che tali tecnologie possono però ridurre la nostra capacità di attenzione e concentrazione, e ciò può riguardare in particolar modo (ma non solo) gli studenti, come evidenzia uno studio della Stellenbosch University. Valleur e Matysiak (2004) hanno evidenziato come le nuove dipendenze quali gioco d’azzardo, internet, sesso, lavoro, telefono cellulare e shopping compulsivo siano malattie della postmodernità e questo non scalfisce certo l’importanza della diffusione delle ICT. Jean M. Twenge, docente di psicologia all’Università di San Diego, ha scritto un articolo molto complesso e discusso che analizza l’uso e le conseguenze degli smartphone e dei social media da parte degli e delle adolescenti, non è un’esagerazione, dice la studiosa, descrivere gli adolescenti di oggi come sull’orlo della peggiore crisi di salute mentale degli ultimi decenni, e non è un’esagerazione ipotizzare che gran parte di questa situazione possa essere ricondotta ai loro telefonini. Nel novembre del 2017 appare un’intervista in cui Sean Parker, l’hacker che ha fondato Napster e ha lavorato con il fondatore del social più famoso  fa mea culpa: «Solo dio sa cosa fanno queste piattaforme al cervello dei nostri bambini». Più che i rischi legati alla salute si evidenziano oggi i rischi dal punto di vista comportamentale e relazionale. Naturalmente gli amici psicologi hanno subitamente coniato nuove patologie, pret a psyché: la Sindrome da Disconnessione, la Sindrome da Blackberry, la Dipendenza da Social Network e la Sindrome dello squillo o della vibrazione fantasma.

Il tema delle navigazioni orientate è uno dei più scottanti, poiché dietro a ogni ricerca in rete c’è sempre un algoritmo che mira a soddisfare l’utente, a farlo contento. E questa è una strategia elementare: più sei contento e più rimani a navigare dove sei contento e questo aspetto ha anche o soprattutto una funzione commerciale, poiché in base alle tue ricerche sarai inondato da offerte commerciali specifiche. Così come ciò che ricerchi mette in moto un algoritmo che al successivo accesso ti indirizzerà verso il rafforzamento dell’oggetto di quella ricerca. I motori di ricerca decidono per noi cosa sia rilevante nella conoscenza e, ultimamente, agiscono in maniera personalizzata. Alessandro Chessa, data scientist e amministratore delegato  Linkalab, centro studi sui big data spiega:  «questo meccanismo autoreferenziale amplifica le nostre preferenze e ci fa cadere nelle cosiddette echo chambers, che sono il brodo di coltura perfetto per la diffusione delle fake news», praticamente sentiamo sempre e solo ciò che vogliamo sentire.

Come anticipato in premessa Luciano Floridi afferma che il progresso delle tecnologie informatiche e di comunicazione (ICT) rappresenta una rivoluzione (la quarta) di così grande impatto e così veloce nel suo evolversi che la filosofia sarebbe l’unica disciplina che per statuto avrebbe il dovere di interrogare questo enorme cambiamento, pari a quello che 6000 anni fa investì il mondo con la nascita della scrittura e 2500 anni fa coinvolse Platone nel dibattito sull’oralità contro la scrittura. Floridi è un filosofo italiano naturalizzato britannico,  professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, dirige il Digital Ethics Lab. Afferma che siamo passati dalla storia all’iperstoria, ovvero le ICT sono diventate condizione necessaria di supporto alle nostre vite, e che le strutture digitali sostengono di fatto le società più avanzate. Floridi afferma senza mezzi termini che questa è una questione filosofica. «Più il mondo è tech, più ha bisogno di filosofia etica. Perché il tema non è capire se dobbiamo o no aver paura dei robot ma come gestire in modo coordinato la società digitale». Non solo etica quindi, ma l’esigenza di comprendere e interpretare, analizzare e orientare, strumenti filosofici, altrove abbandonati ma oggi inevitabili per i filosofi del nuovo millennio. «C’è un enorme bisogno di vederci chiaro, di porre le domande giuste e di trovare le risposte migliori alle nuove sfide anche politiche poste dall’iperstoria.» C’è insomma bisogno di filosofia ma ancora la filosofia fatica a fare filosofia.

Naturalmente i termini della questione non riguardano solo l’uso delle ICT e l’accesso alla rete,  ovvero non stiamo parlando banalmente (solo) di Facebook e dell’uso degli smartphone, che rappresentano il livello di superficie dell’analisi sul digitale. A questo proposito è bene ribadirlo: no, una volta per tutte: facebook non è il nuovo agorà della polis globale ma solo il parco giochi commerciale del suo inventore. Social media di cui spesso si ignora ingenuamente il funzionamento degli algoritmi che riproducono, replicandole a dismisura, le parole chiave più usate nei network digitali regalando a personaggi in cerca di visibilità il favore più grosso che si possa oggi immaginare oggi cioè amplificarne il messaggio a costo zero e senza troppa fatica. Complici di tutto ciò sono i sempre più pigri e pavidi commentatori che senza approfondimento pescano le notizie dai social e senza ulteriori filtri critici le rimbalzano nei loro media. Che è come se nella boulé ateniese un gruppo di cittadini sostenitori di una parte ripetesse a gran voce le parole d’ordine dei magistrati più potenti e così influenzasse il voto dell’ecclesia, mentre coloro che dovrebbero contrapporre argomenti e azioni si limitano a ripetere le parole d’ordine altrui per contrapposizione, senza porre temi alternativi ma spendendo energie inseguendo dibattiti. Oppure alcuni credono di replicare  il dialogo come fine argomentazione negli angusti spazi dei commenti social mediatici, che è come dire che il lessico digitale, cioè il modo di scrivere e interloquire nei social possa replicare un confronto argomentato e che equivalga all’oralità del dialogo filosofico, semanticamente e semiologicamente un’assurdità. La viralità di un contenuto social in ogni caso non è garanzia di veridicità ma solo di quantità di contatti o condivisioni, per assurdo un software che moltiplica un contenuto per un certo tempo genererebbe una “convinzione diffusa” solo perché molto condivisa e quindi un’opinione maggioritaria, ovvero una fake news. Nel caso italiano è evidente l’ignoranza dei più rispetto agli effetti cosiddetti Streisand o Erostrato, ( tratti anche dal libro di Morozov) che prendono nome dai casi più celebri di tentativi di censura che per eterogenesi dei fini si trasformano nel loro opposto: la Streisand tentando di eliminare alcune foto della sua casa di Malibu dalla rete intentò una causa milionaria che accese i riflettori su una storia che altrimenti sarebbe rimasta semisconosciuta. Erostrato, colpevole di aver incendiato il Tempio di Artemide non solo fu giustiziato ma fu imposta dalla città di Efeso la proibizione anche solo di ricordarne il nome, consegnando così alla storia in eterno la sua vicenda. Morozov parla anche  del “dilemma del dittatore” che si chiede: «mi serve meglio censurare o non censurare?» Questo esempio è riferito al fatto di attaccare ad ogni affermazione i politici dello schieramento opposto offrendo loro in questo modo un potente megafono e ampliando la platea dei riceventi il loro messaggio che si vorrebbe censurare o combattere, che altrimenti potrebbe essere stata minima. L’opposizione ottusa, a testa bassa, sui social si trasforma facilmente in palcoscenico gratuito per l’avversario, e chi critica, che sia nel giusto o meno, a breve scompare lasciando in evidenza l’antagonista più forte.

Chissà forse anche questa è una deriva di quella cesura culturale, nutrita di decostruzionismo, antimodernismo, ribellismo e illegalismo rivoluzionario che tanto ha alimentato gli anni ‘70 e ‘80 del novecento e tuttora minoritaria perdura, che ha escluso dal mondo evoluto generazioni di cittadini inebriati dal miraggio illuministico razionalista del mondo nuovo, e generando –  una volta realizzatosi il disincanto della fallimentare caduta di un sistema illiberale e non funzionale –  indifferenti impegnati, disabituati ai regolamenti elementari della democrazia che poco hanno storicamente frequentato, e che si è trasformata in un indistinto e astratto umanesimo cinico e globalista. Generazioni disilluse di nichilisti convinti di fare bene ma arruffoni, superficiali e omologati sul pensiero unico come lo descrive nell’Innominabile attuale  Calasso, cioè il secolarismo del mondo odierno: informe grezzo e sempre più potente, in cui prevale l’inconsistenza assassina, un mondo sfuggente che sembra ignorare il suo passato: fatto di turisti, terroristi, secolaristi, hacker, fondamentalisti, transumanisti, algoritmici. «Il secolarismo si definisce per via negativa, in quanto ignora e esclude da sé ciò che è il divino, il sacro, gli déi o l’unico dio. Una volta compiuta questa rescissione, tutto può essere incluso nel secolarismo. E’ il secolarismo umanista, una modalità del pensiero che tiene ai propri principi non meno delle religioni che l’hanno preceduta.»

Ma qui stiamo parlando d’altro, di un terreno ancora poco frequentato in Italia, di un livello superiore, di governo delle scelte e delle decisioni,  come scrive Floridi: «Le nuove sfide del digitale si presentano, nei prossimi decenni, come legate soprattutto alla governance del digitale, e non tanto alle sue innovazioni tecnologiche ulteriori, governance che al momento è delegata al mondo aziendale – primariamente americano – di cui implementa la logica del profitto e la cultura imprenditoriale. È una soluzione insoddisfacente, perché in essa è insito il costante rischio del monopolio colonizzante. Per completarla c’è bisogno soprattutto di strategie politiche buone e di coraggio nel fare le scelte sociali giuste. In altre parole, c’è tanto bisogno di politica buona.» Floridi studia la rivoluzione del diffondersi delle ICT  che ha conseguenze “pervasive, profonde e incessanti”  sul rapido mutarsi sociale e antropologico messo in atto dallo sviluppo della tecnica, e lo fa da filosofo e la studia nello specifico come la globalità dello spazio delle informazioni, l’infosfera cioè «Lo spazio semantico costituito dalla totalità dei documenti, degli agenti e delle loro operazioni.»

Digitale che con Baricco vede una un barlume di intuizione genealogica nel suo The Game, che perlomeno ha il pregio di smuovere un dibattito nazionale, altrimenti asfittico, su temi contemporanei quali la rivoluzione digitale, oltre il wall del “Faccialibro” e pone un’idea ermeneutica tra oltremondo e umanità aumentata, verso un futuro privo di mediatori che allarga il divario tra élite e dèmos, un po’ tra il fantapolitico e la fantascienza apocalttica hollywoodiana, condito di smanettoni hippy e videogame ma intanto è un qualchecosa. Interessante quindi l’interpretazione di Baricco per il quale la rivoluzione digitale è il tentativo di fuga dagli orrori del Novecento, fuga che genera l’oltremondo, altro modo di dire infosfera, cioè il mondo digitale dove tutto è diverso: semplice gioco, superficie in cui il profondo scompare. Una cesura netta con il passato che, però, non è così semplice sostenere e comprendere ma che ci proietta verso l’umanità aumentata, come la chiama lo scrittore.

Cosimo Accoto, giovane ricercatore al MIT di Boston, contro il retaggio idealistico e antitecnologico, indaga la natura linguistica del codice algoritmico, e delle sue applicazioni software. Accoto cita  Paul Dourish: «Il codice ha una sua forza filosofica proprio in questo: nel modo che ha di rappresentare il mondo, nel modo di manipolare modelli di realtà, di umanità e di azione. Ogni stringa di codice riflette una quantità di prospettive e dimensioni filosofiche senza le quali non potrebbe, in alcun modo, essere creato.» Il codice software è il nuovo linguaggio per costruire nuove mappe del mondo. E aggiunge, a proposito delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie – in particlalre i sensori – che «Quando Socrate si interrogava sul motto delfico del conosci te stesso come principio guida, mai avrebbe immaginato che le nuove tecnologie avrebbero dato un significato del tutto nuovo al suo orientamento filosofico.»

Una conseguenza di tutto ciò è che tutti gli attori del digitale hanno responsabilità etiche nel loro agire digitale, «Si è visto che con la rivoluzione dell’informazione il mondo è dominato dall’informazione ed è popolato da agenti umani, biologici e artificiali accomunati dall’essere enti informazionali. Bisogna allora analizzare in termini informazionali tutti gli agenti coinvolti e considerare tutte le loro azioni come parte dell’ambiente informazionale. » ( La rivoluzione dell’informazione, Luciano Floridi [Codice Edizioni, Torino 2012] recensione a cura di Stefano Canali, Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 4:1 2013)

Il governo del digitale si lega a quanto scrive Evgeny Morozov, in una riflessione davvero critica sull’ingenuità della rete (così si intitola un suo testo del 2011) quando crede di generare nuove spinte democratiche attraverso l’uso dei social nel mondo medio orientale. Morozov invita a riconoscere il lato oscuro di internet, «l’idea che internet favorisca gli oppressi anziché gli oppressori è viziata da quello che chiamo cyberutopismo, ovvero la fiducia ingenua nel potenziale liberatorio della comunicazione on line, una fiducia che si basa sul rifiuto ostinato di riconoscerne gli aspetti negativi.» Aspetti che sono le misure adottate dai governi autoritari nei confronti di internet, l’uso dello stesso come mezzo di propaganda, e la sofisticatezza dei sistemi di censura e l’uso della rete a scopo di sorveglianza. La prospettiva che ci sia una convergenza tra gli interessi statali e quelli delle aziende digitali nell’orientare subdolamente le nostre coscienze usando i nostri dati personali come fonte di guadagno, di controllo, e sostituti del welfare è già in atto, basta guardare per accorgersene. Morozov è un sociologo e giornalista bielorusso, esperto di nuovi media, interessato allo studio degli effetti dispiegati sulla società, e sulla pratica della politica, dallo sviluppo della tecnologia e, in particolare, dalla crescente diffusione e disponibilità di mezzi di comunicazione telematica. Al cyberutopismo si associa l’atteggiamento che Morozov chiama internet-centrismo, ovvero l’idea che ogni azione sociale e politica sia modellabile sulla rete e attraverso al rete, «una droga che disorienta: ignora il contesto e intrappola i politici nella convinzione di avere un alleato utile e potente al loro fianco.» Secondo Morozov, l’ invasività della rete non è adeguatamente percepita dai comuni fruitori: quando, con facilità e immediatezza, si fruisce dei servizi che ci vengono offerti in rete dalle grandi aziende ICT, è facile illudersi che ciò avvenga in maniera gratuita, un’illusione di libertà che nasconde una cessione di identità e di dati personali.

Non si può che concordare con Floridi quando afferma che la rivoluzione digitale ha bisogno di filosofia, si può aggiungere quale filosofia: quella pratica e riflessiva, critica e fenomenologica,  capace di interpretare il presente con le categorie del presente, e del futuro possibilmente.

img: Paul Butler 2010

Standard
Attualità, Etica, Filosofia, Politica

1968/2018. Tristesse, nostalghia, ex e post.

L'incompiuta di Brendola (foto Pippowsky su Flickr)incompiuta-2

“Homo saecularis parla con molte voci, spesso divergenti. Quella che più si fa notare è progressista e umanitaria. Applica precetti di eredità cristiana, ammorbiditi e edulcorati. Soluzione tiepida e pavida, si combina, in senso inverso, con il movimento in corso nella Chiesa stessa, che cerca sempre più di assimilarsi a un ente assistenziale. Il risultato è che i secolaristi parlano con compunzione da ecclesiastici e gli ecclesiastici ambiscono a farsi passare da professori di teologia.” (R. Calasso, L’innominabile attuale 2017)

L’impensato attuale, il modernismo progressista ed umanitario. Caddero i muri, scomparve la grande Idea, oggi le piccole idee si chiedono come mantenere una posizione che puntelli il ricordo della storia personale e generazionale e che allo stesso tempo attenui il rimorso, il risentimento e i rancori. Piccole idee derivate che vogliono una seconda opportunità dalla storia che però è finita. Stante che il marxismo è oggi solo un modo fra gli altri per non comprendere il mondo, un nuovo realismo dopo il post modernismo ci insegna ad accertare la realtà, non ad accettarla, (quindi il post modernismo si caratterizzava come accettazione passiva dell’esistente?) il nuovo realismo spiega che l’oggetto sociale non è il reale, l’interpretazione non è un luogo comune e condiviso dato una volta per tutte, è uno schema concettuale che non dimostra il mondo ma si offre alla pluralità relativista e omnicomprensiva della doxa, fallacia argomentativa: come dire che accertiamo e attestiamo lo status multiverso del reale? L’approccio è realitystico, cioè siamo spettatori passivi, osserviamo le res humanae  come al microscopio si osservano le cavie da laboratorio prefigurando ipotesi ermeneutiche? Guardiamo il mondo mangiando i popcorn? Dopo 2500 anni? Non episteme, che sta sopra, ma sub specie, suburbe, nel flusso di in-coscienza volontaria, nell’inferno artificiale. Infatti assistiamo ad una realtà che non si presta alle nostre costruzioni concettuali. Giustificazionismo, arrendismo e alleatismo, ismi e quindi parvenze di logos, che rinfocolano idee stantie  e ammuffite, che se ancora si corazzano nel radicalismo, pur se con la pancetta imbiancata e non con il turgido eskimo, di questo essere radicali non danno che uno sbiadito concetto decostruito di attestazione anti sistema, (ma non come soggetti cinicamente oppositivi ma dalla parte degli integrati corporativi) sistema che nel frattempo da american saudita è diventato euro usa asiatico, a est e a sud. Si cercano agganci a destra e a manca. Intanto la storia è finita: non più un ieri e un domani fermi, certi, apodittici, radiosi e scientifici ma solo un infinito presente da interpretare. Si interpreta con le archeologie dei dispositivi di potere come osservando un fenomeno da lontano con lenti psico, bio sociologiche mai filosofiche, si inanellano multilingue catene etimologiche che velano un incerto argomentare ma fanno massa a-critica, tutta da modellare a piacimento, si mutua un lessico qui e uno lì,  tra procedure, competenze e protocolli. In particolare si scorge nella corrente teologica politica, quella piccola idea che appare e scompare che sente sensibilmente la mancanza di una dio politico normatore e paterno che assoggettava il reale e incanalava i desideri, una volta era il mondo sovietico e l’Idea marxista, oggi è un Moloch mainstream tecno social privo di un referente politico, in cerca di un nuovo dio in grado di porsi come antidoto al real potere americano/saudita che tutto stringe. Si concede ammirazione alla fede per quel radicamento di cui non si fu capaci, e questo inchino si ammanta di improvvisati analisti teologici atei, in una nuova alleanza con i loro santi laici, che tra poco riconosceranno nella teocrazia islamica il modello migliore per la globalizzazione, modello ideale di assoggettamento e potere, di riduzione arazionale del soggetto, di privazione di pensiero e di riduzione in minorità, un mondo perfettamente binario: le masse di schiavi brutalizzati nell’anima e la colta élite dei moderni muezzin kinici. Sono già pronte schiere di muti complici (i soliti banali del male) di tutti gli apparati politico-ideologici che hanno posto Grandi Mete, Grandi Idealità, come fini ultimi del loro agire politico e si sono sempre rivelati strumenti di asservimento delle coscienze individuali, repressione e anninentamento che agivano in nome di un cosiddetto Bene, facendo però il Male. Perché è tutta una macchinazione dell’ente contro l’essere, machenschaft! direbbe l’omino con i baffi e  le brache alla zuava.  E quando il radicalismo fallisce o diviene insufficiente, emerge la mistica della protesta. E’ l’ammirazione per i vincitori con un amaro retrogusto di invidia. Chiaro esempio di dissonanza festingeriana. C’è chi innalza il conflitto a valore, l’eternamente polemico, per auspicare l’uscita dal tempo del potere, destinale anarchico errante sterile, rivendicando lo stupro dello jus. Se la realtà fa schifo peggio per lei, delegittimiamola. Dopo gli abusi ripetuti e le sevizie della storia nazional comunitarda si aggrappano alla critica dell’idea nazionalistica populistica, facendo finta di non sapere che furono i loro idoli a declamare il valore della piccola patria, quelli della “fabbricazione di cadaveri nelle camere  gas e nei campi di sterminio” o gli speculari del Bratstvo in enotnost, mentre sigillano fosse ricolme di corpi, del radicamento nell’heimat, del  blut und boden, dalle meravigliose mani e dall’intima grandezza del rosso e nero popolar nazionalismo, dixit. Popoli del mondo disunitevi! Idee e concetti comunque ed inevitabilmente e sfacciatamente e inesorabilmente ciechi, sordi e muti alle persone, all’essere umano, al povero diavolo di uomo, al singolo, al particulare,  con una faccia e una voce, e alla sua coscienza individuale, al suo spirito, al suo essere soggetto, orribile bestemmia, perché i soggetti della storia sono solo le Idee e le Grandi Mete, (con le maiuscole) teleologia e ideologia, il singolo è un granello di senape. E noi vogliamo farci raccontare una storia, ancora una volta, illuderci, credere e combattere per un’ideuzza, che ci appaia come una grande narrazione. Quindi sì allo story-telling da tisana davanti al caminetto. Dal “chi critica ha sempre torto” a mo’ di giustificazione delle epurazioni partitiche, all’apologia acritica del criticismo. La vecchia idea europea la vogliono all’ospizio, con loro. C’è la parte che nominalizza la massa come moltitudine, che è capace di Idea ma in formazione polivalente, un po’ troppo autodidatta che va ricondotta all’ovile, il super-rivoluzionarismo celodurista a tempo pieno,  per cui essa è ancora senza testa e quindi potenziale numero in grado di essere maggioritario, e lasciano intendere di essere in potenza gli ideali filosofi di questa nuova società platonica (oggi riverdisce rumorosa sugli Champs-Élysées in giallo fosforescente e catarinfrangente). O i teorici del leader “ombra”, del soggetto collettivo. Temono la verità, premono sul realismo e deprezzano il popolo quando scade in un “populismo” che non sia il loro, che peraltro non sanno generare e quindi invidiano l’altrui. Idee e suggestioni della grande nostalgia degli ex di un mondo eterodiretto, da un principio, da un principe, dall’Idea, dal salvatore mundi, da baffoni e baffini. Nostalgia metafisica della dialettica materialistica, dalla consecutio al cupio dissolvi. Se proprio proprio si impegnano questi umanisti secolari riescono perfino a dirsi al massimo SBNR, acronimo per chi non vuole definirsi né ateo, né agnostico ma intende suggestionare una qualche residua spiritualità. Ladri di sogni e di futuro, nichilisti del presente. Celebranti della società secolare, ultimo quadro di riferimento per ogni significato. Internazionalisti senza classe operaia, universalisti no profit. Si mescolano suggestioni residuali come ingredienti di un minestrone intellettuale che nessuno assorbe ma alcuni attendono messianicamente dai guru del post (o dei post, facebuc). Intanto queste piccole  idee organizzano festival e colonizzano le vuote stanze dipartimentali convinti di tessere trame epocali per adepti carbonari di un logos esoterico. Eco in un sepolcro svuotato. Nessun “Veni Creator Spiritus”. Nell’uscir fuori da sé si perdono perché non hanno un fuori ma solo un dentro asfittico, afasico e desolante. A-progettuale perché cinico sloterdijkianamente. Piantando paletti non riescono a superarli, non possono andare oltre perché un oltre per loro non c’è. Più.

img: pippowsky su Flickr (Duomo di Brendola detto l’incompiuta, Vicenza, 1931)

Standard
Attualità, Politica

2018. I have a nightmare! Reazionari, populisti, integralisti e gli altri ….

kingverde

“La libertà di pensiero ce l’abbiamo, adesso ci vorrebbe il pensiero” Karl Kraus

La situazione europea mostra i tratti di un nuovo scenario politico che si fatica a comprendere perché lo si analizza con parametri antiquati, per lo più novecenteschi, i quali essendo regolati su criteri ottocenteschi, soprattutto nei riferimenti ideologici e filosofici hegeliani, post hegeliani e sugli ideali dell’illuminismo  – quindi settecenteschi – dipingono un’incredibile rappresentazione di inadeguatezza. Tutti i discorsi che si sentono oggi su: lavoro, sovranità, popolo, identità, mercato muovono da premesse sbagliate e sono quindi logicamente fallaci e difatti poco convincenti.

Abbiamo i reazionari. C’è chi sottolinea la mancanza di progettualità e ideologia nelle forze politiche che emergono in questi anni. Dopo aver sbeffeggiato per decenni la vacuità dei programmi politici dei partiti, ora i reazionari li rimpiangono. Programmi e progetti sono infatti destinati a diventar carta straccia nel breve termine ovvero nel periodo post elettorale e ancor più nell’eventualità di andare al governo, essendo quella italiana una gestione politica amministrativa che deve tener insieme vincoli di bilancio e relazioni interne alle rispettive coalizioni. Insomma fare progetti non serve, bastano poche parole d’ordine, studiate da qualche spin doctor che viene pagato e assunto per questo, e devono essere funzionali al messaggio da veicolare e al destinatario, cioè dirette, semplici e comprensibili alla massaia di Voghera. Esse devono essere spendibili nel brevissimo termine delle sempre più corte campagne elettorali. I programmi sono inutili chiacchiere intellettualoidi, che valgono il tempo della campagna elettorale ( e li può scrivere qualisasi studente di scienze politiche senza nemmeno pagarlo …) e poi nessuno ricorda più. Per quanto riguarda l’ideologia abbiamo patito decenni di chiusura ideologica, in cui atti, parole  addirittura pensieri erano diventati tabù, zone rosse, impronunciabili, innominabili perché designavano una parte piuttosto che l’altra e, a seconda dello schieramento da cui si guardavano, queste parole erano il male assoluto. Capitalismo, collettivismo, partecipazione, individuo etc. etc. Quando siamo usciti da questa putrida palude eravamo tutti sollevati, ora invece abbiamo i nostalgici dell’ideologia linguistica e partitica.Quelli del “si stava meglio quando si stava peggio”.

I populisti. Si affaccia un nuovo termine che dovrebbe designare qualcosa di nuovo, appunto. Invece il termine è vecchissimo, antiquato perché proviene dall’800 russo e dal sud America, e non designava affatto rozze masse di ignoranti assatanati come qualcuno vuole oggi dipingere questi famigerati populisti, ma esclusivamente la rivolta del popolo verso le élite dirigenziali. Vale a dire quanto più di sinistra e di radicale si possa immaginare. Basta pensare all’assolutismo e all’ancien regime, alle rivolte giacobine, alle rivoluzioni della storia. Eppure la bolsa classe dirigente europea paventa questa parolona come il male assoluto, “lebbra”, senza un barlume di consapevolezza di sé e degli altri, come vivessero in un mondo a parte. Democrazia diretta? Rigore, moralità, onestà? Giammai! Un termine sbagliato nel conio non può che nascondere un’analisi sbagliata. La richiesta che emerge è di una nuova classe dirigente, un rifiuto delle pratiche partitiche, dei clientelismi, della corruzione, dei privilegi, un’esigenza etica e  morale. Succede però che se questa esigenza viene incanalata da leader nuovi e outsiders diventa deprecabile per i gattopardi della politica che sembrano sempre ammiccare: “tranquilli ci pensiamo noi a sistemare le cose”. Accadde così anche con il federalismo.

Gli integralisti sono immarcescibili, non muoiono mai. Gli integralisti scettici non hanno un credo, una fede ma pensano che l’agire immediato sia sempre la miglior soluzione, sono i cow-boy della politica. Le sparano grosse apposta, perché in realtà sono vuoti dentro, senz’anima. Parlare con loro ammutolisce. Sono quelli che hanno una soluzione drastica e brutale per tutti i problemi del mondo. Tagliano tutto con l’accetta del loro pressapochismo spirituale. I migranti ? Tutti a casa loro! I politici? In galera! I fascisti? Tutti morti! I comunisti? Guai a loro! I poveri ? E’ colpa nostra! Il mercato? E’ intoccabile! Lo Stato? Va abbattuto! Le banche? Vanno rapinate! Ragionano per slogan, pensano per frasi fatte, la loro capacità di analisi è prossima allo zero, la loro azione si pone allo 0,5 sono economi della politica, minimo sforzo nessun risultato. Inutili nichilisti.

C’è infine una categoria a parte. Trasversale. Sono gli ipocriti opportunisti. Sono quelli che hanno militato per decenni nelle più svariate compagini politiche, che hanno professato qualche credo assoluto e poi risolutamente lo hanno dimenticato. Ex di ogni dove, di ogni cosa, di ogni idea. Post qualunque cosa, vengono dopo tutto quel che c’è stato. Ambiguamente indefiniti, mimetizzati nel per lo più. Si credono più furbi di te, più intelligenti di te, più bravi di te. E infatti oggi straparlano come se non ci fosse una memoria, come se nessuno li conoscesse. Attaccano la politica del momento usando concetti che non sono mai stati loro e di solito saccheggiano alla filosofia, al sacro, ai diritti umani, alla religione. Parlano di democrazia, bene comune, accoglienza, solidarietà, essere umano, fratelli, umanità etc. ma non hanno mai avuto nessun dio, e nelle loro visioni un Dio non c’è. Religiosi senza religione. Fedeli senza fede. Sono opportunisti del linguaggio, i piccoli chimici della rete. Da Madre Teresa a Che Guevara. (ne traccia un identikit Calasso nell’Inominabile attuale, quando parla di Homo saecularis, scrive: “Il divino è ciò che Homo saecularis ha cancellato con cura, con insistenza. Ma il divino non è come una roccia, che tutti inevitabilmente vedono. Il divino deve essere riconosciuto. E il riconoscimento è l’atto supremo verso il divino. Atto spontaneo, momentaneo, non trasponibile in uno stato”). Un pezzo di qua e un pezzo di là e credono di far opinione e soprattutto di averne una che è solo loro e che vale oro. Patetici.

Standard
Attualità

Cronache 2018: may you trump the macron.

mtm

Oggi sembra possibile utilizzare solo immagini letterarie o cinematografiche per rappresentare la realtà. Una è Blade Runner il film di fantascienza del 1982, diretto da Ridley Scott in cui in un mondo semidistrutto da nubi tossiche dei cyborg cercano di illudersi di avere emozioni reali, l’altro è Fahrenheit 451 di Ray Bradbury romanzo del 1959 in cui Montag, pompiere che brucia libri, dice al vecchio Faber “abbiamo tutto quello che può farci felici ma non siamo felici”.

Nel 2003 l’America di Bush junior attaccò l’Iraq di Saddam Hussein, con la scusa delle armi chimiche (dette anche di distruzione di massa) con l’appoggio dell’inglese Tony Blair laburista, (da labour lavoro, sinistra anglosassone) trascinandosi dietro l’occidente alquanto reticente. Sono passati 15 anni, l’Iraq è stato distrutto, è nato Daesh e il nostro (cioè a noi prossimo) bacino mediterraneo è una polveriera mentre Bush beve birra e mangia bretzel alle Hawaii e Blair gira il mondo a conferenze, (o a ricevere premi a Chicago) impuniti. Le armi chimiche non c’erano, o meglio non le trovarono allora, ciò non impedì l’attacco all’Iraq. Pare che l’Isis trovò e utilizzò nel 2014 alcune vecchie armi chimiche nei magazzini di Saddam Hussein. Erano degli anni ’80 di fabbricazione statunitense, assemblate in Europa, vendute al leader iracheno da Belgio, Francia e Italia durante la lunga guerra tra Iraq e Iran. (L’Occidente rifornì Saddam di armi che vennero usate contro i curdi poco tempo dopo).

2011, 8 anni dopo, ancora impuniti decidono di rifarlo, si dicono: “abbiamo preso in giro il mondo intero rifacciamolo!” Francia e Usa, ed una scodinzolante Gran Bretagna, a parti invertite (Sarkozy destra e Clinton Obama democratici americani) rovesciano Gheddafi, leader libico, che poco prima aveva finanziato la campagna presidenziale del francese con milioni di euro, la chiamano “primavera araba” e allora sembrava un risveglio democratico. Caos mediterraneo all’ennesima potenza, attentati e barconi stracolmi di profughi alla deriva umana nei mari italiani e in giro per l’Europa. Un vero successo, non c’è che dire.

2018 Siria, il mondo occidentale accusa Assad, leader siriano alleato fidato di tutti i paesi del mondo fino a ieri l’altro laico e moderato, di aver usato armi chimiche per contrastare i “ribelli” che vogliono rovesciarlo, un’appendice delle c.d. primavere arabe che è stata supportata da Paesi stranieri politicamente vicini agli Stati Uniti mercenari addestrati probabilmente in Turchia ed Arabia Saudita e da milizie islamiste di ispirazione qaedista. Il 14 aprile sono stati lanciati 103 missili, gli USA li chiamano “attacchi di precisione” Teresa May, (e il fido Boris Johnson) nuova leader inglese ma stavolta conservatrice, definisce l’attacco “legale e giusto” e a anche “limitato, mirato e con chiari paletti”, e lo fanno poco tempo dopo aver appoggiato l’uscita dall’Europa monetaria e chiesto di boicottare la Russia di Putin. Macron il francese afferma oggi: “Tre paesi sono intervenuti, lo dico molto onestamente, per l’onore della comunità internazionale” (sic), parole testuali pronunciate al Parlamento europeo, dall’erede politico del firmatario del famoso patto, François Georges-Picot (tanto per ricordare le truppe francesi lasciarono il territorio siriano e libanese solo nel 1946). Solo il 15 aprile ispettori dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) iniziano la loro indagine sul presunto uso di armi chimiche a Douma, (e da parte di chi) tipico degli americani “prima spara poi parla”…

Ora lasciamo perdere per un momento la Mesopotamia, Sykes – Picot, la Pipe line, il petrolio, la Turchia, l’Iran e Israele, i cristiani di Siria e i Curdi, tutto variabili dello stesso discorso, restano almeno un paio di semplici domande d’obbligo. Una cinica e una geopolitica, intercambiabili. Ma gli americani non possono farsi le guerre a casa loro? Ma l’Europa cosa ci guadagna a bombardare di caos la soglia di casa propria?

Standard
Attualità, Politica, pratica filosofica, Venezia

I Dialoghi di cittadinanza. Pratica filosofica attiva, radicale, critica e sociale.

thebeach

La pratica filosofica oggigiorno è sempre più dispersa e frammentata, specchio della società complessa in cui viviamo e a cui essa dovrebbe e potrebbe fornire spazi e contesti sociali concavi in cui il pensiero libero e condiviso avrebbe la possibilità di respirare. Ciò accade in ogni angolo remoto del mondo ed è un lavoro piccolo e tenace, di cui esistono innumerevoli tracce e disseminazioni. Una pratica quella filosofica che è continua ricerca di sperimentazioni e possibilità, nella convinzione che non sappiamo più dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza ma nemmeno dove cercare la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione ma sappiamo non sapendo che la cultura è ciò che rende possibile ogni cosa, plasmando in modi infiniti la natura umana. L’invito alla filosofia oggi riacquista un senso e una direzione inusuali, cadute le narrazioni ideologiche che invitavano alla praxis politica, svelato il vuoto che sottende al toto economico, de deificato il cristianesimo in un simulacro di religione,  superpotenziata la scienza muta e sorda senza intelligenza, l’esortazione si configura come esplorazione del limite che invita a riconoscere il confine specifico dell’uomo e allo stesso tempo come interrogazione sull’astensione, sull’ascesi, sulla rinuncia. Perchè ciò che manca non è solo la logica, come scrive Bencivenga nel La scomparsa del pensiero, ciò che manca è la stessa pratica del pensiero critico, il solo avere l’occasione di farlo, in spazi e luoghi pubblici in cui la razionalità si concretizzi in quel tentativo metodico e tenace di portare la ragione nel mondo di Horkheimer.

Dilagano le difficoltà di pensiero: difficoltà a vedere o a leggere situazioni, difficoltà a concettualizzare, a dare spiegazioni, a fornire un argomento, a proporre più ipotesi, a problematizzare: siamo diventati pensatori disfunzionali, non – pensatori quindi, (o a – pensatori). Diffidiamo dei mediatori di cultura tradizionali: pensiero, filosofia, fede, ideologia ma al contempo ci affidiamo interamente a super – mediatori, gli scienziati ed i tecnici: commerciali, tecnologici, economici, finanziari, abbiamo abbandonato la cultura per la scienza e la tecnica, direbbe Severino, non sapendo prevedere quanto esse influenzino il pensiero, o meglio temendo di saperlo.

Viviamo in un’epoca dominata dallo scientismo. Lo scientismo è la fiducia assoluta nella scienza, l’atteggiamento che tende ad attribuire alle scienze e ai loro metodi, la capacità di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell’uomo.

Si tratterebbe quindi di ri tematizzare filosoficamente il ripensamento del soggetto, (il buco nero filosofico del ‘900) ma questo ripensamento necessita a sua volta di una rielaborazione del filosofo come esperto “multiversatile” capace di più linguaggi, e di una rielaborazione del soggetto come “multialfabeta” come soggetto globale, informato e informatico, consumatore responsabile, critico politico, e scettico radicale. Se sulla strada del ripensamento del filosofo i philosophers si stanno muovendo ormai da qualche tempo, la strada dell’io appare quella del ripensare l’io spirituale husserliano concepito come un organismo di facoltà, soggetto di un mondo circostante che è un orizzonte aperto, «l’io in senso proprio, l’io della libertà, l’io che presta attenzione, che osserva, che compara, che distingue, che giudica, che valuta, che è attratto, che è respinto, che inclina, che prova ripugnanza, che desidera e vuole: l’io in ogni senso attivo.»

I dialoghi di cittadinanza sono incontri di pensiero a più voci che hanno come obiettivo la chiarificazione comune di concetti, temi e idee che percorrono la nostra società a partire da esempi di vita concreti. I dialoghi di cittadinanza rivendicano il primato della domanda, meglio del domandare interrogante, o interrogazione radicale: da Socrate a Gadamer di Verità e metodo, infatti si ricollegano alle pratiche filosofiche di matrice dialogica, in particolare al Dialogo Socratico di Leonard Nelson, Minna Specht e Gustav Heckmann (veri pionieri della pratica filosofica nel mondo,  a partire dagli anno ’20 del Novecento, anziché Lipman come spesso si dice) e si possono definire anche sedute di pensiero o processi creativi collettivi di pensiero. Esaminare problemi, formulare ipotesi è un impegno che richiede, prima di tutto, un’attenzione al dire cioè che comporta una particolare riflessione sull’uso delle parole e il loro senso comune. Questa proposta di pratica filosofica si regge sull’idea che il ragionare sia un “pensare-parlare” qui innescato da tematiche d’attualità civile, politica e sociale in situazioni comunitarie in cui la decisione di argomentare le proprie idee, motivare scelte e comportamenti – di cui da sempre si fa portavoce la riflessione filosofica – è dettata proprio dal vivere in una comunità di pensanti che condividono il valore e i vincoli della razionalità. Come accade con altre pratiche filosofiche, seminari, laboratori e caffè, il senso dei dialoghi di cittadinanza non starà tanto nel risultato finale (la risposta/chiarificazione della questione posta  inizialmente) quanto nel percorso che si intraprende insieme, denso in ogni suo momento di occasioni di crescita e riflessione per ciascuno.

La pratica filosofica – come già detto altrove –  come scrisse Achenbach, «è “Umagang” ( rapporto). (…) Ora, la Pratica  filosofica si sforza di ottenere questa lode, [ di essere socievole n.d.a.] poiché essa è il tentativo di rendere la filosofia umganglich (socievole) nel dialogo, cioè nella lingua spontanea del rapporto. (…) » da ciò derivano tre aspetti che la caratterizzano –   conseguenze che forse non sono state sufficientemente esplicitate – aspetti che sono: la relazione, la mediazione, il logos.

In primis quindi un filosofare aperto al rapporto tutti, priva perciò di snobismo, elitarismo, settarismo ed esclusioni aprioristiche, è sociale come la definì Horkheimer, ha un ruolo sociale. Secondo, ne possiamo dedurre che è un’arte del tradurre, che si può facilmente intendere come arte della mediazione, evidentemente, in quanto il tradurre è sempre farsi mediatore, tramite, punto mediano, tra due o più parti. Terzo: il rapporto con i non-filosofi, è chiaro di per sè, identifica quindi un’attività non per addetti ai lavori –  filosofi che parlano ad altri filosofi –  ma che si apre al pubblico e si mette in relazione. Un altro aspetto fondamentale infatti è che la Pratica Filosofica ha cioè reali capacità di relazionarsi agli altri, non è aristocratica, non è autistica, non guarda nessuno dall’alto al basso,  ma è comunicativa, dialogica, sociale (Umganglich) e non ha bisogno di titoli onorifici, è umile e questo non è mai scontato.

Per questo la Pratica filosofica nasce paidetica e si inserisce in un contesto politico ed educativo fin da subito –  ed anche in seguito come didattica in Lipman negli USA-  con la Scuola di Walkemhule di Nelson e Minna Specht, in cui critica, etica e pedagogia si incontrano nel Dialogo socratico contro il nazionalsocialismo, l’esilio e per promuovere autodeterminazione, responsabilità e la coscienza critica delle persone, come del resto ha scritto chiaramente Dordoni nel suo dimenticato “Il dialogo socratico”.

Essendo attività filosofica il rapporto si configura nel dialogo, cioè attraverso il logos, che è l’opera comune di coloro che parlano, non un soliloquio, un parlarsi addosso, un verbalismo acromatico, un rovesciarsi di argomentazioni unidirezionali, ma  un dialogo che ha un ethos, il rispetto, che ascolta l’altro e gli altri, che stabilisce davvero una relazione tra pari non agonistica, non vuole vincere come in una disputa, perché appunto la base ne è il rispetto, è cioè avere rispetto di chiunque sia di fronte a te. Relazione non agonistica significa che il dialogo socratico, di cui è fatta la Pratica Filosofica, esclude qualsiasi metodo eristico e retorico, ovvero non ha nulla a che fare con l’arte di argomentare con ragionamenti sottili e speciosi, e nemmeno con il parlare bene e a lungo di concetti ed autori a fini di mostrare erudizione e superiorità intellettuale. La Pratica Filosofica è una pratica in cui, anche se pare assurdo dirlo, il filosofo non appare al centro, è una pratica che demistifica il filosofo. Soprattutto il filosofo che vede la pratica filosofica come masturbazione cerebrale a due, mal interpretando i dialoghi platonici in cui Socrate parla sempre con uno (lapalissianamente) ma sono rivolti ai molti, coinvolgendo i commensali, i commercianti, i cittadini, gli atleti, nell’Atene del V secolo, ed infine i lettori della trascrizione letteraria platonica. Platone che nell’esame di Dioniso inserisce la vita di comunità, come requisito “filosofico” nella Lettera VII. Non filosofia per me e te ma filosofia per noi. Funzione sociale appunto, Horkheimer: “ é lo sforzo intellettuale e in ultima istanza pratico di non accettare senza riflettere, per pura abitudine, le idee, i modi di agire e i rapporti sociali dominanti; di accordare gli uni con gli altri e con le idee e i fini generali dell’epoca i singoli aspetti della vita sociale, di dedurli geneticamente, di separare il fenomeno e l’essenza, di analizzare i fondamenti delle cose, ossia in breve di conoscerle realmente.”

Non c’è quindi nessuna svolta pratica la cui epistemologia teorica possa in qualunque modo significare qualcosa o distinguere o definire o che traduca un gesto filosofico ma solo un soffio vitale, un brindisi con Dioniso, una lingua di fuoco, un volo di uccello in uno sbatter d’ali che riportano la filosofia al suo grembo greco. Il filosofo pratico è mediatore di cittadinanza e la pratica filosofica è governata dalla pragmatica della comunicazione non dall’ideologia, il cittadino può avere una sua ideologia la filosofia no. Ma dalla lezione socratica possiamo tornare a comprendere che la costituzione originaria del primum philosophari si fonda sulla polis e sul dialeghestai, la qual cosa significa che solo un ritorno all’agorà cittadino del logos comune può determinare una reale coscienza civile di ripensamento critico,  il che tramutato in moneta sonante oggi significa che la filosofia deve tornare sporcarsi le mani con le moltitudini, tornare al confronto pubblico e all’immaginazione produttiva spinoziana,  con quella passione per la conoscenza che Platone e Nietzsche ben rappresentano.  Spinoza che scrisse: «Possiamo facilmente comprendere quale sia l’ottima condizione di un qualsiasi governo, se consideriamo il fine di una società civile: cioè la pace, la sicurezza della vita. Il miglior governo dunque è quello dove gli uomini passano la vita in concordia e i cui diritti rimangono inviolati. Ora è certo che le sedizioni, le guerre, il disprezzo o la violazione delle leggi, sono da imputare non tanto alla malizia dei sudditi quanto alle cattive condizioni del governo. Infatti gli uomini non nascono civili, lo diventano.»

Chiunque infatti si aspetti dai dialoghi di cittadinanza un’oretta di chiacchiere, una lezione esperta, un’esibizione colta o peggio un personale palcoscenico oratorio resterà deluso. Per tutto ciò ci sono i guru, gli accademici, le dispute televisive, i festival. Chi vuole intraprendere un viaggio di ricerca metta nello zaino le proprie credenze e le sottoponga al vaglio della propria anima, condivida il proprio caos e lo suggelli nel logos comune, anche questa è cittadinanza a mio modesto parere.

 

Standard
Attualità, Politica

I casi stabiliti dalla legge. Il tradimento della scuola.

26230961_414491332303317_6706097143724002603_n

Nella Cina di Mao, durante il periodo della cosiddetta Rivoluzione culturale, i revisionisti o controrivoluzionari venivano fatti sfilare in pubblico con cartelli appesi al collo in cui il loro nome era scritto capovolto e cancellato con un tratto orizzontale, a significare che erano considerate ”non persone”. E’ quello che oggi sta succedendo ai maestri e alle maestre della scuola primaria e dell’infanzia, quei docenti giudicati non-docenti dal massimo tribunale amministrativo dello Stato perché in possesso esclusivamente di un diploma di scuola superiore (il vecchio Istituto Magistrale) oltre che di anni di lavoro a scadenza, a tempo determinato, precario.

Si parla di 43.534 ricorrenti inseriti nelle graduatorie e 6.669 entrati in ruolo ma con la sentenza ancora non passata in giudicato. La concentrazione di diplomati magistrale al Nord è molto elevata, e i dati numerici dicono che in Lombardia la concentrazione è del 39,3% (2622 assunti), in Piemonte il 13,7% (911 assunti), in Veneto con il 13,2% (880 assunti), a cui si aggiungono in particolare la Liguria, anch’essa un’anomalia interessante, con 3,7% corrispondenti a 249 assunzioni.

Il Ministero li dovrebbe cacciare, se applicasse immediatamente la sentenza del Consiglio di Stato,  i sindacati scuola (che del resto hanno un loro rappresentante al Ministero) i quali per anni volutamente hanno contribuito a relegare i diplomati nel limbo delle supplenze, oggi li maltrattano, li tollerano quasi con fastidio come se fossero loro stessi causa del problema,  i colleghi freschi di laurea invece plaudono e scalpitano ingiuriando i colleghi (come neo Guardie Rosse) nel nome del nuovo modello antropologico italiano: quello del “rottamatore”, un misto di cinismo, informazione manipolata, arrivismo rampante e arroganza, inaugurato recentemente nella politica italiana, politica che da parte sua in questa vicenda si è rivelata sorda, cieca, e muta come le tre scimmiette. Ecco, forse un poco azzardando, possiamo ritrovare un parallelo tra questa visione del mondo della nuova rivoluzione culturale italiana e quella di Mao: le nuove guardie della rivoluzione culturale italiana credono che la fazione che li rappresenta debba vincere azzerando il nemico, identificato in una specifica categoria sociale o professionale, che va disabilitato dall’umano gregge, reso ridicolo, patetico, antiquato e inadatto, obsoleto agli occhi del popolo, ridotto a non-persona, appunto come fecero i maoisti con i nomi capovolti e cancellati. Stiamo assistendo ad una pratica del tutto nuova che si avvale della stampa, dei media e dell’informazione manipolata: il killeraggio sociale. Accade sui quotidiani, in televisione, nei media in generale e sui social network. E’ la caccia all’insegnante: fannullone, scansafatiche, ignorante, psicolabile, misero. A questa caccia al docente partecipa tutta la cultura tecnico manageriale di importazione (tradotta in maccheronico) parodia del funzionalismo anglosassone che si scaglia contro questa figura che rappresenta ancora, a fatica, nonostante tutto, per la nostra gioventù –  perciò per il nostro futuro – la mediazione con il sapere e con la società ovvero coloro che concorrono come formatori a determinare il nostro rapporto con il sapere, la realtà ed il mondo del futuro. Non sappiamo ancora se sarà applicata ai docenti magistrali la “rieducazione” come in Cina ai revisionisti e non osiamo immaginare in cosa potrebbe consistere per i docenti: corsa tra due ali di laureate e sindacalisti che li picchiano, rieducazione ideologica, corso abilitante, concorso riservato, norma transitoria, decreto legge?

Come si è arrivati a tutto ciò? Come spesso accade in Italia, quando scoppia il “caso” è sempre tardi e si è spesso sull’orlo di un baratro, ovvero ad un passo dal disastro, qui il ritardo accumulato è frutto di negligenza, indifferenza, incompetenza e malafede, in questo caso di chi ha gestito il reclutamento dei docenti  e i diritti dei lavoratori, due parole: politica sindacale. Non è un caso infatti che oggi nella scuola i confederali siano visti con disprezzo e diffidenza per la loro condiscendenza acritica vero i dettami ministeriali, per la loro negligenza nel difendere i diplomati, per la loro inadempienza verso i decreti dei tribunali e dello Stato.

E’ proprio dai tribunali che bisogna partire per capire questa storia.

Poiché come tutte le vicende giudiziarie nel raccontarle ci si trova a dover dipanare una matassa ingarbugliata, nel caso dei diplomati magistrali questo è confermato all’ennesima potenza. In questa vicenda  agli anni trascorsi (ormai quasi 20) si devono sommare quindi  le leggi vigenti, presenti e passate: i decreti legge, le normative ministeriali, i regolamenti concorsuali, e inoltre le pronunce della magistratura, anzi dei diversi tribunali (Tar, Giudice del Lavoro, Consiglio di Stato) e le loro competenze, ed infine il succedersi dei ministri politici (ben 11) alla guida del Ministero dell’Istruzione prima e del M.I.U.R. (Ministero dell’università e della ricerca della Repubblica Italiana) dopo, alcuni di loro con velleità riformistiche che hanno contribuito a complicare le cose. Nemmeno gli addetti ai lavori spesso sanno orientarsi in una selva così oscura,  l’Azzeccagarbugli manzoniano avrebbe il suo bel da fare. E’ quindi con estrema cautela che qui si tenta un riassunto comprensibile della storia brutta dei docenti magistrali italiani.

Perché mai un docente dovrebbe rivolgersi ad un giudice per lavorare? Non viviamo in uno Stato di diritto in cui i titoli hanno valore legale, cioè valgono per legge? Non siamo quindi sottoposti tutti alla Legge che ci vincola e ci tutela? La risposta è : ni. La legge si interpreta e pare che i diritti scadano, come lo yogurt, in Italia.

Il Diploma Magistrale dal 1923 al 2002 è stato il titolo di studio necessario per insegnare alle scuola dell’infanzia ed elementare, ora Primaria. Il Titolo rilasciato recava inequivocabilmente nella propria intestazione la dizione “Diploma di abilitazione all’insegnamento”, eliminando sul nascere qualunque equivoco circa la specifica utilizzazione del documento: coloro che risultavano in possesso di tale titolo erano ritenuti abili a svolgere professionalmente la funzione docente presso le scuole materne e/o elementari senza doversi assoggettare ad altre incombenze. Nel 2002 al diploma si affianca la Laurea, che non lo sostituisce ma i due titoli diventano equipollenti (equiparati) e paritetici (stesso valore e punteggio), per adeguare ai tempi la formazione dei docenti. Sulla carta. Perché d’ora in poi il MIUR ed i sindacati metteranno in atto manovre subdole e illegittime per favorire i laureati e degradare i diplomati. Ad esempio il decreto ministeriale n. 53/2012 ha consentito l’inserimento in GAE a coloro che avessero conseguito il titolo di studio abilitante entro l’anno accademico 2010/2011 ai corsi presso le Facoltà di Scienze della formazione. L’esclusione dei diplomati magistrali è stata applicata nonostante quanto stabilito dal decreto interministeriale del 10 marzo 1997, di attuazione della legge n. 341 del 1990, dove si confermava il valore abilitante dei diplomi magistrali conseguiti entro l’anno 2001/2002 da coloro che avevano iniziato i corsi entro l’anno scolastico 1997/1998.

Per reclutare il personale della scuola si attinge per il 50% dalle famose ed ormai famigerate GAE (Graduatorie ad esaurimento)  e per l’altro 50% dalle vigenti graduatorie del concorso ordinario. A partire dal 1999 lo Stato non solo ha indetto 2 soli concorsi pubblici, (il primo nel 2012 e l’altro nel 2016, in barba alla Costituzione quando recita “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.”) ma, in accordo con i Sindacati Confederati, ha magicamente fatto sparire il valore abilitante al “diploma” dei Diplomati Magistrali, che perciò non potevano più essere inseriti in una Graduatoria Ad Esaurimento (GAE) da cui poi entrare in ruolo. Questi insegnanti furono relegati nella 3° fascia d’Istituto, calderone da cui attingono le scuole per reclutare supplenti da settembre a giugno. Ed è stato così per gli ultimi 15 anni.

Nel 2014 ecco entrare in scena il Tribunale. In quell’anno un gruppo di intrepidi docenti magistrali chiede al Consiglio di Stato di, finalmente, chiarire ed esprimersi sul valore abilitante del titolo Magistrale.  Con ben due sentenze il Diploma Magistrale è stato riconosciuto come abilitante per l’insegnamento dai giudici (ordinanza cautelare del Consiglio di Stato n. 1089/2015e adunanza plenaria n. 1 del 27 aprile 2016 del Consiglio di Stato) quindi utile per spostare tutti i docenti magistrali nella 2° fascia d’Istituto. In conseguenza di ciò nel 1999 e ancora nel 2007 il Miur ha commesso un eccesso di potere affermando il contrario e  questo è stato stabilito pure da un ricorso al Presidente della Repubblica che dice espressamente “Illegittimo è invece il D.M. n. 62 del 2011, nella parte in cui non parifica ai docenti abilitati coloro che abbiano conseguito entro l’anno 2001-2002 la c.d. abilitazione magistrale, inserendoli nella III fascia della graduatoria di istituto e non nella II fascia” . In altri termini, prima dell’istituzione della laurea in Scienza della formazione, il titolo di studio attribuito dagli istituti magistrali doveva considerarsi abilitante. Tutto chiaro? No, affatto.

Poiché il Ministero – in questa legislatura, quindi dal 2013 al 2018 –  non interviene a sanare questa ingiustizia e si ostina a non riconoscere quanto stabilito dal Consiglio di Stato  e a lasciare che a risolvere la situazione siano i Tribunali – nel frattempo i docenti magistrali  entrano in Gae:  43000 insegnanti  accedono alla 3° Fascia: 8000 di questi stipulano già contratti a Tempo Indeterminato e svolgono l’anno di prova: compilano un portfolio online, seguono corsi obbligatori e vengono giudicati da una Commissione esaminatrice composta da insegnanti di vari ordini scolastici ed infine ricevono il Decreto di Immissione in Ruolo da parte del Dirigente Scolastico.  Iniziano quindi una serie di ricorsi al Tar, al Giudice del Lavoro e al Consiglio di Stato che rispondono in maniera schizofrenica alle richieste dei docenti, alcuni accolgono, alcuni rigettano, alcuni non si ritengono competenti. Per cercare di dare un indirizzo a tutte queste disparità si decide di fare riferimento a ciò che dirà il Consiglio di Stato in seduta Plenaria che se la prende comoda e da giugno 2016 si riunisce a novembre 2017, e pubblica l’esito alla vigilia dello scorso Natale.

Arriviamo quindi all’oggi: il 20 dicembre 2017 la Plenaria riafferma il valore abilitante del Diploma Magistrale “i titoli conseguiti nell’esame di Stato a conclusione dei corsi di studio dell’istituto magistrale iniziati nell’a.s. 1997/1998 conservano in via permanente l’attuale valore legale e abilitante all’insegnamento nella scuola elementare” ma il diritto dei diplomati è decaduto nel 2007 con la chiusura delle GAE (cosa assurda se si pensa che il titolo era stato dichiarato non abilitante fino al 2014) i ricorsisti dovevano appellarsi prima, ergo il loro titolo è abilitante ma hanno sbagliato anno per far ricorso. Affermazione alquanto discutibile quella della chiusura delle GAE in quanto le stesse nella precedente legislatura, infatti, per ben due volte sono state aperte ai docenti abilitati precari, prima con la Legge 30 ottobre 2008 e poi con la Legge 24 febraio 2012, n. 14.

Si prospetta quindi, di conseguenza, l’espulsione di massa di circa 55 mila docenti che attualmente, o a tempo determinato o a tempo indeterminato, lavorano nella scuola dell’infanzia e primaria dopo esser stati riammessi nelle GAE. Non solo: questi insegnanti verranno espulsi dalla scuola  per sempre anche per via dell’applicazione della norma (comma 131), introdotta con la Buona Scuola, che impedisce di conferire supplenze di lunga durata a tutto il personale precario che supera i 36 mesi di servizio anche non continuativo.

Che ne dice il Ministero? Attualmente, a partire dalla fine del 2016, alla guida c’è Valeria Fedeli, un passato nel sindacato dei lavoratori del pubblico impiego, che su questa sentenza ha chiesto il parere dell’Avvocatura dello Stato. Da che questa vicenda ha avuto inizio è la terza donna ministro che se ne occupa, o meglio non se ne occupa, prima di lei Carrozza e Giannini. E’ del tutto evidente che un legislatura è un tempo sufficiente, anche per la politica italiana, per intervenire e sanare un vulnus che incide sulla vita scolastica nazionale, anche per la classe dirigente più negligente e superficiale immaginabile non si può confondere il non intervento con una svista, la politica dei governi Letta, Renzi, Gentiloni sulla scuola nel caso dei diplomati magistrali mette in evidenza tutta la sua vacuità e velleità, nell’immaginare che il solo  interventismo equivalesse a funzionalità prima e nell’illusione che l’ennesima, superficiale, inconsistente e dannosa proposta di riforma scolastica (da Berlinguer nel 1999 a Renzi nel 2015, passando per la Gelmini nel 2008, l’istruzione è stata campo di battaglia di improvvisati riformisti) la legge 107/2015 avrebbe migliorato il sistema educativo nazionale.

Pochi si rendono conto che nell’immediato futuro, se questa legge (la 107/2015) resterà in vigore, la professione insegnante diverrà una prospettiva molto poco allettante, i requisiti di accesso stabiliti sono: laurea quinquennale, concorso pubblico e 3 anni di formazione in servizio retribuita 400 euro al mese…

Cosa si potrebbe fare? Si dirà: urge un intervento legislativo. Esatto, peccato che il governo attualmente in carica – che ha ribadiamo, come unico atto finora, richiesto un parere all’Avvocatura di Stato sull’applicazione delle sentenza della Plenaria e solo in questi giorni (sembra incredibile ma è vero …) ha avviato un censimento su quanti siano effettivamente i docenti interessati a queste vicende –  si trovi in una fase transitoria di “gestione ordinaria” in vista delle elezioni del marzo 2018, che ben che vada un nuovo governo sarà operativo tra  la fine di marzo e aprile – sempre che non succeda come nel 2013 quando ci vollero oltre 2 mesi per formare un governo e di recente in Germania dove ce ne sono voluti 4 di mesi – ciò significa che questi lavoratori dovranno aspettare almeno 6 mesi solo per sperare nell’avvio dell’iter per avere una prospettiva di risoluzione del loro futuro personale e professionale – dopo un danno subito per oltre 15 anni. Questo governo potrebbe fare qualcosa? Certo che sì, la gestione ordinaria non impedisce di emanare un decreto d’urgenza, (e più urgente di questo cosa ci sarebbe per la scuola?) che il primo consiglio dei ministri potrebbe votare come atto d’insediamento, sarebbe un bellissimo atto simbolico, anche se è più probabile che questa prospettiva resti un’ingenua utopia che si frange contro il realismo cinico politico odierno. La cosa più semplice sarebbe riaprire le Graduatorie, chiuse illegalmente ai diplomati dal 2000, (fattibile per legge appunto “salvo i casi stabiliti dalla legge”) e risarcire il danno procurato solo a loro,  smentendo così quelli come i rappresentanti scuola  dell’ultima compagine politica al governo, che credevano di risolvere con un colpo di spugna (sulla pelle dei lavoratori) la questione precariato: in parte assumendo e in parte licenziando (fasi di assunzione della Legge 107 del 2015 e clausola dei 36 mesi della stessa). La soluzione più equa sarebbe indire un canale riservato di accesso al ruolo a chi abbia titolo e punteggio tra diplomati e laureati.

Entrambe le soluzioni sono però tendenti a sanare un’emergenza, è chiaro che appare urgente un ripensamento del reclutamento e del sistema graduatorie: dopo questa storia nulla sarà come prima.

P.S. un grazie particolare a M. Bortoletto, E. Tallon, A. Baldissera, P. Volpi, I. Rocco, R. Carnio, M. Ponte.

img. @docentimagistrali

 

Standard
Attualità, Etica, Filosofia, Pratiche filosofiche

Unde malum? Le dimissioni di Socrate. “Al di qua del bene e del male” di R. De Monticelli .

bb.blogspot

“Tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo (…) creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro (…) tutto il resto era orientato verso questo vuoto.” ( Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione 1937)

Nelle diverse attività di pratica filosofica –  che siano seminari, laboratori, caffè o consulenze –  è inevitabile arrivare a lambire (ed auspicabile sondare) quel nucleo divenuto oscuro che sono i valori, che siano essi ideali di vita, idee portanti, visioni del mondo, ideologie o fedi; e già questa polimorfia semantica ne può spiegare l’oscurità che è sopravvenuta nel tempo, culminata nel ‘900 con una sorta di decostruzione del pensiero razionalista della tradizione filosofica e della metafisica classica, in era di relativismi, di costruttivismi e di realismi. Tutte queste definizioni di valore ebbero un significato un tempo molto più chiaro e lineare, mentre le si può intendere oggi in termini molti più ampi e generici, ovvero come costellazioni di orientamento. E’ il mondo etico e morale, spirituale, è ciò che ci guida, volenti o nolenti quando agiamo, decidiamo, pensiamo e anche, naturalmente,  quando amiamo, odiamo, invidiamo, ci risentiamo.

Il libro della De Monticelli verte proprio su questo. Chiede molto direttamente – e con inusitata veemenza logica –  se siamo ancora capaci di pensare e parlare di valori. Di “idealità” come le chiama la filosofa husserliana di Pavia. Lo chiede nel nome della razionalità che la filosofia ha sempre incarnato e non teme di collegarla alla tematica morale, sfidando analitici e continentali, heideggeriani, post modernisti e post marxisti, tutti accomunati in questa lettura che concorda nell’impossibilità di una assiologia dei valori umani, che invece la De Monticelli cerca di costruire.

E’ una ricostruzione a mio avviso, poichè se i vecchi ideali muoiono e li si vuole rivivificare, ciò significa dare loro nuova vita. Il tema del ritorno dei valori è un tema complesso ma urgente.

E’ un testo denso, la De Monticelli è docente universitaria, il suo è un lavoro di ricerca filosofica e quindi richiede una certa dimestichezza con le tematiche di filosofia morale, ma ha il pregio di collegare la realtà al pensiero e viceversa. La sua analisi della situazione morale italiana è una vera fenomenologia del male pubblico: l’erosione delle idealità, l’appiattimento del dover essere sull’essere, l’omertà dell’autocoscienza, l’apatia civile, l’apatica “disperanza”, che caratterizzano il nostro tempo non sono eluse anzi conducono l’autrice alle tematiche di una esigenza di rifondazione della ragione pratica, dell’etica politica, verso una “assiologia fenomenologica”. Assiologia come pensiero del valore, dal greco axios (άξιος, valido, degno) e loghìa (λογία da λόγος -logos- studio) teoria che studia quali siano i valori morali nel mondo distinguendoli dalle mere realtà di fatto. Il “dono dei vincoli” è la definizione che chiude questo testo.

Chiaramente le dimissioni di Socrate sono rappresentate dall’abbandono dell’esercizio della ragione nel mondo odierno, dal tradimento del suo dettato e del suo agire. Dov’è Socrate chiede la filosofa?  Socrate è latitante nel disincanto della ragione pratica e nello scetticismo assiologico, quell’orientamento contemporaneo comune che ritiene soggettivo, relativo, storicamente determinato e soggetto a negoziazioni e compromessi qualsiasi giudizio di valore. “La filosofia nacque – almeno in Grecia, almeno nella sua chiave socratica – come tentativo di illuminare questa esperienza, (quella morale n.d.a.) di farne oggetto e mezzo di conoscenza, una conoscenza che fosse anche guida per l’azione, ragione pratica.”

L’autrice inanella riflessioni attraverso la rilettura di Kant, Husserl, Weil, Calamandrei, Dworkin, Hersch, Rawls, Spinelli e molti altri.

Particolarmente efficaci le pagine che analizzano e illuminano buona parte del pensiero novecentesco come un’imbarazzante e terribile abisso della ragione, e non usa parole tenere: “Fa davvero impressione ascoltare alcuni dei più giovani filosofi snocciolare senza ombra di perplessità litanie sulla macchinazione globale del capitalismo condita dagli elogi più illiberali di quanto di peggio si trova nella politica contemporanea.” a partire dall’oblio delle parole di Husserl della Crisi delle scienze europee del 1938, sul rinnovamento etico come compito dell’Europa e sul ruolo del filosofo nella società contemporanea, allora mal comprese se non subito ignorate, con l’adesione acritica alle tesi più oscure e pregne di “delirio e di oscenità” (rese ancor più evidenti dalla pubblicazione degli “Schwarze Hefte”, vedi anche I Quaderni neri di Heidegger) del filosofo di Meßkirch quando parla di macchinazione, sradicamento, destino dell’occidente, intima grandezza del nazionalsocialismo e malessenza dell’ente etc.  e di quanto di esse sia piena la “Rive Gauche”, come la chiama la filosofa, e la nuova cosidetta “Italian Theory”. Si tratta di quel pensiero del ‘900 che, ad esempio riesuma e sdogana quello Schmitt che avallò il sopruso totalitario nazista con il diritto, o che fa apologia della violenza politica, o che depotenzia la legge definendola come vuota formula.

Di particolare interesse per me, inoltre, il lucido e ineludibile appello agli educatori di professione, “Cosa facciamo noi per promuovere quel risveglio dall’apatia, quella disposizione alla ricerca e alla verifica di valore in ogni data situazione, che produrrebbe cognizione e coscienza  dov’è ignoranza e rimozione?”

Come scriveva Husserl, che la De Monticelli cita spesso, : “Tutta la vita è prendere posizione, ogni presa di posizione è soggetta a un dovere, a una giurisdizione di validità o invalidità.” (E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa 1911).

Ma siamo ancora disposti e capaci a questa sfida?

_____________________________________________

Roberta De Monticelli, Al di qua del bene e del male 2015 Einaudi.

Img: Tadao Ando Meditation Space (UNESCO Paris) bbonthebrink.blogspot.it.

Standard