Filosofia

La filosofia spiegata ai giovani, di S. Zampieri.

Ancora una volta Stefano Zampieri riesce a farci scorgere a intravedere – oltre che suggestionare con una scrittura chiara e scorrevole – quanto e come la filosofia è necessaria alla nostra vita quotidiana e in quali infinite forme ci può aiutare a condurre una vita pensata, degna di essere vissuta.

In questo suo ultimo testo l’autore lo fa proponendo una sorta di mappa, un percorso con coordinate filosofiche che offre, anche a chi non ha studiato filosofia, l’opportunità di riflettere e ritrovarsi nel personale percorso di costruzione esistenziale, attraverso un’esplorazione fenomenologica dell’essere nel mondo che tutti ci coinvolge.

Nel suo nuovo testo “La filosofia spiegata ai giovani” – un titolo a prima vista “furbo” editorialmente ma che a libro letto risulta coerente e azzeccato secondo il contenuto – Zampieri colpisce, tra le diverse tematiche che affronta, per due di esse in particolare.

Una è la prima parte del testo “Il discorso filosofico” che inizia con la domanda Che cos’è la filosofia? Di questi tempi se c’è una cosa che è poco chiara e confusa è proprio la risposta a questa domanda, perché negli ultimi 40 anni almeno la filosofia ha visto cambiare il proprio modo di intendersi, proporsi e di essere percepita. Essa, da disciplina storiografica scolastica e specialistica frequentata da studiosi e accademici, è ritornata ad essere in realtà molto di più. Essa è infatti, e Zampieri lo mostra bene, discorso, tradizione, scuola ma soprattutto gesto che nasce dalla meraviglia, con Platone e Aristotele inevitabili riferimenti. La filosofia “strappa le cose all’indifferenza” allo sguardo abitudinario, richiede un passo indietro che permette di capire, comprendere, e “vedere” meglio. E’ razionalità e interrogazione comune. La filosofia perciò è ben altro che la storia della filosofia o solo questa o quella corrente o esclusivamente questo o quel filosofo. Soprattutto la filosofia è oggi possibile attraverso le diverse pratiche che la vedono dispiegarsi, quella accademica, la ricerca, le pratiche filosofiche, la divulgazione, il digitale. La filosofia è stile di vita.

In queste prime venticinque pagine, che lascio al lettore il gusto di scoprire, trova una spiegazione approfondita anche il sottotitolo del testo “Come costruire la propria esistenza e orientarsi nella vita.” La filosofia infatti ci mette sulla strada e tocca a noi scegliere la direzione, lo fa attraverso il dialogo che ci consente di vedere l’invisibile e identificare i punti di riferimento per orientarci. In poche pagine e con un lessico limpido Zampieri riesce a dire cosa fa la filosofia. Non dice cosa non è, cosa non fa, cosa non può. Dice cosa è e cosa fa. 

La seconda cosa che colpisce in questo libro di Zampieri sono i tre capitoli finali della seconda parte, “La filosofia ti dice chi sei.” In particolare quelli riguardanti i concetti di Riferimento, Espressione e Riconoscimento. Nonostante l’usurpazione invasiva dell’onnipresente psicologia nei mass media talvolta la filosofia riesce a ripristinare la sua preminenza, soprattutto dove è legittima ovvero nel mondo delle relazioni, dell’identità e delle scelte individuali. Così è per questi brani di Zampieri.

Che cosa ha davvero valore? C’è una domanda più filosofica di questa? Cosa ci aiuta a scegliere, decidere, se non i nostri punti di riferimento cioè quei valori che si dice si siano perduti nella società liquida, globale e complessa del presente? E quali sono? Quali sono stati? Come cambiano? Essi sono i modi d’essere verso cui si tende. I valori sono i punti di riferimento nel cammino dell’esistenza. Non sempre appare chiaro quali siano i valori che sottendono a scelte, proposte, idee e immagini nella complessità del mondo contemporaneo. Invece è necessario avere la capacità di riconoscerli e saperli collocare. Parlare di valori è inattuale. Il tuo bisogno di espressione è invece il tema del penultimo capitolo. Esprimersi è un gesto fondamentale nell’economia del dare e del ricevere, un bisogno primario profondamente umano e il non poterlo fare genera ogni sorte di malessere e difficoltà personali. Esprimersi è un modo di dare. Vogliamo esprimere ciò che siamo, la nostra singolarità. La tua opera deve uscire da te, scrive Zampieri. Perché la tua necessità di esprimerti non dovrebbe accontentarsi di trovare un interlocutore qualsiasi. Infine il capitolo che ha per titolo Il tuo bisogno di riconoscimento. Il riconoscimento è un processo essenziale nel nostro percorso di identificazione. Con tutte le sue trappole. L’identità è un tema molto sentito ai nostri giorni, spesso in modalità nuove e in forme espressive innovative: moda, social media, arte, musica e preferenze. Stili di vita. Il socratico conosci te stesso naturalmente. Il mutuo riconoscimento. Il riconoscimento ha, sottolinea l’autore, questa valenza multipla: dagli altri, da noi stessi e nella reciprocità, esso è cardine fondamentale del mondo della vita. Il fondamento dell’identità personale, scrive l’autore, è, dunque, essenzialmente un’identità sociale.

Un testo importante per tempi difficili, un testo che, come scrive l’autore, ci guida al “senso originario del discorso filosofico, che è necessario ritrovare se vogliamo che la filosofia non resti un sapere marginale ma torni ad essere parte della nostra vita e ausilio al nostro cammino di abitatori del terzo millennio.”

S. Zampieri. La filosofia spiegata ai giovani. Come costruire la propria esistenza e orientarsi nella vita. Diarkos 2023

Img: Diarkos

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Attualità, Filosofia

Io, mondo, uomo.

Antropologia e distopia.

Cornelio Fabro, filosofo cattolico semi dimenticato nel 1969, scrisse (nel testo a commento della filosofia di Severino che contribuì al suo allontanamento della Cattolica) de “ l’uomo-fenomeno nella sua avventura storica”, che ha abbandonato la religione e filosofia verso la mitizzazione della scienza. Giovanni Maria Bertin, pedagogista, altrettanto dimenticato, nel 1968 scriveva “La civiltà sembra essere caratterizzata dal prepotere del consumo, anziché dal rispetto della dignità e dalla preoccupazione di liberare l’uomo. Lo sforzo massimo è in essi rivolto ad intensificare la produzione e ad allargare i mercati, in modo da elevare i profitti e (subordinatamente) elevare la capacità di acquisto delle masse lavoratrici affinché queste consumino sempre di più (…)

Questo potrebbe dire qualcosa dell’uomo dei nostri giorni, anche se son passati più di 50 anni.

Il Novecento soprattutto, è stato il secolo del materialismo economico, beni, produzione, mercato, consumo,  e dello scavare nel torbido, scrutare nel meandri del basso animalesco umano, scandagliare l’abisso per la consapevolezza del senso di colpa totalizzante e paralizzante, falsamente liberatorio. Il materialismo dialettico ha dominato il pensiero filosofico politico del Novecento fino al 1990 per poi decadere sommerso dai frutti da una prassi politica ed economica criminale e affamante. L’attualità frutto di quel secolo appare in quelle che  sembrano le tendenze filosofiche del nuovo millennio: scientismo assolutista e prevalenza di istinti biologici. E’ stato anche altro, il Novecento, ma questo è ciò che ne rimane oggi.

Società, informazione, cultura, politica, tecnologia, lavoro, giovani, educazione, economia, nessuno di questi ambiti si può dire al riparo da un’idea di crisi che permea tutto il nostro mondo della vita quotidiana e il nostro pensare la realtà. La nostra visione del mondo appare velata da uno schermo di mancanza di senso o peggio da una privazione di prospettiva.

Una società sempre più liquida, un’informazione così caotica che nemmeno l’idea di fake news riesce a contenerla e a garantire un discrimine, un generale ripensamento dei valori sociali e dell’etica, accelerazione dello sviluppo tecnologico e della sua pervasività, precarietà e prevalenza dell’economico, spaesamento cinismo e deprivazione del valore umano della relazione. Pandemia e guerre.

Il tempo sta cambiando. L’agire umano e l’esperienza perdono il loro primato nella complessità e nella scala dell’organizzazione sociale di oggi. Ibania, la città del controllo totale, occhiuto e pervasivo, è realtà. Gli attori protagonisti sono invece sistemi complessi, infrastrutture e reti in cui il futuro sostituisce il presente come condizione strutturante del tempo.

I dispositivi digitali hanno cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo ossessivo e sempre visualizzabile in immagini memetiche  attraverso uno schermo. Governato da un algoritmo. Il soggetto è parte uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si muovono disordinati e imprevedibili come insetti mutanti. Ci si interroga su ciò che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di sé per contare i “mi piace”, quando il privato esibito si trasforma in un pubblico che cannibalizza l’intimità e la privacy. E su cosa accade ad una società che mistifica la virtù in nome del performabile. E su che cosa comporta abdicare al significato e al senso per un’informazione reperibile sempre sincronicamente ma spesso deforme e inaffidabile.

La visione positiva della vita vissuta e autentica vista come vivere bene, nella dignità, negli affetti, nei propri valori, in una condizione nella quale ognuno possa esprimere liberamente e profondamente se stesso, in un clima di reciproco riconoscimento, sembra svanire come sogno o illusione, utopia.

Il tempo del presente necessita di un’etica della complessità, cioè di una capacità di comprendere diversi linguaggi, di farsi multialfabeta ovvero saper affrontare diverse “grammatiche” per comprendere il mondo e abitarlo consapevolmente. Forse queste grammatiche non ci sono o non abbiamo saputo apprenderle e insegnarle.

Oggi assistiamo al supermarket della consulenza, fast e blended. Veloce e personalizzata, di tutto un po’. Si riaffacciano residui e cascami che riaffiorano nel tentativo di promuovere terapie di pratiche che inseguono concetti e termini di natura diversa inoculati dalla cultura decadente del pensiero debole occidentale per cui colpa, paura, illusione, menzogna, inganno sono tutte derivazione di una antropologia patologica deteriore che vede l’essere umano come substrato materiale e organico, malato insano, preda di speranze vane, perniciose assuefazioni, inconscio torbido, ricordi rimossi, infanzie tradite, madri anaffettive e padri dispotici, violenze e libidini sottostanti azioni ripugnanti. La vita come deresponsabilizzazione istituzionalizzata, la sparizione della responsabilità e l’invenzione dell’inconscio. Tutto lavora sull’uomo come macchina desiderante. Si inventano bisogni, si alimentano paure.

Manca la chiarificazione emotivo razionale di una situazione esistenziale complessa ed in rapida evoluzione, di cui non si vede il telos, il fine ultimo, lo scopo. Chiarificazione emotivo razionale cioè quella competenza che è solo filosofica.

Sembra confermare questa asserzione anche la recente intervista dello psichiatra novantenne E. Borgna  «Le malattie mentali non esistono, non si possono dimostrare. Chi vuol fare lo psichiatra dovrebbe leggere Giacomo Leopardi. Ma anche Emily Dickinson e Giovanni Pascoli. Non si può curare la fragilità solo con gli psicofarmaci». Neppure la psichiatria sembra poterci aiutare.

A Milano qualcuno paga molti soldi per andare a sentire qualcuno che afferma candidamente: «Io non ho un lavoro e non ho mai lavorato in vita mia. E non ho nemmeno una vocazione. La sola cosa che sono bravo a fare è stare fermo a non fare niente.»

Possiamo stupirci se tutto ciò si ripercuote violentemente sulla nostra quotidianità, su cui proiettiamo di continuo fantasie patologiche autoavverantesi, e non sappiamo come reagire, se non chiedendo alle esauste e svuotate agenzie educative, o ad una classe dirigente palesemente inadeguata, di fare quello che scientemente abbiamo rinunciato a fare da svariati decenni?

«Chi ha un perché del vivere può sopportare quasi ogni come» Scriveva Nietzsche.

Noi abbiamo un perché?

Img: Bacon, autoritratto,1971

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Filosofia

L’esercizio della filosofia come ricerca dell’essenza.

Saggezza pratica e sapere. Phronesis e Pragma Sophia.

La nascita della filosofia, nella sua ambivalenza di una forma di aspirazione al sapere, riluce di intenzioni, attriti, scissioni, scosse e unioni. Facile intuire che affondi nei primordi inaccessibili, se non per vie letterarie e filologiche, del IV e V secolo nel Mediterraneo, nell’Egeo. Greca con derivazioni asiatiche, questa pare sia la sua nascita misteriosa. Difficile individuare il primo utilizzo del termine greco philosophia e dei suoi derivati philosophos (filosofo) e philosophein (filosofare). La tradizione risale a Talete, oppure a Pitagora basandosi su fonti di Diogene Laerzio. Pare che nasca a Mileto, città che a quei tempi era situata nei pressi della costa dell’Asia minore, terminale dei commerci che collegavano la Mesopotamia alle coste del mar Egeo. Erodoto, originario appunto dell’Asia Minore, nei suoi numerosi viaggi andò a vivere anche ad Atene. È forse proprio nella sua opera che si incontra per la prima volta il riferimento a una attività “filosofica” che però si sviluppa e si consolida come socratica. Furono i Socratici a fare, per primi, un uso ampio della nozione di filosofia/filosofo, identificando con essi Socrate e la sua pratica discorsiva. La radice originaria dell’istinto filosofico è problematica, perché muove dalla volontà di svelare, comprendere, capire ciò che appare incomprensibile, o poco convincente, è questa la nascita mediterranea e arcaica dell’amore per il sapere. Una reazione alla meraviglia, allo stupore, alla paura. Del creato, del mondo, del fato. Un espediente dell’intelletto che serve a vivere.

L’abitudine di suddividere la storia della filosofia in prima e dopo Socrate è piuttosto recente, intorno al 1900 con Diels e poi Kranz, filologi tedeschi e rappresenta una convenzione storiografica. Socrate si interessa all’uomo non alla natura.

Che ogni azione sia guidata da un pensare è, con queste premesse, questione della più antica tradizione filosofica. Che il retto pensare, credere, intendere sia condizione necessaria per un agire orientato al bene, utile o ideale diremmo noi contemporanei, è riflessione della prima grecità. Empedocle, fu il primo pensatore a cui dobbiamo il concetto di princìpi che governano l’ordine delle cose, concordia e discordia. Scriverà in due poemi, pervenuti in frammenti, della costituzione del mondo e dell’amore come unica potenza del bene contro il potere distruttivo della discordia che separa gli elementi.

Dopo Socrate e Platone, Aristotele dedicherà una parte importante della sua Etica Nicomachea (libri VIII e IX) alla discussione sulla philia, tradotto  con “amicizia”. La philia mette insieme in vincoli di affinità. Per Aristotele la forma più nobile di amicizia è quella che non si basa solo sull’utile o sul dilettevole, ma sul bene. Per Aristotele la vita migliore è quella dedita alla riflessione meditativa. Il filosofo, sarebbe dunque l'”amico del sapere”, cioè del conoscere, non per usarlo come mezzo o solo per piacere intellettuale, ma come fine a sé stesso, conoscitivo, accrescitivo. Il conoscere è legato a sophìa, sapienza, conoscenza. Aristotele il grande raccoglitore, il selezionatore, l’incasellatore,  greco di cultura, ma macedone perciò straniero per provenienza, distinse inoltre per la prima volta la sapienza dalla saggezza. Fino a Platone i due termini indicavano semplicemente la condotta razionale della vita umana, cioè la saggezza. Dopo di lui i saperi si dividono in pratici e teoretici. Aristotele tende a valorizzare la risoluzione socratica della virtù in competenza, mira alla descrizione della sua capacità operativa, che gli appare tecnica come quella di geometri ed architetti, e non condivide l’idea socratica che il sapere basti a determinare la volontà del bene. Aristotele ha di fatto rinunciato ad una critica veritativa delle assunzioni di valore proponendo la tesi di un’origine della virtù non puramente razionale, ma consuetudinaria e sociale. Scrisse «Non è possibile essere virtuosi senza la saggezza, né essere saggi senza la virtù etica.»

In Platone phronesis si configura come quell’intelligenza riguardo alle cose umane. Platone non distingueva tra loro sapienza  e saggezza che Aristotele distinse e contrappose in due termini. In italiano, saggezza e sapienza hanno acquistato e mantenuto nei secoli una spiccata cifra semantica: etica la saggezza, noetica la sapienza. La sapienza di sofia, della parola filosofia, va quindi letta in italiano nel preciso valore semantico di sapienza. Nelle meravigliose pagine del Fedro in cui Platone afferma che l’amore deriva dalla bellezza e che essa promana nel sensibile dell’essere dalle qualità migliori dell’anima, phronesis è usata per dire bellezza interiore, come composizione di virtù speciali, unica visibile tra tutte la bellezza è l’accesso al divino. “Quali amori smisurati provocherebbe la phronesis se si potesse vedere!”

Aristotele suddividerà la sapienza come condotta e come sapere inaugurando quella teoreticità astratta che la filosofia ha impersonato per secoli, senza peraltro perdere la specificità che la caratterizza, acquisendo però una vaghezza e uno status di aleatorietà e fumisteria che ancora nel sentire comune la avvolgono. Mantenere perciò l’idea che la filosofia sia un supporto collocabile all’interno della riflessione etica e non noetica, cioè legata solo al comportamento e non alla conoscenza è l’estrema riduzione a merce di scambio spendibile nel mondo contemporaneo, una maschera commerciale. Che essa sia individuabile come analisi mentale, di pensieri, di teorie, di ideologie,  la spezza peraltro in un dualismo intellettuale per il quale la riflessione guida l’agire, assunto quanto mai dubbio ma dato per assodato. L’agire, azione, prassi, si genera come mescolanza di istinto, ragione, sensazione, intuito, interesse, natura, attitudine.

L’accezione precedente cioè socratica e platonica intende Filosofia come amore per il sapere. Filosofia è la passione per il sapere che ci lega alla vita ogni giorno. La connessione vita, sapere e filosofia indica chiaramente che la filosofia è perciò saper vivere. E’ probabilmente qui che si può individuare una via d’uscita filosofica dall’imbuto aristotelico. Nulla a che fare con l’aristotelica teoresi, o etica neutra e indefinita, senza escluderle certo ma senza dividere tra esse e categorizzare l’esistenza. L’accostamento aristotelico di filosofia e pensiero è fuorviante e rende debole il ragionamento. Il pensiero viene sempre dopo la realtà. L’immediato accadere delle cose è il primo dato di verità fattuale. Se questo è vero fare filosofia significa aver coscienza di vivere nella vita. E’, detto altrimenti, riconoscere che la necessità di  imparare la vita è la vita stessa, e per farlo –  oltre a vivere – concorrono idee, concetti, azioni, riflessioni e verifiche. Come a scuola, dove oggi si rinchiude il sapere, scholé parola dimidiata che ab origine significava tempo sottratto al lavoro, oggi invece sempre più traduce addestramento al sistema. Non è il lavoro quindi, seguendo questo ragionamento, l’ambito di realizzazione dell’uomo, topos otto/novecentesco come sintesi di realizzazione dell’umanità, quanto piuttosto il tempo da esso libero, di greca memoria, scholé. Il tempo dedicato ad imparare a vivere. Che si caratterizza come tempo dedicato alle cose più nobili, alte, della conoscenza e dell’amicizia, della vita.

In un certo senso la phronesis aristotelica offre uno strumento di adattamento socio politico ideale: se esiste una saggezza pratica, come Aristotele intende phronesis, e l’uomo può esercitarla per connettere pensiero e azione in modo che possa comprendere la realtà, e comporre la visione del mondo individuale, ebbene chi può garantire che una visione del mondo non possa essere illusoria, facilmente indotta e costruita, manipolata, suggerita in sua vece? L’uomo così diventa oggetto malleabile e influenzabile che si auto illude di avere un’idea personale di vita e una visione del mondo, mentre è il mondo che con un artefatto sistema di coercizioni e lusinghe proietta sull’uomo la sua ombra significante. La consapevolezza di avere una visione del mondo allude ad una coscienza. Il filosofo che interpreta e  “disegna” questa presupposta coscienza diventa così l’adattatore sociale. La saggezza pratica si adatta al mondo, è la matrice mondana della vita sociale. Ben diversa appariva la phronesis platonica, o sophìa, che piuttosto incarica l’uomo, ogni uomo e donna, di esercitare la propria psyché, la propria anima per imparare a vivere.

Altra considerazione è la caratteristica della Filosofia al suo apparire. Essa è attiva, comune, perché co-involge, dal non sapere innalza verso il sapere, o tenta di farlo. Dal non sapere al sapere: il conoscere accresce il saper vivere e questo richiede esercizio. L’esercizio di vita è esercizio filosofico. Come intendere un esercizio di filosofia? Qualsiasi atto con cui si addestri il corpo e si applichi la mente, da exercere verbo latino. Per chiarire cos’è la filosofia come esercizio occorre anche spiegare cosa fa, che esercizi propone. La filosofia infatti fa cose. Quali sono le cose che è in grado di fare la filosofia, tutta? Argomentazioni, analisi, discernimento, evocazioni di immagini, inventare storie, riepiloghi, connessioni, rimembranze, nuovi linguaggi, elucubrazioni, teorie, spiegazioni, identificare problemi, scoprire possibilità, lumeggiare soluzioni, sperimentare vie inesplorate. Apre all’infinito. Trascende sempre, la filosofia, porta sempre altrove, cioè rimanda e indirizza verso altro, l’altro, l’oltre, sempre. E’ senza uscita univoca, non è un sistema ordinato. Un esercizio di filosofia è perciò sempre possibile quando accadono “cose” trascendentali, poiché rinviano costantemente altrove, delocalizzano il pensiero, lo fanno realmente circolare, “cose” come quelle sopra elencate che possono accadere in spazi di vita quotidiana.

Se l’origine della filosofia si determina come saper vivere allora appare tradita nella sua intima idea originaria, l’Eidos socratico platonico, che non conduce come pensava Volpi ad un irrazionalismo astratto ma piuttosto ad una ripresa socratica che chiede all’umanità di ripensare il proprio modello, eidos. Il vicolo cieco che la ripresa della filosofia pratica tedesca del ‘900 – questo è in fondo il progetto che mette al centro la phronesis aristotelica,  e l’idea di pratica filosofica – , mette in luce, come Volpi ha invece già in anni ormai lontani evidenziato in maniera esaustiva – è di fatto la semplice ripresa delle tematiche relative agli ambiti di etica-politica-diritto della vecchia filosofia pratica, tematiche che la tradizione marxista e prima hegeliana tedesca colloca nel quadro prassi, dinamica servo/padrone, produzione, capitale, dialettica, logica. Idealismo e marxismo. Individualismo e massificazione. Ideologie  che inquadrano l’individuo in macrosistemi socio politici di matrice totalitaria e di massa.

Se prendiamo per valide le premesse aristoteliche relative all’etica e alla saggezza pratica (phronesis) allora l’oggetto della filosofia pratica è il bene supremo praticabile o fine ultimo delle azioni umane, e questo fine ultimo è la felicità. Così determinata la filosofia pratica dovrebbe essere indirizzata alla ricerca della felicità, e i filosofi pratici presentarsi come esperti ricercatori della felicità.  La cornice, costruita dalla logica politica liberale progressista materialista e ametafisica occidentale rimanda alla concezione dell’uomo come puro inconsapevole dato biologico, atto a comportamenti infondati, orientati al nulla, in balia di impulsi di diversa natura, ambientali, fisici, mentali, che non può controllare. La felicità occidentale è fatta quindi di accumulo e sperpero di beni materiali, soddisfazioni di impulsi animali, godimento ozioso, sopraffazione e sfruttamento, agonismo e culto del malaffare. Grazie Aristotele. Neppure la penultima versione dell’etica aristotelica, cioè lo stoicismo, pare potersi adattare all’idea di phronesis proposta oggi, nonostante le evidenti assonanze, spesso non dichiarate. Il fine dello stoico è l’atarassia, non la felicità. La società odierna rifugge l’atarassia, ovvero il controllo delle pulsioni, piuttosto anzi ne propone il completo dispiegamento, lo sfogo totale. Quanto alla questione pratica filosofica o filosofia pratica il discorso si chiarisce facilmente. Una semplice inversione linguistica non produce affatto effetti concreti tali da parlare di svolta. Come mosche intrappolate o i richiusi della caverna platonica, sbattiamo contro il vetro che ci costringe e continuiamo a vedere le stesse immagini proiettate nelle pareti della caverna.

Piuttosto è un ritorno alle origini –  come il salmone che nuota a ritroso, risale la corrente – di cui si deve discutere. Appunto Socrate e Platone. Idea è la traslitterazione del greco eidos che significa forma che deriva dal verbo idein che significa vedere. Con Platone idea indica il vero essere delle cose, la loro natura interiore, l’essenza. L’occidente filosofico ha perso la sua essenza.

Le obiezioni di chi dice che non è possibile replicare le esperienze della filosofia greca, implicitamente negando il legame tra i primi pensatori e noi oggi, è talmente debole che sarebbe come dire che poiché non è possibile che si ripeta l’ascesa di un dittatore criminale, perché non si possono replicare gli eventi del passato, per le loro caratteristiche specifiche socio culturali e geografiche ad esempio, non potrà mai più accedere un olocausto. Il che è ovviamente falso, nulla vieta e non è possibile dire che è impossibile che domani un folle politico prenda legalmente il potere e dichiari fuori legge una qualsiasi parte di umanità replicando quanto accadde nella prima metà del ‘900.

Tradita l’origine della filosofia la situazione filosofica del nostro tempo appare molto diversa o meglio confusa. Da una parte un’esaltazione della scienza e della tecnologia ben rappresentata da un linguaggio specifico e sorvegliato, che rispetti le indicazioni degli specialisti e le applichi con rigore, argomenti fondati su evidenze e prove, non suscettibili di confutazione, la sottomissione ai dati. Il filosofo può dire solo qualcosa di scontato, di già convalidato dalla scienza, noto a tutti e soprattutto evidente di per sé, presentandolo come una grande scoperta. Dall’altra, il ‘900 soprattutto, è stato il secolo del materialismo economico e dello scavare nel torbido, scrutare nel meandri del basso animalesco umano, scandagliare l’abisso per la consapevolezza del senso di colpa totalizzante e paralizzante, falsamente liberatorio. Il materialismo dialettico ha dominato il pensiero filosofico politico del Novecento fino al 1990 per poi decadere sommerso dai frutti di un pragmatismo politico ed economico europeo criminale e affamante. Tali sembrano le tendenze filosofiche del nuovo millennio: scientismo assolutista e prevalenza di istinti biologici. Tutto adagiato su di un substrato tardocapitalistico che dal 1990 è onninvasivo e globalizzante. .

L’habitus filosofico è mediocre. Il rigore, la scientificità, la credibilità e una qualche  dose di perbenismo oggi sono gli ingredienti sicuri per una visione del mondo razionale e affidabile, rassicurante e consona ai tempi ed allo spirito del mondo che ci governa e così i neo pensatori del nuovo secolo intendono solcare mari che sempre furono inesplorati e misteriosi con vascelli in materiali innovativi senza vele o anacronistiche braccia galeotte. Il filosofo è il primo difensore dell’ordine costituito. Traduce al volgo le direttive dei nuovi potenti liberal democratici. Conciliante, perbenista, consolatorio, rassicurante. Tutto si tiene per questi esegeti dell’ovvio del banale  e dell’oscuro scrutare.

Linguaggio, logica e scienza hanno occupato l’intero campo del pensiero e rifiutano un mondo fatto di parole aperte, di concetti e di idee, sono per un campo recintato con filo di ferrea logica, piantumato di ultime scoperte scientifiche e sorvegliato dai signori del nuovo linguaggio. Un metamondo, un oltregaia, un mondo rappresentato da fatti e di confutazioni, un platonismo realistico. Wittgenstein inaugurò questa proiezione intellettuale del mondo in fatti e  affermazioni apodittiche, ultimo e intimo terrore teutonico all’avvento della finis Austria, estremo tentativo di aggrapparsi al tangibile perché il caos dilaga. L’allucinazione di un ingegnere e matematico disperato. L’uomo resta un enigma. Se non è possibile fare nuovo l’uomo, fallimento progettuale del ‘900, facciamo nuovo e sorvegliato il mondo comune, la società. Da Platone quindi, idee sì ma sterilizzate dal filtro analitico razionale popolare, passando per la negazione di Nietzsche e del suo povero oltre uomo, fino a un Foucault manipolato: sorvegliamo e bandiamo chi non ha i requisiti che noi stabiliamo. Il mondo vero rifiutato per il mondo virtuale.

Posto il sacro tra parentesi, cercando di collocare l’uomo al centro dell’universo, potenziandolo con la tecnica e costruendo un mondo paradiso digitale, la questione religiosa è messa in sgabuzzino. Collocata fuori scena, relegata alla stregua di credenza popolare, illusione dell’immaginazione, prodotto del potere secolare che inventa divinità per legittimarsi. Droga dei poveracci. Fiaba per bambini. Mitologia del passato.

Permangono e si consolidano derivati popolari di quel freudismo da bancarella –  vero colpo di grazia della filosofia del ‘900 – sesso, madre, istinto, uccisione del padre, che ormai da tempo è considerato, dai più accorti studiosi, nulla più che una teoria pseudo letteraria e psicologica. Residui e cascami che riaffiorano nel tentativo di promuovere terapie di pratiche che inseguono concetti e termini di natura diversa inoculati dalla cultura decadente del pensiero debole occidentale per cui colpa, paura, illusione, menzogna, inganno sono tutte derivazione di una antropologia patologica deteriore che vede l’essere umano come substrato materiale e organico, malato insano, preda di speranze vane, perniciose assuefazioni, inconscio torbido, ricordi rimossi, infanzie tradite, madri anaffettive e padri dispotici, violenze e libidini sottostanti azioni ripugnanti. La vita come deresponsabilizzazione istituzionalizzata, la sparizione della responsabilità e l’invenzione dell’inconscio.

Breve inciso. Tale substrato, o inconscio, scandagliato dai sacerdoti della psiche, con la terapia della parola quando non otturato con farmaci, se indagato e emendato non accade nulla. Nullo è infatti l’effetto medico biologico scientifico di qualsiasi pseudo terapia psicobasica, su di  una persona con difficoltà riconducibile al mal di vivere, che non sia la chiarificazione emotivo razionale di una situazione esistenziale. Cioè filosofica.

L’unione di queste due tendenze – scientismo assolutista e prevalenza di istinti biologici – in contrapposizione alla tradizione metafisica, religiosa e filosofica che ha dato inizio alla storia del mondo pensato, ha creato una massa di informi sapienti, di inermi non pensanti, di pseudo scienziati,  che uniscono un gretto e arido materialismo ad un indefinito moralismo composto di una etero-etica progressista priva di indirizzo spirituale. Applausi per Nietzsche.

In questo tempo non ha propriamente senso parlare di phronesis, intesa come da tradizione aristotelica, è fuorviante e manipolatorio. Trattare la capacità di decidere consolidando i confini del conoscere e affermandoli nella esatta disposizione dei tempi di mezzo in cui ci troviamo è operazione mistificatoria, illusoria e malevola. Illusione di filosofia è quella che crede di illuminare con discorsi chiarificatori mentre annienta la concordia e la separa dal vivere recludendo intime passioni e conoscenze superiori. Trascinare al basso ciò che tende all’alto è operazione di meschineria filosofica, quella che attualmente regna sovrana nel mondo derivato e postumo in cui ci troviamo a vivere.

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Attualità

Cronache aforistiche ’22

War. Guerra. Unione europea e Nato spinti fin sull’orlo della vasta Russia con poca prudenza. Un rappresentante attore, milioni in armi. Distruzione, profughi, morte. Crisi energetica. Attentati, omicidi, nucleare. Tutto in otto mesi.

La scuola di alta formazione politica italiana “…adesso tutti si accorgono della signora Ronzulli che ha come curriculum quello di essere un’infermiera e di aver gestito l’arrivo delle ragazze a Villa Certosa. Dove la vogliamo mettere, alla Sanità o all’Istruzione? ” cit. Dagospia Tutto il mio rispetto, solo in questo caso limitato e esclusivo, a chi impedirà a Caligola di nominare il proprio cavallo senatore…..con tutto l’amore per i nobili cavalli, che fanno i cavalli.

«La dispersione scolastica implicita, cioè l’incapacità di un ragazzo/a di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51% Nel corso della sua presentazione Tesauro ha affermato che in Italia esiste «una crudele ingiustizia generazionale perché la crisi ha colpito proprio i bambini. Non solo 1,384mila bambini in povertà assoluta (il dato più alto degli ultimi 15 anni) ma un bambino in Italia oggi ha il doppio delle probabilità di vivere in povertà assoluta rispetto ad un adulto, il triplo delle probabilità rispetto a chi ha più di 65 anni». ll presidente di Save The Children ha ricordato inoltre, che «più di due milioni di giovani, ovvero 1 giovane su cinque fra i 15 e i 29 anni, è fuori da ogni percorso di scuola, formazione e lavoro.

Incomprensioni russe. Esattamente un secolo fa, nel 1922, Il’in, Berdjaev e molti altri membri dell’intellighenzia che Lenin non riusciva a sradicare del tutto (ma che non poteva nemmeno far rimanere in Russia) furono mandati in esilio a bordo delle “navi dei filosofi”, per essere poi lasciati in Europa. Il’in divenne il portavoce del popolo russo bianco emigrato. Era legato a un gruppo di pensatori dell’epoca conosciuti come “eurasiatisti” – l’idea risale a qualche anno prima – e credeva come loro che l’Unione sovietica non sarebbe durata a lungo. Nel 1950 scrisse il saggio What the Dismemberment of Russia Will Mean to the World (“Cosa comporterà lo smembramento della Russia per il mondo”), in cui spiegava cosa sarebbe successo quando l’esperimento marxista fosse fallito. Il’in Ilyin sosteneva che la Russia non fosse uno Stato-nazione come quelli occidentali: per lui era una specie di organismo, un’unità mistica sovrastorica, un po’ come il Volk tedesco ma con un’impronta più cristiana. Quando l’Unione sovietica sarebbe crollata, quest’unità organica sarebbe stata smembrata in altre entità più piccole, separate e indipendenti, che sarebbero state poi assorbite dall’Occidente, neutralizzando così la potenza russa – cosa che, secondo Il’in, l’Occidente ha sempre voluto fare (Il’in è una importante fonte per chi sostiene l’esistenza di una russofobia in Occidente).

Linguaggio a vanvera. Il linguaggio divisivo che sperimentiamo lo è anche per la sua mancanza di rispetto e per la sparizione del dialogo. Un linguaggio che esprime la furia di tutti contro tutti, che racconta l’impotenza di chi sta male e vorrebbe fare qualcosa per stare meglio ma si rende conto della propria inutilità, scarsa autostima e impossibilità di cambiare le proprie condizioni materiali di esistenza. Senza rispetto è anche il linguaggio televisivo di molti talk show, costruiti con ostentazione per élite benpensanti, a tratti intimidatori e linguisticamente manipolatori. In mancanza di rispetto e diventati abili nel praticare la brutalità del linguaggio siamo sempre pronti a scontri improvvisi, a comportamenti aggressivi, espressione di una indifferenza crescente verso gli altri, di tensione diffusa ma soprattutto di instabilità e malessere psichico dalle conseguenze imprevedibili. Cit. Mazzucchelli.

Come l’infosfera sta cambiando il mondo. Luciano Floridi a #Maestri «Nessuno controlla il sistema in modo globale, e la struttura stessa di internet garantisce che nessuno potrà controllarlo in futuro. Internet promuove la crescita della conoscenza creando al contempo forme di ignoranza senza precedenti» La sparizione di una qualsiasi antropologia.

Il filologo tedesco in spiaggia. Il Comune di Atrani e il famoso filologo tedesco Dieter Richter litigano per un lettino in spiaggia. Uno scontro iniziato sul bagnasciuga e poi culminato online con post e comunicati. Tutto inizia quando lo studioso denunciato via internet di essere stato «discriminato» perché gli sarebbe stato rifiutato di accedere in spiaggia prendendo un solo lettino («o due a 35 euro o niente»).

Ideologie politiche del nuovo millennio Democrazie liberali,Nazionalismi tecno capitalistici,Eurasia,Europeismo atlantico, dittature religiose, democrazie orientali.

Pace ma non troppo. Manifestare per la Pace. Dopo circa 8 mesi di bombe, morti, profughi. I famosi riflessi pronti. Che tempismo. E purtuttavia c’è chi storce il naso. Ad alcuni non piace chi lo propone. E inoltre bisogna chiarire prima: e le armi, e il sostegno? Troppi distinguo. Pace sì ma non con quelli e senza condizioni. Ovvero, ciò significa, consapevoli o no, forse ipocriti: non pace ma guerra, ancora guerra, sì alla guerra.

Dissenso inatteso. Incredibile. Nel paese teocratico atomico, delle donne nascoste e sottomesse. Nel paese del partito unico, di Stato, comunista e capitalista, di decennale potere indiscusso. Dalle piazze e da un cavalcavia.

img: © Non conosciamo la proprietà intellettuale della foto utilizzata, ovemai qualcuno ne richiedesse il riconoscimento ce lo comunichi.

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Caffè filosofici, pratica filosofica

2022 Pensare il presente, immaginare il futuro

Caffè Filosofici 2022

a cura di Davide Ubizzo, consulente filosofico

2022 Pensare il presente, immaginare il futuro

La complessità della situazione reale che ci circonda, sulla quale influiscono processi di globalizzazione, dinamiche geopolitiche, l’istantaneità delle comunicazioni e lo sviluppo di una pervasività digitale senza precedenti, pur richiedendo soluzioni e adattamento sempre veloci e incisive, richiede anche un supplemento di riflessione, un pensiero lento e paziente, capace di tracciare un profilo di senso unitario, al di là delle notizie, distorte, multidimensionali e spesso allarmistiche offerte dagli organi di informazione.

L’oggi è il tempo che più di ogni altro ci appare attraversato da una crisi radicale, in cui lo stesso tentativo di attribuire senso alla realtà si scontra con l’assoluta mancanza di ogni significato.

“(…) tutt’altro che eliminata la minaccia nucleare, sempre in atto la politica di rivalità tra le grandi potenze, non spenti pericolosi focolai di guerra, ancora in atto guerre coloniali, tre milioni di uomini morti di fame ogni mese nel mondo, per nulla superate anche negli stessi paesi evoluti sperequazioni e attriti di classe, di razza, persino di regione. La civiltà di questi ultimi sembra essere caratterizzata dal prepotere del consumo, anzichè dal rispetto della dignità e dalla preoccupazione di liberare l’uomo.”

Calendario e argomenti degli incontri:

Martedì 7 Giugno ore 17.30
Sull’orlo del precipizio: affrontare la complessità del presente

Società, informazione, cultura, politica, tecnologia, lavoro, giovani, educazione, economia, nessuno di questi ambiti si può dire al riparo da un’idea di crisi che permea tutto il nostro mondo della vita quotidiana e il nostro pensare la realtà. La nostra visione del mondo appare velata da uno schermo di mancanza di senso o peggio da una privazione di prospettiva.

Martedì 14 giugno ore 17.30
Infosfera e nuovi linguaggi: il labirinto della rete

Soggetti di dati, siamo così definiti anche dalla UE – l’algoritmo fa le veci nell’odierna società del conosci i te stesso, è Socrate nell’ipersfera,  perché ti analizza personalizzando la tua offerta in rete. Flussi di dati elaborati da un algoritmo che li rielabora in discesa a mia forma. L’algoritmo saprà cosa io desidererò domani. L’algoritmo sarà me stesso.

Martedì 21 giugno ore 17.30
Nello sciame. Rivoluzione digitale e informazione nella cultura contemporanea

“La tecnologia sta portando alle estreme conseguenze, con risultati paradossali e paralizzanti, alcuni miti e concetti fondativi: identità, anima, libertà, tempo, morte”

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ambiente, Attualità, pratica filosofica

2022 Dialoghi di cittadinanza. La sostenibilità sociale dell’Agenda 2030.

I Dialoghi di cittadinanza nascono nella primavera del 2017, come progetto di pratica filosofica di gruppo in contesti pubblici. L’occasione era la rassegna chiamata “Patentino di educazione alla cittadinanza”, proposta e patrocinata dall’amministrazione di Cavallino – Treporti, comune litoraneo della Città Metropolitana di Venezia. Questo percorso, nato nel 2016, è giunto perciò alla  settima edizione. Gli appuntamenti in programma si tengono nel periodo primaverile, con cadenza settimanale e seguono un tema comune di attualità culturale o socio/politica stabilito e proposto di stagione in stagione; quelli finora affrontati sono stati: Individuo e società, Res publica e partecipazione, Post verità e false verità, L’uomo e l’agire nella società. Nel 2021 il tema è stato Pensare per uno sviluppo sostenibile.

Il 2022 vede ancora l’Agenda 2030 come tema guida nel suo aspetto sociale. In questo senso questi incontri cercano di mettere in luce gli aspetti meno toccati dell’Agenda, ovvero il sociale nelle sue declinazioni: le relazioni: l’altro, la politica, la società, partecipazione e cittadinanza. Il digitale:  l’oltremondo, il metaverso, l’infosfera. Il pensiero:  Quale ruolo ha l’uomo nel mondo?

Questi gli spunti per questi Dialoghi di cittadinanza 2022.

Il 24 marzo il primo incontro. Problematizzare l’Agenda 2030. Per un pensiero ecocentrico. Che cosa significa ecocentrismo? E problematizzare? E’ una delle caratteristiche della pratica filosofica , non dare per scontato nessun assunto se non indagato con ragione. Ricercare i problemi inerenti ad un determinato fatto o argomento. Proporre più ipotesi. Disambiguare. Pensare in modo alternativo. Vedere in altro modo.

Il 31 marzo il secondo incontro. Etica digitale e complessità, affrontare la complessità attuale mediante un approccio etico al digitale cura di Pamela Boldrin. Laureata in tecniche di neurofisiopatologia nel 2004 all’Università di Padova, in filosofia nel 2013 a Ca’ Foscari Venezia. Ha conseguito il titolo di perfezionamento in bioetica presso l’università di Padova nel 2016. Insegna bioetica all’università di Padova e scrive di scienza e bioetica

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Filosofia

Empedocle. Cuore noematico, sovraumano intelletto.

“Il suo sguardo non è quello ossimorico, distaccato e severo di Eraclito, né quello apollineo e contemplativo di Parmenide. Empedocle è sapiente e poeta, conosce e vibra. E sogna. E prova nostalgia. Sogna un mondo non travagliato da Contesa, un mondo retto dall’armonia di Amore; prova nostalgia per la perduta natura divina dell’uomo, che va riconquistata attraverso la conoscenza, lontano dalla via funesta di Contesa, e nostalgia per la pace e l’unità della natura originaria, cui la morte mistica può condurre”, scrive Angelo Tonelli, che ha tradotto i Frammenti e testimonianze di Empedocle per Bompiani (2002).

Sovraumano intelletto – lo definisce Lucrezio nel De rerum natura. Empedocle nacque nel 492 circa ad Agrigento. O anche per la natura mistica e divina che lo circonfonde si disse che apparve presso le rive dorate del fiume Akragas. Fu – in termini odierni – pensatore, ingegnere e scienziato, iniziato e sciamano. Taumaturgo e mago disse Hegel.

Empedocle è una continua espressione dell’interiorità Mistica. È uno sforzo ininterrotto di fondere ciò che gli sta dentro  con ciò che lo circonda. Esiste la distinzione tra gli uomini quella tra gli uomini mediocri. La tirannia è invece l’imporsi di un uomo mediocre al di sopra di tutti i suoi uguali. E’ l’ultimo filosofo dei sapienti prima di Platone a scrivere in versi.

Disse: sono stato un tempo fanciullo e fanciulla, arbusto e uccello e  muto pesce del mare. Racchiude nel suo pensiero ascendenze orfiche e pitagorica nella credenza nella trasfigurazione delle anime e trasmigrazione nella condotta di vita secondo principi di purificazione ascesi e politica. Molti suoi versi e molte leggende che lo riguardano ci parlano di un mago, di uno sciamano che crede nella reincarnazione e si proclama discendente dalla stirpe degli dèi. Nel poema “Le purificazioni”, dice infatti: “Vengo a voi come un dio immortale, non più come mortale, da tutti onorato…”.

Nella sua filosofia, come in quelle degli altri Presocratici, non mancano elementi mistici: l’identificazione del nóema con il sangue, quindi con il pensiero pre-razionale. L’attimo della suprema conoscenza mistica in Empedocle è lo Sphaîros, lo stato di perfezione del mondo, in cui l’Amore ha la meglio sull’Odio e unifica i quattro elementi naturali confondendoli in una immobile sfera. Ma questa situazione dura un attimo,  inevitabilmente distrutta dal Neîkos che tutto infrange e separa, e così il ciclo del fenomeno ricomincia. La circolarità del tempo indica l’inesauribilità della fonte extra-fenomenica, che costringe le sue varie manifestazioni a riverberarla perpetuamente in cicli infiniti.

Empedocle individua nella storia dell’Essere 4 diverse fasi che si ripetono ciclicamente, dominate dalle due forze cosmiche. Nelle due fasi in cui c’è il completo dominio dell’Amore (tutti gli elementi sono unificati in completa armonia) e il completo dominio dell’Odio (regno del caos), non c’è vita. Quando l’Odio dissolve il tutto uniforme dell’armonia originaria, si attraversa una fase intermedia in cui le due forze coesistono, fino a sfociare nel regno del caos, da cui si esce quando l’Amore inizia a riconciliare gli elementi all’origine dell’Essere. La vita è possibile sono nelle due fasi intermedie, in cui le 4 radici origini dell’essere sono soggetti al divenire per via della guerra tra le due forze cosmiche.

La bellezza odia il fato terribile da sopportarsi. Il noema significa intuizione e non pensiero razionale.

Scrisse: “Il sangue che sta attorno al cuore è il pensiero degli uomini”

Il pensiero razionale è un fatto puramente cerebrale, non dà nessuna sensazione al petto: ciò che da questa sensazione è oltre che pensiero, sentimento ed intuizione. Qui tutto qui sta ad indicare una conoscenza mistica: prapides originariamente diaframma qui nel senso di cuore, è il luogo dove nasce per tutti i mistici  l’intuizione; il verbo è ereido, il cui significato è piombare su una cosa e stabilirvisi in modo definitivo esprime lo slancio entusiastico al tempo stesso la sicurezza di questo genere di conoscenza; epopteuo  è il termine tecnico ad indicare la contemplazione sopra razionale.

Giorgio Colli scriveva uno schizzo così: “I lontani Greci: α) Parmenide venerabile, β) Empedocle tragico, γ) Eraclito oscuro, δ) Platone divino, ε) La caduta dello spirito dionisiaco.” E ancora. “Lato mistico e lato politico nei Presocratici. Contraddizioni nelle dottrine presocratiche che si spiegano con il contrasto tra pura interiorità che li spinge al misticismo ed impulso ad esprimersi politicamente che fa loro creare i loro sistemi filosofici, li fa capi di scuole filosofiche e di sette religiose, educatori e comandanti politici.”

Plutarco ci riferisce che per Empedocle l’acqua è l’elemento dell’amore, Novalis scrive: l’acqua si mostra come elemento dell’amore della mescolanza dominando sulla terra il divino slancio pieno di bontà dell’amore immacolato.

Federica Montevecchi, curatrice dell’edizione Adelphi degli scritti di Giorgio Colli sul filosofo, scrive: Empedocle è dunque un misti­co che vive e considera come inseparabili la dimen­sione mortale e quella immortale, aspetti polari di una medesima natura la cui trascendenza è irridu­cibile a una spiegazione razionale.

Decide di attuare in Agrigento una sua polis di purificazione, una polis in cui l’odio venga eliminato per quanto si può su questa terra, e parla ai cittadini, accentua l’ascetismo pitagorico, li ama come un dio che ama gli uomini, guarisce le loro malattie perchè il dolore dell’umanità diminuisca e scrive per loro I canti di purificazione. (G. Colli, Filosofi sovrumani, 1939)

Dopo di lui apparvero Socrate e Platone.

Empedocle rientra nella storia materiale nel XX° secolo nel 1904 quando viene acquistato nel mercato antiquario di Achmim – l’antica Panopoli che è il nome greco di un’antica città dell’Alto Egitto conosciuta nell’Ellade anche come Chemmis o Khemmis e chiamata attualmente col nome arabo di Akhmim, sulle rive est del Nilo, patria del poeta Nonno – , un lotto di papiri egiziani che finisce in Germania. Nel 1990 Alain Martin uno studioso ipotizza la paternità di quello che diventerà in seguito il Papiro di Strasbourgo di Empedocle. Tale conferma sarà resa pubblica nel 1992. L’edizione critica sarà del 1999 spingendo il filosofo presocratico verso il nuovo secolo.

Scrive Volpi nel 1998: “Una sensazionale scoperta fatta nella Bibliotèque Nationale et Universitaire di Strasburgo dal grecista belga Alain Martin getta nuova luce sull’ enigmatico filosofo presocratico. In un papiro databile intorno alla fine del I secolo d. C. Martin ha identificato i resti di un libro antico di qualità contenente il poema Sulla natura di Empedocle, che offrirebbe la prima trasmissione diretta dell’ opera, antica di 2500 anni, restituendocene insperatamente ben 74 esametri. Martin ne ha curato l’ edizione e il commento insieme all’ antichista tedesco Oliver Primavesi: L’ Empedocle de Strasbourg. Introduction, édition et commentaire, de Gruyter, XII-396 pagg., 6 tavole. La storia del prezioso papiro si perde nella notte dei tempi, ed è difficile ricostruire con certezza tutte le tappe del miracoloso cammino che lo ha portato fino a noi. Si sa che nel 1904 esso fu acquistato dall’ archeologo tedesco Otto Rubensohn per conto del “Deutsches Papyruskartell” presso un antiquario nella città egiziana di Achmim, l’ antica Panopoli. Arrotolato e piegato a ciambella, il papiro fu utilizzato come sostegno rigido per una corona funebre, assieme alla quale venne comperato. Quando fu tolto dalla corona e ridisteso, si lacerò in 52 frammenti. Finì, illeggibile, a Berlino, dove si procedette all’ estrazione a sorte per distribuire tra gli enti partecipanti al “Deutsches Papyruskartell” i materiali raccolti dalla spedizione. Gli inservibili lacerti del papiro furono assegnati alla Biblioteca di Strasburgo, allora sotto l’ impero tedesco. Qui furono “provvisoriamente” catalogati con la sigla P. Stras. gr. Inv. 1665-1666, in verità definitivamente abbandonati al tempo e alla polvere. Fino a quando, nel 1990, sull’ inestimabile reperto ha messo gli occhi Martin, che è riuscito a ricomporlo e a individuare, nella primavera del 1994, l’ autore dei versi.

img: (Empedocles Philosfus stampa del Remondini, Bassano) wellcome collection org

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Filosofia

Sapere aude #PhilosophyDay20

Nel 1784 Kant scrisse un articolo rispondendo alla domanda “Che cos’è l’Illuminismo?”

«L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo”»

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Attualità

Venezia vista dall’acqua.

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“Città ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura” (Francesco Petrarca ad un amico 1321)

Henry James, “Scrivere a Venezia è difficile perché il mondo non ha bisogno di ulteriore bellezza.”

Βενετιϰή, Venetica, Venetia, Bunduqiya, Wenecja, Venetsia, ΒενετιϰόϚ, Venedig, Benetki, Venèsia.

Nel 1500 “Venezia, “trionfante”, è una città unica, miracolosa. Ogni città-stato italiana si dice in realtà singolare, ma di tutte Venezia si dice, ed è detta, la più singolare” scrive Elisabeth Crouzet-Pavan nel suo  Venezia trionfante. 118 isole, 150 rii o canali, circa 400 ponti. Un tempo regione augustea, “dalla Pannonia all’Adda”. La grande Venezia, (Regio X Venetia et Histria con l’Istria) di epoca romana, scomparve pare nel 569 d.C. lasciando lo spazio alla seconda Venezia come viene chiamata dallo storico venetico più antico, Giovanni Diacono, quella che noi oggi così conosciamo.

Venezia nel mito vanta diverse date di nascita e fondazione, impossibile distinguere e provarne una per certa. Forse il 421 con la fondazione (improbabile) della Chiesa di San Giacometto a Rialto,  o il  697 con il primo Dux Paulicio, esarca bizantino, o il  811 con Agnello Parteciaco (o Partecipazio), poi Badoer, che fonda a Rivoaltus il palazzo sede ducale, oppure la data dell’827 con l’arrivo del corpo di San Marco da Alessandria d’Egitto, oppure il 1063 la ricostruzione di San Marco e anche il 1082 quando Alessio Comneno con la Crisbolla sancì l’indipendenza da Bisanzio ma ancora c’è la data del 1094 con la nuova consacrazione della Basilica e  il miracolo del ritrovamento del corpo di San Marco o, infine, il 1297 ultima data possibile ipotizzabile con la serrata del Maggior Consiglio che fonda il patriziato veneziano.

Oggi Venezia è sommersa. Venezia sul crinale di un’era nefanda priva di equilibrio e di assennatezza. Venezia che oggi sta per esser piombata nel gorgo della forza di una natura debordante i vincoli umani; una Venezia in pericolo ove mancano però uomini attenti che, all’improvviso, la possano vedere e la salvino. Come Jaffier il traditore redento, salvatore e condannato, della tragedia di Simone Weil. O meglio, abbondano uomini e donne che seppur attenti prefigurano una spirale di visioni infauste ma non sanno come intervenire. Dilaga la psicosi del complotto. Dei presunti esperti, dello Stato, degli italiani, degli affaristi senza scrupoli, dei politicanti, della politica, dell’Europa. Venezia è perduta.

«Dio non permetterà che una cosa tanto bella venga distrutta. E chi vorrebbe far male a Venezia? Il nemico più implacabile non ne avrebbe il cuore. Che vantaggio avrebbe un conquistatore a sopprimere la libertà di Venezia? Solo qualche suddito in più. E chi vorrebbe, per così poco, distruggere qualcosa di tanto bello, qualcosa di unico al mondo!» (S. Weil, Poèmes)

Di questi tempi grami in cui l’acqua sembra voler inghiottire con voracità Venezia, quell’acqua marina che invade le rive e penetra da ogni pertugio, si assiste turbati a uno spettacolo naturale di violenza devastante e repentina, come l’onda di denigrazione e cinismo, rivendicazioni e odio e profonda insipienza, quella che ci sommerge come l’acqua.

Incuranti di calici screziati e legni antichissimi, di lamine dorate in tessere incollate, di colonne e pietre levigate, che ancor oggi sulla linea di riflesso dell’acqua che s’innalza risaltano di intatto splendore. Ignari di vetri soffiati, di ricami delicati, di frutti prelibati, di artefici alchemici alimentari.  Del tutto a digiuno di Venetia et Histria, di tribuni marittimi, di Magister Militum, di Cronaca Altinate, di Mauro e Aurio, di Santa Giustina alle Vignole, di Narsete, di San Teodoro, e di pirateria adriatica, di Istria e Dalmazia. Dei Gritti, dei Pisani, dei Grimani, dei Contarini, dei Morosini, degli Zorzi. Di Veronica Franco e Isabella Cortese. O di Elena Lucrezia Cornaro. Di Interdetto papale, di congiura di Bedmar, di Marino Falier. Di narentani ed Uscocchi. Di Napoleone, di sale e di vino e di olio. E di Carpaccio, di Tiziano, di Giorgione, di Tiepolo e Tintoretto, di Paris Bordone e Cosmè Tura. Di Scamozzi, Sanmicheli, Palladio, Sansovino. Di Candia, di Zante, di Rettimo, di Zara, di Scutari e Durazzo, delle Tremiti, di Cipro. E di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, che ne sanno?

“Beauty is difficult”, la bellezza è difficile. Ezra Pound nel 1908 a Venezia con 80 dollari in tasca pubblica a sue spese la prima raccolta di poesie, A Lume Spento, cantando il sole veneziano, Alma Sol Veneziae. Pound cantava Venezia nella sua Litania notturna «O Dio delle acque, / monda i nostri cuori dentro di noi, / E le nostre labbra per lodarti. / Perché ho veduto / L’ombra di questa tua Venezia / rifrangersi sulle acque, / E le tue stelle // L’hanno veduto dal loro corso remoto / Hanno veduto questa cosa, / O Dio delle acque, / Come sono le tue stelle / Silenti nel loro grande moto, / Così il mio cuore / è silente dentro di me». Quella di Pound, nelle prime poesie veneziane, è una Venezia solare, portatrice di energia, di vita, non di morte come quella di Thomas Mann.

E nel nome della bellezza, platonicamente, la città è cresciuta, generata nella e dalla bellezza, partorita nel bello secondo il corpo (la materia povera delle lagune) e secondo l’anima, (il credo ortodosso cristiano) culla di filosofia a Padova, lo Studium Patavinum, o alla Marciana, di Marco colma di testi antichi, oggi biblioteca nazionale. Che ne sanno oggi dei viaggi di Dante, Petrarca, Leone ebreo,  Erasmo da Rotterdam, Paolo Sarpi, Galileo Galilei, Giordano Bruno (arrestato a palazzo Mocenigo a S. Tomà e portato a San Domenico di Castello), Hobbes,  Rousseau (che vive ai Tre Archi di S. Giobbe), Goethe che arriva dal Brenta in Burchiello, Schopenhauer, Nietzsche che va al Lido a fare i bagni con il fidato Koselitz/Peter Gast, J.P. Sartre, Luigi Stefanini e il filosofo Giuseppe Rensi che cerca una stampa del Cavaliere Solitario, nella città più bella del mondo?

L’antica basilica di San Marco porta scolpite e composte nei marmi, da Bisanzio, le sacre e ieratiche figure di santi e le narrazioni evangeliche che portano a Dio come ad un’ascesa spirituale. I veneziani vollero ancorare al sacro mistero cristiano la loro sorte terrena. 9000 metri quadrati di lamine e tasselli d’oro di vetro e ricoperti con una sottile foglia  da 24 carati, sulle cupole dell’Emanuele, dell’Ascensione e della Pentecoste dove troneggia la Colomba Bianca simbolo dello Spirito Santo da cui scendono 12 fiamme di fuoco sulle teste degli Apostoli, ai piedi dei quali vi sono coppie di figure con il nome di diversi luoghi del mondo che rappresentano i popoli che ricevettero il messaggio di Cristo. Con l’aggiunta di una sagace scaltrezza che pose in Cripta i resti di Marco, il santo, fatto patrono. Dall’arte di Costantinopoli arrivano anche le 1927 pietre preziose della Pala d’Oro. Rubini, smeraldi, topazi, perle, corniole, zaffiri, ametiste, agate.

Rialto fu sempre luogo cardine della vita commerciale veneziana, fin dal 1200, e deve la sua configurazione alla natura di scambio e commercio gravante attorno alla piccola chiesa di San Giacomo, sotto i portici al cui riparo si trattavano merci di tutto il mondo conosciuto, (e dove nasceva una delle prime banche d’Europa) nelle cui locande alloggiavano mercanti stranieri, e nelle osterie si ristoravano cittadini e forestieri. Il ponte cinquecentesco (fino al 1591 il ponte era in legno) congiungeva le due zone principali di Venezia: San Marco centro politico e religioso con le mercerie, e Rialto (Rivo Altus) primigienia sede della Nuova Venezia del 700 d.C. luogo di traffici, accordi, commerci. Alvise Zorzi lo considera “il più straordinario crogiolo di lingue, di popoli e di razze e, insieme il più variopinto centro d’affari che si fosse mai visto dopo la caduta di Costantinopoli”. Nella Drapperia o Draparia, nelle botteghe e nei botteghini antistanti gli orefici e i gioiellieri trattavano turchesi persiani e smeraldi indiani, cristallo di rocca e lapislazzuli afghani, rubini, zaffiri, corniole, topazi e diamanti, e da questi artigiani prese il nome la larga calle che fronteggia l’edificio del (fu) Magistrato alle Acque, nel cui cornicione d’angolo, verso il Ponte di Rialto, spicca una statua della giustizia con spada e bilancia, probabilmente d’epoca romana, simbolo di equità nei traffici commerciali. Rialto Mercato veneziano per eccellenza, con la sua Erbaria e le Beccarie, carne e verdure, e il vino veneziano che dà nome alle cantine di mescita, le Malvasie. La diffusione del vitigno e del nome venezianizzato  di Malvasia: dalla Grecia all’Italia, Istria e Dalmazia, Spagna e Portogallo. Si diffonde con la caduta dell’Impero Romano d’Oriente quando a Venezia tocca il porto fortificato di Monemvasia, ovvero Malvasia, i cui vigneti danno da sempre vino eccellente. Molte osterie della città lagunare cominciarono a vendere esclusivamente Malvasia, tanto da venir identificate con il termine stesso. Ancor oggi a Venezia calli e ponti ricordano questo vitigno e con il termine “Malvasie” si indicano i locali in cui si servono principalmente vini sfusi.

E poi San Pietro di Castello che fu prima Basilica cittadina, ad Olivolo, sorta nella metà del secolo VII, una delle isole che formavano la Venezia primigenia e bizantina, che custodisce la Cattedra di San Pietro, in realtà parte di un’antica stele funeraria islamica con motivi decorativi arabi e incisioni in cufico di versetti del Corano. A Grado stava il Patriarca di Venezia fino al XVI secolo quando si trasferì a San Pietro di Castello e lì restò fino al 1807. (San Marco era la cappella privata del Doge). L’altar maggiore, dov’è collocato il corpo del primo patriarca, San Lorenzo Giustiniani, fu scolpito l’anno 1649 con disegno di Baldassare Longhena. Lorenzo Giustiniani fu asceta e mistico, fondatore dei cosiddetti Celestini di San Giorgio in Alga, dall’isola dove si ritirò per vivere in comune con loro, riconosciuti poi come “Compagnia di canonici secolari” ordine monastico in seguito diffusosi in Italia ed Europa concordandosi alla regola agostiniana, fondato appunto nell’isola di San Giorgio in Alga, fulcro della spiritualità lagunare, situata a nord della città affacciata sul Canale Vecchio di Fusina che da Venezia prosegue sino all’imbocco del Brenta, oggi isola totalmente depredata e abbandonata, ridotta a pochi ruderi circondati di rovi.

La Laguna luogo di eremi e di mistici. Come il soggiorno, forse leggenda, nel 1220 di Francesco d’Assisi di ritorno dall’Oriente e dalla Quinta crociata, o dall’Egitto. Anche se rimangono molti dubbi sulla veridicità del fatto certo è che nel 1228 il patrizio Jacopo Michiel, proprietario dell’isola detta Isola delle Due Vigne, accordandosi con Sant’Antonio da Padova, ministro provinciale, fece erigere una chiesa a nome di San Francesco. Questa risulta essere la prima chiesa dedicata al santo, dove campeggia il motto: “Beata solitudo, sola beatitudo”

E di Venezia e della sua natura bizantina si può intendere dalle leggi superstiti e dalle consuetudini che acquisisce dal morente impero romano d’Oriente, dopo esser stata lido romano, tra Lio Piccolo ad Altino, sotto Aquileia, all’avvicinarsi del nuovo millennio, verso l’anno mille. Il diritto romano e le antiche leggi riformate da Giustiniano rientrarono subito in vigore nei territori lagunari dipendenti da Bisanzio. Come intendere altrimenti la consacrazione della cattedrale di Torcello alla Madre di Dio, Theotokos secondo Efesi 431 e il Cristo pantocratore che domina le cupole nei mosaici a San Marco? Grazie al suo passato greco-bizantino visibile ad ogni angolo e grazie al suo ruolo di mediatrice tra Est e Ovest, Venezia è il simbolo della coabitazione umana e di civile convivenza. Dalle sponde della Serenissima il viaggio verso Oriente, per terra o per mare (dall’Adriatico, allo Ionio, all’Egeo) si svolgeva attraverso un cammino che conduceva sulla via delle Indie o verso Costantinopoli. Un itinerario ricco di suggestioni, fortemente attraente, altamente rischioso. L’Oriente, rappresentò il luogo più indicato per la “formazione” diplomatica e per l’esercizio della buona pratica mercantile dei giovani patrizi che usualmente si dedicavano ai commerci dopo gli studi filosofici a Padova. Le Relazioni presentate al Senato dagli ambasciatori di ritorno dalla propria missione informavano le autorità cittadine sugli esiti dell’incarico politico svolto presso la corte del Sultano e non tralasciavano impressioni o valutazioni ricchissime di notizie.

L’oratorio di Santa Fosca a Torcello costruito in fasi diverse tra il IX e il XII secolo, è l’edifico veneto bizantino, forse il più romanico di Venezia: di perimetro ottagonale ha una pianta a croce greca con il braccio orientale più sviluppato e triabsidato, la chiesa è porticata su cinque lati e ha un volume centrale più alto, cilindrico, tipico delle costruzioni medievali religiose italiane. L’isola fu primigenia sede vescovile dei veneti in fuga da Altino, porto romano interrato nel tempo e attaccato dai barbari. Fosca, vergine e martire, le cui spoglie furono trasportate dall’oasi di Sabratha in Libia in Laguna nel 1011, nacque a da una famiglia pagana di Ravenna, quindicenne volle diventare cristiana con la propria nutrice Maura e insieme si fecero battezzare. Si dice che “Il padre Siroi, contrario a questa scelta, denunciò la figlia al prefetto Quinziano, ma la polizia, al momento dell’arresto, arretrò spaventata, dal fatto che la trovarono in compagnia di un angelo.” Furono arrestate, processate e torturate, infine decapitate il 13 febbraio, i loro corpi  gettati in mare o trafugati da marinai e trasportati in Tripolitania dove ebbero sepoltura nelle grotte presso Sabratha (oggi Saqratha).

Venezia porto sicuro per profughi ed esuli, come l’isola di San Lazzaro degli armeni e gli ebrei del Ghetto. Fu rifugio offerto nel 1717 quando la Serenissima accolse i monaci profughi fuggiti dalle persecuzioni turche. L’isola conserva l’antica stamperia e un prezioso sarcofago egiziano. Dalla Riva degli Schiavoni (luogo di sbarco dei profughi istriani, giuliani e dalmati nel 1947) si raggiunge con la linea 20 del vaporetto, seconda fermata dopo l’isola San Servolo, dove c’era il manicomio. A San Lazzaro veniva a meditare lord Byron, «amico degli armeni» di cui volle imparare la lingua. I mercanti partiti dalle pendici dell’Ararat, il monte di Noè, erano presenti in città fin dal Medioevo, come attestano gli antichi toponimi. Ruga Giuffa, non lontano da San Marco, era il quartiere dei mercanti armeni provenienti dalla città di Julfa, ora in Iran, prospero centro sulla Via della Seta. il Sottoportego degli Armeni, nei pressi di San Marco, nasconde la piccola chiesa di Santa Croce e il minuscolo campanile del XIII secolo, un luogo misterioso e arcano che sembra uscito dalle strisce di Corto Maltese di Hugo Pratt, il veneziano artista del fumetto. Qui si raccoglievano i mercanti per ascoltare la messa con la liturgia armena, di molto anteriore al rito latino romano. E se vogliamo essere pignoli  con il termine “armelin” i veneziani chiamano le albicocche, frutto onnipresente in Armenia.

Fu la  Quarta Crociata che portò a Venezia un vero e proprio impero coloniale e sancì la sua egemonia su tutto il Mediterraneo orientale: la città lagunare arrivò a controllare gli stretti, l’ingresso nel Bosforo e tutta la rotta marittima dalla laguna veneta fino a Costantinopoli. La repubblica marinara controllò principali porti dell’Ellesponto e del Mar di Marmara, dei centri strategici del Peloponneso oltre che di Ragusa e Durazzo. Tra la metà del ‘400 e fino alla caduta Venezia stringeva accordi anche nelle isole Ionie, e Creta, che comprò da Bonifacio, controllava così la maggior parte delle isole dell’arcipelago e la città di Adrianopoli, centro nevralgico della Tracia imperiale. Le isole Cicladi non facevano parte dello Stato di Venezia, non essendo rette direttamente da magistrati dogali, ma la lunga dominazione veneta è testimoniata da numerose chiese cattoliche, resti di fortificazioni e di edifici adibiti a dimora anche in altre isole, soprattutto a Tinos e Syros, e poi a Paros, Andros, Santorini, (corruzione del nome Sant’Erini, che le fu dato dai veneziani in onore di Santa Irene di Tessalonica, martire del 304, a cui era dedicata la basilica di Perissa, località della parte sud-orientale dell’isola) Ios, Folegandros, Amorgos.

La Repubblica di Venezia fu uno dei più potenti e fieri stati dell’Italia preunitaria, ma attorno al 1500 la crescente potenza della città lagunare destava preoccupazione sia agli altri stati italiani che alle potenze straniere presenti nella penisola, ma soprattutto a papa Giulio II: a preoccupare il pontefice era la dichiarata volontà della Repubblica di espandersi verso la Romagna. Le trattative avviate dal papa contro Venezia coinvolgevano gran parte degli stati italiani ma anche le principali potenze europee. Tutti avevano dei conti da regolare con lo Stato marciano. Quando tutti si allearono contro Venezia e la sconfissero, consegnarono nuovamente l’Italia a stranieri vittoriosi. La “rotta della Ghiaradadda” fu un colpo terribile per Venezia; la ritirata di ciò che rimaneva dell’esercito marciano si arrestò solamente sulle “ripe salse“, ovvero tra Mestre e Peschiera. Le potenze della lega di Cambrai approfittarono della crisi veneziana per agire; le truppe pontificie conquistarono le terre romagnole, inclusa Ravenna, mentre nel sud la Spagna si riprendeva i porti pugliesi; il duca di Ferrara occupava il Polesine e Rovigo. Quanto a Luigi XII, questi annetteva al Ducato di Milano le città di Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Peschiera e la Ghiaradadda. Verona, Padova e Vicenza si ribellavano dandosi a Massimiliano I. Dalla paura di un’Italia unita e veneziana alla disgregazione e parcellizzazione straniera della penisola.

Venezia in conflitto atavico con la Roma papale. Perchè la Repubblica conservava con cura la propria autonomia. Il Vaticano esigeva privilegi speciali che Venezia non volle (quasi) mai concedere. Per le questioni territoriali con il Patriarcato di Aquileia. Per le contese territoriali e fluviali in Romagna. Per la negata esenzione fiscale agli enti religiosi, per la scelta –  sempre rifiutata dalla Serenissima ma da Roma richiesta – di poter decidere i titolari delle sedi espiscopali. Perchè Venezia non garantiva l’immunità al clero rispetto ai suoi tribunali. Per il controllo anche dei vascelli battenti bandiera vaticana operato da Venezia nell’Adriatico. Perchè la Serenissima rifiutò di applicare l’Indice dei libri proibiti sul suo territorio, e così per l’ospitalità distintiva della Repubblica per chiunque professasse fedi differenti: marrani, ebrei, protestanti, greci ortodossi, nonchè i turchi. Nel 1568 papa Pio V indirizzò implicitamente contro Venezia l’encicicla In Coena Domini, con la quale esigeva obbedienza incondizionata. (Venezia negò per un anno, dopo l’arresto nel 1592, l’estradizione a Roma di Giordano Bruno, poi capitolò). Infine si arrivò all’Interdetto del 1606, punizione ecclesiastica che interdice il culto e i sacramenti in uno Stato cattolico e che, per tale motivo, è considerata equivalente alla scomunica. La vicenda vedrà scendere in un accesissimo dibattito personaggi illustri come i cardinali Baronio e Bellarmino per la Santa Sede e Paolo Sarpi e Antonio Querini per la Repubblica veneta. La Repubblica dichiara le censure pontificie contrarie alle Divine Scritture, alla dottrina dei santi Padri, “in pregiudizio dell’autorità secolare donataci da Dio e della libertà del Stato nostro”. La contesa terminerà il 21 aprile 1607 con una “sconfitta” del papa appena velata: egli toglieva l’interdetto senza che Venezia prestasse un’adeguata soddisfazione, né rinunciasse alla sua presa di posizione sulla questione di principio.

Venezia nasce dalla paura e dalla meraviglia, nasce nel turbine delle invasioni straniere dei barbari Longobardi che si scatenò tra il V e il VI secolo sopra l’angolo nord-orientale della penisola italica. I primi veneziani in fuga, in cerca di un riparo sicuro, profughi, migranti veneti che si fanno pescatori, commercianti, a vanto della loro città divennero abilissimi costruttori anfibi di meraviglie in mosaico e pietra d’Istria. Diventano Venetici. Spirito, ingegno, onore e genio. Vendita del pesce e raccolta del sale crearono le prime fonti di ricchezza. Se non si presta attenzione alla difesa della libertà e dell’autonomia non si capisce Venezia. L’unicità di una città-stato costruita tra mare e laguna, sospesa tra terra e mare è tutta qui. A questo allude il suo simbolo, il leone alato (oltre che maestà, potenza, saggezza, giustizia, pace, forza militare e pietà religiosa quale simbolo dell’evangelista Marco) quello  cinquecentesco del Carpaccio che posa una zampa sulla terra e l’altra sull’acqua. E’ qualcosa di intermedio: un grande daimon. E la sua felicità, il suo buon demone, fu questo gioco di riflessi tra cielo, mare e acqua salsa. Una terra mobile che si colora e scompare, che si allaga e si secca, su cui il tempo sembra rallentare. Fermare il tempo, congelare l’ideale.

In quanto città eterna rappresenta l’immagine scolpita dell’impresa millenaria di una stirpe audace qual era a quel tempo la gente veneta. Venezia è una liturgia di amore uranico cesellata e sospesa nei secoli, figlia di penuria e ingegno, che seppe elevare un tempio su colonne di canneti e limonio. Per questo Venezia è città filosofica, straordinaria e peculiare, perché come ricorda Diotima nel Simposio platonico, come Eros che è filosofo, e ha come madre la mancanza, la privazione, Penia, che mendica avanzi dal banchetto degli dei, suo padre è ingegno, Poros, che è figlio di sapienza e scaltrezza, così Venezia costruita dal poco o nulla della barena limo-argillosa, “suolo salso” altamente clorurico, diventa città d’oro, con ingegno e inventiva  straordinari. Si può ignorare l’incuranza verso un bene così prezioso, verso un frutto eccelso dell’ingegno romano, veneto e italico, così delicato e fragile?

“La bellissima e meravigliosa realtà di Venezia va oltre la più stravagante fantasia di un sognatore. L’oppio non riuscirebbe a creare un posto come questo, e un posto così incantevole non potrebbe venire fuori neppure da una visione.Tutto quello che avevo sentito, letto o fantasticato su Venezia è lontano mille miglia. Sai che tendo a essere deluso quando si tratta di aspettarsi troppo ma Venezia è sopra, oltre, al di fuori dell’immaginazione umana.” (Charles Dickens ad un amico 12 novembre 1844)

“Venezia vista dall’acqua” è il titolo di un volume di G. Piamonte pubblicato nel 1968 dalla fu casa editrice stamperia di Venezia.
img: ©Stefano “Steve” Soffiato 2018
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Filosofia, Linguaggio

#3 Post it. Un cibo dell’anima. Philosophica Philologica.

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Post it. Brevi postille filosofiche e non.

Linguaggio e filosofia. Logos e sophia, pragma e thauma.

«Il latino, dunque, come paradigma di un parlare illustre, non confuso, e perciò condizione di un vero colloquio, di un fare e agire coerenti e responsabili. La filologia ‘ama’ un tale linguaggio, ma è ben cosciente di non poterne mai raggiungere l’efficacia. Come il testo di cui abbiamo cura, in tutte le accezioni del termine, rimane sempre anche un ‘tesoro nascosto’ così il latino che amiamo non potrà mai essere perfettamente nostro. Un cibo dell’anima, lo chiamava Valla di cui non potremo mai saziarci. Il latino educa questa la sua funzione: trarci fuori dal parlare disordinato, incoerente dalla decadenza in cui è caduto linguaggio, e che è il segno più drammatico della decadenza della cultura tutta. (…)

Esso dovrà servire ad armarsi di un logos capace di significare con precisione e di comunicare universalmente. E questo ora nel nostro presente. La parola, approfondita nel suo etymon, sotto il profilo sia linguistico che semantico, vale in quanto esprime la più ferma intenzione a designare ordinate la cosa.  De re agitur. E tuttavia nessuna cosa, mai, potrà essere conosciuta dall’uomo se non attraverso la potenza del linguaggio dono divino. Qui sta davvero l’acquisizione filosofica fondamentale dell’Umanesimo: non abbiamo a che fare con dati ai quali adattare convenzioni linguistiche, come un abito a un corpo. Abbiamo a che fare soltanto con fatti e cioè eventi, situazioni, che sono in quanto da noi espressi interpretati, agiti. Si tratta della cosa che il greco chiama pragma. Tale filologia ha in sé il germe, e più che il germe, di qualsiasi futura ermeneutica. (…)

La philia per la storia e il significato della parola, come di una potenza che attraverso il nostro atto di parlare, continuamente si esprime, e che pure sempre ci trascende, potenza che proprio nell’immaginazione artistico – poetico perviene al suo culmine appare essenzialmente affine a quella per la sophìa;  verso entrambi, logos e sophìa, rivolgiamo il cammino, e di entrambi siamo sempre mancanti: un abisso si spalanca appena ci apriamo al thauma anche di una singola voce, e mai riuscirà un discorso a determinare l’essenza stessa in sé di qualsiasi cosa. Tuttavia proprio nel cammino, nell’aprirsi la strada, più terso e vivo diviene il linguaggio, più critico il modo in cui ne affrontiamo la storia e  gli autori (…), più forte il nesso fra ratio e oratio,  più feconda l’invenzione di motivi e immagini in cui esprimerlo.»

M. Cacciari, Philosophica Philologia. La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi 2019.

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Attualità, Etica, Filosofia, Politica

1968/2018. Tristesse, nostalghia, ex e post.

L'incompiuta di Brendola (foto Pippowsky su Flickr)incompiuta-2

“Homo saecularis parla con molte voci, spesso divergenti. Quella che più si fa notare è progressista e umanitaria. Applica precetti di eredità cristiana, ammorbiditi e edulcorati. Soluzione tiepida e pavida, si combina, in senso inverso, con il movimento in corso nella Chiesa stessa, che cerca sempre più di assimilarsi a un ente assistenziale. Il risultato è che i secolaristi parlano con compunzione da ecclesiastici e gli ecclesiastici ambiscono a farsi passare da professori di teologia.” (R. Calasso, L’innominabile attuale 2017)

L’impensato attuale, il modernismo progressista ed umanitario. Caddero i muri, scomparve la grande Idea, oggi le piccole idee si chiedono come mantenere una posizione che puntelli il ricordo della storia personale e generazionale e che allo stesso tempo attenui il rimorso, il risentimento e i rancori. Piccole idee derivate che vogliono una seconda opportunità dalla storia che però è finita. Stante che il marxismo è oggi solo un modo fra gli altri per non comprendere il mondo, un nuovo realismo dopo il post modernismo ci insegna ad accertare la realtà, non ad accettarla, (quindi il post modernismo si caratterizzava come accettazione passiva dell’esistente?) il nuovo realismo spiega che l’oggetto sociale non è il reale, l’interpretazione non è un luogo comune e condiviso dato una volta per tutte, è uno schema concettuale che non dimostra il mondo ma si offre alla pluralità relativista e omnicomprensiva della doxa, fallacia argomentativa: come dire che accertiamo e attestiamo lo status multiverso del reale? L’approccio è realitystico, cioè siamo spettatori passivi, osserviamo le res humanae  come al microscopio si osservano le cavie da laboratorio prefigurando ipotesi ermeneutiche? Guardiamo il mondo mangiando i popcorn? Dopo 2500 anni? Non episteme, che sta sopra, ma sub specie, suburbe, nel flusso di in-coscienza volontaria, nell’inferno artificiale. Infatti assistiamo ad una realtà che non si presta alle nostre costruzioni concettuali. Giustificazionismo, arrendismo e alleatismo, ismi e quindi parvenze di logos, che rinfocolano idee stantie  e ammuffite, che se ancora si corazzano nel radicalismo, pur se con la pancetta imbiancata e non con il turgido eskimo, di questo essere radicali non danno che uno sbiadito concetto decostruito di attestazione anti sistema, (ma non come soggetti cinicamente oppositivi ma dalla parte degli integrati corporativi) sistema che nel frattempo da american saudita è diventato euro usa asiatico, a est e a sud. Si cercano agganci a destra e a manca. Intanto la storia è finita: non più un ieri e un domani fermi, certi, apodittici, radiosi e scientifici ma solo un infinito presente da interpretare. Si interpreta con le archeologie dei dispositivi di potere come osservando un fenomeno da lontano con lenti psico, bio sociologiche mai filosofiche, si inanellano multilingue catene etimologiche che velano un incerto argomentare ma fanno massa a-critica, tutta da modellare a piacimento, si mutua un lessico qui e uno lì,  tra procedure, competenze e protocolli. In particolare si scorge nella corrente teologica politica, quella piccola idea che appare e scompare che sente sensibilmente la mancanza di una dio politico normatore e paterno che assoggettava il reale e incanalava i desideri, una volta era il mondo sovietico e l’Idea marxista, oggi è un Moloch mainstream tecno social privo di un referente politico, in cerca di un nuovo dio in grado di porsi come antidoto al real potere americano/saudita che tutto stringe. Si concede ammirazione alla fede per quel radicamento di cui non si fu capaci, e questo inchino si ammanta di improvvisati analisti teologici atei, in una nuova alleanza con i loro santi laici, che tra poco riconosceranno nella teocrazia islamica il modello migliore per la globalizzazione, modello ideale di assoggettamento e potere, di riduzione arazionale del soggetto, di privazione di pensiero e di riduzione in minorità, un mondo perfettamente binario: le masse di schiavi brutalizzati nell’anima e la colta élite dei moderni muezzin kinici. Sono già pronte schiere di muti complici (i soliti banali del male) di tutti gli apparati politico-ideologici che hanno posto Grandi Mete, Grandi Idealità, come fini ultimi del loro agire politico e si sono sempre rivelati strumenti di asservimento delle coscienze individuali, repressione e anninentamento che agivano in nome di un cosiddetto Bene, facendo però il Male. Perché è tutta una macchinazione dell’ente contro l’essere, machenschaft! direbbe l’omino con i baffi e  le brache alla zuava.  E quando il radicalismo fallisce o diviene insufficiente, emerge la mistica della protesta. E’ l’ammirazione per i vincitori con un amaro retrogusto di invidia. Chiaro esempio di dissonanza festingeriana. C’è chi innalza il conflitto a valore, l’eternamente polemico, per auspicare l’uscita dal tempo del potere, destinale anarchico errante sterile, rivendicando lo stupro dello jus. Se la realtà fa schifo peggio per lei, delegittimiamola. Dopo gli abusi ripetuti e le sevizie della storia nazional comunitarda si aggrappano alla critica dell’idea nazionalistica populistica, facendo finta di non sapere che furono i loro idoli a declamare il valore della piccola patria, quelli della “fabbricazione di cadaveri nelle camere  gas e nei campi di sterminio” o gli speculari del Bratstvo in enotnost, mentre sigillano fosse ricolme di corpi, del radicamento nell’heimat, del  blut und boden, dalle meravigliose mani e dall’intima grandezza del rosso e nero popolar nazionalismo, dixit. Popoli del mondo disunitevi! Idee e concetti comunque ed inevitabilmente e sfacciatamente e inesorabilmente ciechi, sordi e muti alle persone, all’essere umano, al povero diavolo di uomo, al singolo, al particulare,  con una faccia e una voce, e alla sua coscienza individuale, al suo spirito, al suo essere soggetto, orribile bestemmia, perché i soggetti della storia sono solo le Idee e le Grandi Mete, (con le maiuscole) teleologia e ideologia, il singolo è un granello di senape. E noi vogliamo farci raccontare una storia, ancora una volta, illuderci, credere e combattere per un’ideuzza, che ci appaia come una grande narrazione. Quindi sì allo story-telling da tisana davanti al caminetto. Dal “chi critica ha sempre torto” a mo’ di giustificazione delle epurazioni partitiche, all’apologia acritica del criticismo. La vecchia idea europea la vogliono all’ospizio, con loro. C’è la parte che nominalizza la massa come moltitudine, che è capace di Idea ma in formazione polivalente, un po’ troppo autodidatta che va ricondotta all’ovile, il super-rivoluzionarismo celodurista a tempo pieno,  per cui essa è ancora senza testa e quindi potenziale numero in grado di essere maggioritario, e lasciano intendere di essere in potenza gli ideali filosofi di questa nuova società platonica (oggi riverdisce rumorosa sugli Champs-Élysées in giallo fosforescente e catarinfrangente). O i teorici del leader “ombra”, del soggetto collettivo. Temono la verità, premono sul realismo e deprezzano il popolo quando scade in un “populismo” che non sia il loro, che peraltro non sanno generare e quindi invidiano l’altrui. Idee e suggestioni della grande nostalgia degli ex di un mondo eterodiretto, da un principio, da un principe, dall’Idea, dal salvatore mundi, da baffoni e baffini. Nostalgia metafisica della dialettica materialistica, dalla consecutio al cupio dissolvi. Se proprio proprio si impegnano questi umanisti secolari riescono perfino a dirsi al massimo SBNR, acronimo per chi non vuole definirsi né ateo, né agnostico ma intende suggestionare una qualche residua spiritualità. Ladri di sogni e di futuro, nichilisti del presente. Celebranti della società secolare, ultimo quadro di riferimento per ogni significato. Internazionalisti senza classe operaia, universalisti no profit. Si mescolano suggestioni residuali come ingredienti di un minestrone intellettuale che nessuno assorbe ma alcuni attendono messianicamente dai guru del post (o dei post, facebuc). Intanto queste piccole  idee organizzano festival e colonizzano le vuote stanze dipartimentali convinti di tessere trame epocali per adepti carbonari di un logos esoterico. Eco in un sepolcro svuotato. Nessun “Veni Creator Spiritus”. Nell’uscir fuori da sé si perdono perché non hanno un fuori ma solo un dentro asfittico, afasico e desolante. A-progettuale perché cinico sloterdijkianamente. Piantando paletti non riescono a superarli, non possono andare oltre perché un oltre per loro non c’è. Più.

img: pippowsky su Flickr (Duomo di Brendola detto l’incompiuta, Vicenza, 1931)

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Attualità, Etica, Filosofia

La vita vera: le nuove ragazze di Badiou.

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Il libretto La Vera vita di Alain Badiou (109 pp. 12,00 euro – Ponte alle Grazie 2016) strizza l’occhio ai giovani e già questo potrebbe esser sufficiente, ai destinatari, per snobbarlo con sdegno e metterlo da parte, data la loro nota repulsione verso chi dispensa consigli, vieppiù se anziano, come l’ottantenne autore francese.

Eppure Badiou parte bene, con il richiamo a Socrate che fu “condannato a morte sotto capo d’accusa di «corruzione della gioventù» (…) il mio fine è corrompere la gioventù”, bene nel senso che è positivo il richiamo socratico – anche se a vedere bene il messaggio del primo filosofo fu un richiamo etico e individuale: invitò all’opposizione critica e al mettere in discussione il dato comune, oltre che a indagare la propria anima –  pur ricordando che quella di corruzione dei giovani fu l’accusa dei giudici ateniesi, ma tant’è non cavilliamo. In ogni caso Badiou la fa sua.

Il filosofo francese prosegue con un’originale analisi del lascito socratico-platonico concentrato in un’unica citazione della Repubblica di Platone, un dialogo tra Socrate, Glaucone e Adimanto che indica in coloro che con disinteresse, istintivamente, si consacrano alla difesa alla comunità, al servizio pubblico, contro coloro che lo fanno per interesse e tornaconto personale. Una citazione in cui Badiou introduce il tema della vera vita, che il filosofo intende come il vero tema della filosofia, vera vita che riprende da Una stagione all’inferno (1873) di Rimbaud, (“La vera vita è assente.”).

Il poeta con questa locuzione intendeva ciò che manca, quel che è assente nella quotidiana lotta della vita occidentale conformista e aderente alle regole sociali, cioè una vita piena, una vita fatta di passioni, istinti, naturalezza, libertà; il poeta la scrisse quando deluso dal tentativo di inverare nella vita la sua idea di poesia con Paul Verlaine ritorna all’odiata città natale Charleville e scrive il poema in cui ricorda la vita errabonda a Parigi  e la fuga in Belgio con l’amico poeta. La consecutio tra la vera vita rimbaudiana (sregolatezza di tutti i sensi, passione, anarchia) e quella socratica (i sensi ben saldi, regolatezza, saggezza, coscienza di se, sapere e eudaimonia) non è immediatamente leggibile e nemmeno intuitivamente, ma tant’è … Badiou la usa come espediente.

“Ecco la filosofia, il suo tema, è la vera vita. Che cos’è una vita vera? E’ questa l’unica domanda della filosofia. (…) E’ questo che la filosofia c’insegna, o comunque tenta di insegnarci: che se la vita non è sempre presente, essa non è neppure mai completamente assente. (…) In fondo, dice Socrate, per conquistare la vera vita bisogna lottare contro le prevenzioni, i preconcetti, l’obbedienza cieca, le consuetudini ingiustificate, la concorrenza illimitata.” Qui Badiou devia in un, forse voluto, vero e proprio travisamento socratico: “corrompere la gioventù significa una cosa sola: tentare di far e in modo che la gioventù non ripercorra i sentieri già tracciati, che non sia semplicemente votata a obbedire ai costumi della città, che possa inventare qualcosa, proporre un altro orientamento per quel che riguarda la vera vita”.

L’interpretazione qui proposta di Socrate, appare piuttosto originale o quantomeno un pò troppo figuratamente amplificata, il filosofo ateniese infatti pur accusato di empietà fu sempre categorico nello stabilire che le leggi della città vanno sempre rispettate, e quando accusato di corruzione dovette difendersi in tribunale chiese al suo accusatore di rendere conto di questa accusa (Mileto) ed egli non seppe replicare. Non c’è traccia – in Socrate – di un richiamo all’ignoranza del passato (anzi spesso richiama fatti e miti greci) come ritiene Badiou, (“che la gioventù non ripercorra i sentieri già tracciati”) e nemmeno all’inventiva dei giovani (inventare qualcosa, proporre un altro orientamento).

Socrate intende il suo agire in un modo solo: filosofare. Come leggiamo nell’Apologia platonica. “Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese, cittadino della Città più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnare il più possibile e della fama e dell’onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità e della tua anima, in modo che diventi più possibile buona?”

Qui Badiou pone il termine di paragone tra l’Idea e la contemporaneità, dove l’Idea è l’idea comunista e la contemporaneità è il domino del capitalismo. L’ultimo baluardo residuo che resiste alla crisi della Tradizione inaugurata da Marx è rimasto il capitalismo e la crisi attuale è la crisi dei giovani in questo mondo.

“Insomma io ritengo che il punto di partenza sia la convinzione di Socrate che la gioventù abbia due nemici interiori. Sono questi nemici interiori che minacciano d’allontanarla dalla vera vita, di non lasciarle riconoscere in sé stessa la possibilità della vera vita”

Badiou passa, più oltre, ad un’analisi del mondo giovanile. Il giovane contemporaneo ha due possibilità: vivere dissipando la vita, in una sfrenata realizzazione di immediatezza dei sensi, la “vita immediata”  (quella di Rimabaud?) oppure integrarsi nel sistema, diventare ricco, avere successo. Il giovane oggi ha più possibilità, di sapere, di fare, di scegliere ed ha meno vincoli, nessun rito di iniziazione, e gode del favore con cui nella società il giovane è tenuto, cioè il giovanilismo, contrapposto alla valorizzazione dell’età adulta/anziano. A questo punto Badiou abbastanza impunemente, introduce il concetto di opposizione tra Tradizione e modernità (un nuovo mondo) e a supporto di questa idea porta citazioni di Mao, Freud e Marx, con tutto il loro portato storico, aggiungerei. Infatti il tutto si complica in una nebulosa invettiva contro il capitalismo, di marca tardo marxista, con l’apoteosi in questo brano: “Questa convinzione – che chiamo a volte l’Idea comunista – dichiara che in seguito all’accettazione dell’inevitabile uscita dalla tradizione, e anzi nel medesimo movimento di quest’uscita, dobbiamo lavorare all’invenzione di una simbolizzazione egualitaria, che possa accompagnare, codificare, formare il sostrato soggettivo pacificato della collettivizzazione delle risorse, dell’effettiva sparizione delle diseguaglianze, del riconoscimento – a parità di diritti soggettivi – delle differenze e infine dl declino delle autorità separate di tipo statale.” Questo dopo esser riuscito a scrivere en passant di “provvisorio fallimento del «comunismo» di Stato nell’Unione Sovietica o in Cina” e a proporre un’”erranza orientata” (?)  contro il nichilismo imperante, “una bussola per trovare la vera vita, da un simbolo inedito”.

Ora, nessuno intende difendere un capitalismo indifendibile – com’è quello rapace di oggi – ma pretendere di trovare una soluzione, e per di più proporla ai giovani, nelle trite e funeste formule dialettiche e vuote dell’hegelismo di sinistra mi pare eccessivo, ammantarla di socratismo mascherato è un sovrappiù filosofico insopportabile. Mi pare un palese ritorno all’utopia immaginifica degli anni ’70 senza averne presente la lezione storica: aver mandato allo sbaraglio contro il “sistema” un’ingenua generazione europea con la maschera della ribellione, dell’emancipazione, della rivolta contro il mondo moderno,  senza vederne l’intima contraddizione totalitaria fatta di falsi miti libertari che ne costituiva l’essenza e senza nemmeno proporre una valida, produttiva e concreta alternativa sociale ed economica che esulasse dal funesto e feudale modello antisociale sovietico, che sostituiva allo Zar la nomenklatura e lasciava le masse povere uguali.

Badiou propone ai giovani un’arma spuntata, una moneta fuoricorso, vuote formule teoriche, un marxismo freudiano utopico.

Di conseguenza la parte forse più straniante è “A proposito del divenire contemporaneo dei ragazzi” in cui l’orda primitiva, l’assassinio del padre, la sublimazione del padre morto, la Legge, la partecipazione del figlio alla Gloria del padre, il padre simbolico, il corpo pervertito, sacrificato, (ma dov’è finito Socrate? ) parole vuote e agitate alla rinfusa, si sommano ad un’ incredibile elogio nostalgico (e al contempo una svalutazione dell’educazione e della scuola, “selettiva e votata al merito”)  del servizio militare come forma d’iniziazione. Si conclude con un patetico “Verranno, sulla scia del lavorio locale delle verità che la filosofia universalizza, la grazia, la frantumazione e la violenza nuova. (sic). Vivano le nostre figlie e i nostri figli!” Testuale.

Badiou si salva. Nell’ultima sezione del libro (titolo a parte) “A proposito del divenir contemporaneo delle ragazze” perché coglie nella ragazza – donna la riserva di futuro dell’umanità. Ciò che interessa il filosofo non è ciò che è ma ciò che viene.

Se la tradizione tramanda una quadruplice costituzione del femminile nella società, per la quale essa è/era Domestica, Seduttrice, Innamorata, Santa, nell’irrompere e nella corruzione  del simbolismo dell’Uno tradizionale , maschile, contemporaneo, l’uomo è schiavo e strumento di potere e di repressione capitalistica cui la Donna può oggi opporre “la logica del Due, del passare-fra-due, come ciò che definisce la femminilità.” La contemporaneità mostra una diverso configurarsi della ragazza, figlia, donna a patto che essa non accetti di interpretare il ruolo  che il “femminismo borghese e dominatore” sembra offrirle, quale “esercito di riserva del capitalismo trionfante”.

“Questa femminilità si oppone alla forte affermazione dell’Uno, del potere unico, che caratterizza la posizione maschile tradizionale. La logica maschile si riduce in effetti all’unità assoluta del Nome del Padre. Il simbolo di questa unità assoluta è del resto evidente nell’unità assoluta, e assolutamente maschile, del Dio dei grandi monoteismi. Ora, è quest’Uno che si mette in discussione, in maniera critica, nell’intervallo figurale in cui sta una donna.”

Al netto dell’ibrido e criptico, tipicamente lacaniano linguaggio psico analitico  che Badiou mescola ad una pur limpida scrittura filosofica, l’ipotesi dell’autore coglie nel movimento femminile in atto un  movimento storico, sociale e culturale reale e ne immagina gli sviluppi.

Se, come scrive Badiou a proposito dei ragazzi contemporanei,  il loro destino maschile è la sottomissione all’Idea capitalistica ma essi restano senza speranza poiché i loro modelli slittano tra l’alternativa che si pone tra quelli che l’autore chiama corpi (intesi come campi di soggettivizzazione) pervertiti, sacrificati e meritevoli. I primi pervertiti perché violati, segnati, scolpiti, abusati, auto disgregati; i secondi sacrificati perché rappresentano il modello tradizionalista, rigido, purificato, martire; infine il corpo meritevole quello adeguato, addestrato, sul mercato al miglior prezzo. Questi modelli di adattamento sociale sono tutti repressivi, riduttivi (questo rispetto al modello “animale/sessuale/istintuale” freudiano, beninteso, un modello tutto discutibile ma che Badiou prende come riferimento). Tanto il modello maschile contemporaneo è povero, compromesso, sottomesso e mediocre che Badiou arriva ad affermare che con l’attuale sviluppo scientifico si potrebbe tranquillamente “sterminare i maschi”, congelando lo sperma bastante alla riproduzione della specie.

Invece per la ragazza /donna la situazione è ricca di potenzialità. Stante il suo ruolo di tutrice della specie (in questo senso domestica) la donna di Badiou può legarsi a un gesto filosofico.

“Può essere solo un gesto del pensiero, legato alle avventure della filosofia. E tanto nuovo in quanto questa creazione simbolica femminile dovrà includere la maternità in una dimensione altra dall’animalità riproduttrice” (…) Concretamente: che cos’è una donna che s’impegna nella politica d’emancipazione? Che cos’è una donna artista, musicista, pittrice, poeta? (…) Che cos’è una donna filosofa? (…) Non so quel che le donne inventeranno nel passaggio in cui ora si trovano. Nutro in loro la massima fiducia. Quel di cui mi sento certo, senza neppure sapere a fondo perché, è che inventeranno la nuova donna, la donna che le donne non sono e debbono divenire, la donna che sta a pieno titolo nella creazione dei simboli e in questa creazione ospiterà anche la maternità.”

Alain Badiou con simpatica furbizia di ottuagenario riesce a dirci qualcosa di interessante.

img. fotogramma di Olympia di L. Reifensthal.

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Attualità

Bentornato Chinaski!

bukowski

Intervistatore: Chi non ti fa sbadigliare?

BUKOWSKI: Friedrich Nietzsche, Schopenhauer – questa è roba grande, ottima – e il primo libro di Cèline, e due o tre altri che adesso non mi vengono in mente. Quindi ero scontento di ciò che era stato fatto fino a quel momento. La cosa principale che mi dava fastidio era la mancanza di semplicità; e con semplicità non voglio dire ossa senza carne, voglio dire un bel modo per dirlo. Credo che il genio consista nel dire cose difficili in modo semplice. Quello che facevano loro era dire cose semplici in modo difficile. Loro fanno l’esatto opposto, per come la vedo io, e a me piace proprio la semplicità e la facilità senza perdere la profondità, o la gloria o la carne o le risate. Questo è quello su cui sto cercando di lavorare, renderlo facile senza perdere il sangue. Questo era il mio piano. (Charles Bukowski, un’intervista: Los Angeles, 19 agosto 1975 di Marc Chenetier in Il sole bacia i belli, interviste, incontri, insulti – Feltrinelli 2014.)

Feltrinelli ha pubblicato Il sole bacia i belli, interviste, incontri, insulti una raccolta di interviste dal 1963 al 1993 – in occasione del ventennale della morte, nel 2014.

In Bukowski ho sempre apprezzato quel suo saper misurare l’alfa e l’omega del quotidiano descritti in uno stile minimale ma millimetrico, la sublime e tragica bellezza della semplice vita ordinaria con i suoi piccoli piaceri quotidiani e la terribile abiezione del baratro umanoide, che Hank chiama il Branco Comune, con il correlato osceno di paura, delirio, pazzia, paranoia, ignoranza, cattiveria e stupidità che ci contraddistingue come genere umano. In Bukowski c’è tutto questo, fedelmente registrato come in pochissimi altri scrittori del ‘900. Di sicuro quando si legge Bukowski si è costretti ad un vero slalom tra oscenità, ribrezzo, pornografia e repulsione ma sì è ripagati con un umorismo tagliente e un’autoironia medicamentale e, certo, momenti di grande scrittura. Hank non te le racconta e non le imbelletta, le scrive nude e crude, le ingigantisce, le modifica, le distorce ma quello è il suo materiale: grezzo, umano, misero e sublime. Alcuni quando dico Bukowski fanno una specie di smorfia (se  l’hanno letto) eppure a mio avviso fu un ritrattista abilissimo del ‘900 americano e della società occidentale in genere, una sorta di Bosch contemporaneo in letteratura.

Nel 1978 Bernard Pivot conduttore di Apostrophes –  presentandolo al pubblico francese nella sua nota trasmissione –  riportava ciò che di lui si diceva allora: non presentabile, fallocrate, ossessionato dal sesso, pornografo, alcolizzato. La critica in maniera quasi unanime allora lo liquidava all’incirca così. Bukowski da parte sua citava come propri riferimenti letterari: Fante, Celine, Checov, Kafka, Hemingway, Hamsun, Henry Miller, Dostoevskij, Artaud, Cummings.

Nel 1967, nella seconda intervista del testo, così disse della cultura giovanile: “Non tutte le loro idee sono completamente prive di merito, ma nell’essenza del loro pensare tutti allo stesso modo sugli stessi argomenti coprono l’Orrendo Vuoto; immaginano di essere sul serio esseri umani adorabili. Come può un uomo ( o una donna o una lesbica o un omosessuale) essere qualcosa di diverso da un essere umano interessante se lui o lei stanno in piedi o siedono tra candele per queste cause? – ma in realtà sono un’unica grossa mente di merda gelatinosa e si aggrappano all’LSD come al Crocifisso e me lo fanno detestare perché le loro impronte, le loro forme mentali le ho sempre sotto gli occhi. Magari quando cambieranno droga proverò un po’ di acido. Fino ad allora, lascia che ci sguazzino finché non gli scoppia la pancia.” (C. Bukowski, Il sole bacia i belli, interviste incontri, insulti, Feltrinelli 2014)

Nato in Germania per caso, di genitori tedeschi, cresciuto in una famiglia infame nell’America della depressione con  il padre che lo prendeva a cinghiate ad esempio se non avesse tagliato l’erba del giardino alla perfezione e  una madre che assisteva complice e consenziente, tutto in seguito minuziosamente (e dolorosamente) riportato nel romanzo autobiografico  Ham on rye (Panino al prosciutto, Guanda 2002). “Poi alzò la striscia di cuoio. Il primo colpo fu più uno choc che un dolore. Al secondo cominciai a sentire male. A ogni colpo il dolore aumentava.(…) vidi mia madre in corridoio. E’ un’ingiustizia, le dissi. Perché non mi hai aiutato? Il padre, disse lei, ha sempre ragione. (Charles Bukowski, Panino al prosciutto, Guanda 2000). Il padre di Bukowski picchiava il figlio, e picchiava anche la madre. Il vecchio ce l’aveva sempre con tutti: nessuno era bravo come lui, nè altrettanto intelligente. (Jim Christy, La sconcia vita di Charles Bukowski – Feltrinelli 1998)”. Fu, in sovrappiù, affetto da un’acne tanto terribile che in prima liceo smise di andare a scuola per la vergogna e fu anche vittima dei bulli al college. “A quattordici anni la faccia cominciò a riempirsi di brufoli. (…) La faccia era tempestata di pustole piene di pus, grosse come biglie. (…) Le pustole erano così grosse che dovevano perforagliele mentre lui stava seduto sotto una luce a raggi ultravioletti e ascoltava i commenti dei medici e delle infermiere. Madonna … da non credersi eh? … ha mai visto niente di peggio, dottore? (Jim Christy, La sconcia vita di Charles Bukowski – Feltrinelli 1998)”.

Scoprì la biblioteca pubblica di Los Angeles della Quinta West e ci andava più spesso possibile e lì scoprì un libro che sarebbe stato per lui una rivelazione: Ask the dust (Chiedi alla polvere) di John Fante, scrittore italoamericano e sceneggiatore hollywoodiano. Lo citerà in Donne del 1978: “Chi è il tuo autore preferito? Fante. Chi? John F-a-n-t-e. Chiedi alla polvere, Aspetta primavera Bandini …Perchè ti piace? Emozione totale. Un uomo davvero coraggioso.”  Lo incontrerà, sempre nel ’78, quando Bukowski scrisse la prefazione ad una riedizione di Chiedi alla polvere che quasi impose alla sua casa editrice la Black Sparrow: “Ero giovane, saltavo i pasti, mi ubriacavo e mi sforzavo di diventare uno scrittore. Le mie letture andavo a farle alla biblioteca pubblica di Los Angeles,nel centro della città, ma niente di quello che leggevo aveva alcun rapporto con me, con le strade o con la gente che le percorreva. Mi sembrava che tutti giocassero con le parole e che i cosiddetti grandi scrittori non dicessero un accidenti di niente.(…) Continuavo ad aggirarmi per la sala grande, tirando giù un libro dopo l’altro, leggendo qualche riga, a volte qualche pagina, per poi rimetterli al loro posto. Poi, un giorno, ne presi uno e capii subito di essere arrivato in porto. (…) Le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un ‘altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l’insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso.” Fu il suo omaggio sincero ad uno scrittore quasi dimenticato e in fin di vita che lo aveva “salvato” spingendolo verso la scrittura. “Quando Fante ricevette la bozza della prefazione di Bukowski era di nuovo ricoverato al Motion Picture Hospital per un’ulcerazione al piede destro. Fu molto sollevato quando Joyce ( la moglie di Fante) gli lesse ad alta voce le quattro pagine dattiloscritte con le correzioni a penna di Bukowski. (Stehphen Cooper, Una vita piena – biografia di John Fante – Marcos Y Mracos 2001)” Nel 1981 Bukowski dedicò a Fante la sua ultima raccolta di poesie, Dangling in the Tournefortia, “A John Fante”.

Fante morirà nel 1983.

Nei primi anni ’40 “Se ne andò di casa quando il padre, frugando nel suo armadio, trovò i suoi testi. Il vecchio li gettò dalla finestra, insieme con i suoi vestiti. Bukowski affittò una stanza nella Skid Row, e la sua scuola diventò la strada”

La sua fu una vocazione tardiva: pubblica i primi scritti da giovane (ventiquattrenne) sopratutto poesie ma senza risultati apprezzabili (o meglio – come spiegò anni dopo – perché non si sentiva pronto) e poi, dopo una pausa lunga 10 anni in cui non scrisse nulla ma si ubriacò con costanza, la ripresa in mezzo a lavori anonimi e malpagati (descritti in Factotum del 1975), fino alla scelta decisiva di essere scrittore e basta grazie alla felice iniziativa di John Martin della Black Sparrow – piccola e allora sconosciuta casa editrice –  nel 1969, che gli propose un compenso regolare di 100 $ al mese per tutta la vita. Aveva 48 anni. Accettò. Da quel momento pubblicò tantissime poesie per piccole riviste underground ( allora, anni ’60 in America, esistevano) all’inizio e poi romanzi, sceneggiature e interviste. Partecipò a reading e compì rari viaggi, in un crescendo di  riconoscimenti, il tutto condito da una fama pessima e da scandalose apparizioni televisive e sbronze colossali, corse di cavalli e donne, sempre a Los Angeles e dintorni. Morì a San Pedro ( California) nel 1994 di leucemia. In fondo Buk è la più lampante dimostrazione che nella vita è sempre meglio splendere della propria differenza che essere inghiottiti nell’oceano della mediocrità.

“Una notte, ubriaco, avevo dormito sui bidoni della spazzatura. New York. Mi aveva svegliato un grosso ratto acquattato sulla pancia. Immediatamente, sia io che lui avevamo fatto un salto in aria di un metro. Stavo cercando di fare lo scrittore. Ora che in teoria lo sono non riesco a trovare un titolo. Sono un bluff. Il traffico ha ripreso a muoversi e io dietro. Nessuno sa chi sono gli altri e va benissimo così. Poi la luce forte di una lampo è esplosa sull’autostrada e per la prima volta nella giornata mi sono sentito piuttosto bene. ( Charles Bukowski, Il capitano è fuori a pranzo, con illustrazioni di R. Crumb Feltrinelli 1998)”

Eccessivo, sbruffone, attaccabrighe, polemico, manesco, violento e rude il personaggio Hank tutto alcool e donne, all’opposto gentile, affabile, premuroso e sensibile lo scrittore Bukowski. Conscio di dovere alla scrittura la salvezza, non dall’alcolismo né dalla leucemia ma quantomeno da una vita non vissuta, riconobbe sempre il suo genio come frutto di devozione, solitudine e sofferenza. Bukowski era così: ostentato, indipendente, anticonformista, isolato e rabbioso.

La sua è stata “una esistenza condotta in modo ribelle e disordinato, fuori dagli schemi comunemente accettati, ai margini di una società che non si cura dell’individuo, che fagocita coloro che non si arrendono e chiunque non si adegui alle necessità della finanza e della produzione sfrenata che alimenta in modo abnorme l’accumulo di ricchezza e consumi che finiscono per diventare vani e fini a se stessi. (G.G. Manca agoravox.it)”

“There is nothing more magic and beautiful than lines forming across paper. It’s all there is. It’s all there ever was. No reward is greater than the doing. What comes afterwards is more than secondary. I can’t understand any writer who stops writing. It’s like taking your heart out and flushing it away with the turds. I’ll write to my last god damned breath, whether anybody thinks it’s good or not. The end as the beginning. I was meant to be like this. It’s as simple and profound as that. Now let me stop writing about this so that I can write about something else.”

“Non c’è niente di più magico e bello delle righe che si formano sulla  carta, è tutto quello che c’è, è tutto quello che è mai stato, nessuna remunerazione è più grande del farlo. Quello che viene dopo è più che secondario. Non riesco a capire nessun scrittore che smette di scrivere. È come tirare fuori il tuo cuore e sciacquarlo via con gli stronzi. Scriverò fino al mio ultimo dannato respiro, che qualcuno pensi che sia buono o no. La fine come inizio. Avrei dovuto essere così. È così semplice e profondo. Ora lasciatemi smettere di scrivere su questo così posso scrivere su qualcos’altro. ” (On Writing by Charles Bukowski, Harper – Collins 2015)”

Quando era in vita era più famoso in Europa che negli USA, ( e questo lo considerava una fortuna) infatti gli unici viaggi che fece, alla fine degli anni ’70, furono  in Germania – tra l’altro anche a Andernach  dove nacque nel 1920 quando il padre svolgeva il servizio militare nell’esercito americano – e a Parigi, invitato dall’editore francese dove partecipò al programma televisivo Apostrophes allora molto popolare  e la sua apprizione, ebbro, a testa bassa,  parlando quasi sottovoce, fece grande scalpore, con quella sua goffa uscita tenuto a braccia mentre cerca di accarezzare i bianchi capelli ad un anziano professore e dopo aver provato a toccare una gamba ad una scrittrice ospite della trasmissione. (Tutto trascritto in Shakespeare non l’ha mai fatto, Feltrinelli 1996).

Purtroppo un difetto questo testo ce l’ha: non vi si trova l’intervista di Fernanda Pivano del 1980, quella in cui Hank alla fine le porge una rosa, quella che fa scrivere alla più grande traduttrice di letteratura americana in Italia queste limpide parole: “Vorrei fare a Bukowski il complimento di consideralo assolutamente originale, fuori perfino dell’ambito di scrittori maledetti come Cèline e Artaud. Definire le sue caratteristiche, il suo personalissimo modo di fare scrittura attraverso immagini della vita quotidiana trasfigurate sotto una lente d’ingrandimento colossale significa definire anche uno Stile di vita anarchico e pazzo, violento e brutale, sempre visto in chiave di sarcasmo crudele e amarissimo, senza spazio per concessioni al sentimentalismo e intriso di disgusto e di diffidenza per il genere umano e per la società degli uomini. (…) Preferisco pensare a un Bukowski perverso e romantico, vitale nel suo disgusto, creativo nella sua inorridita drammaticità, tragico nel suo non avere alcuna speranza in nessuna direzione. Un Bukowski sprofondato nel disastro, che è anche il disastro dello sfascio nel quale stiamo vivendo” ( C. Bukowski, Quel che importa è grattarmi sotto le ascelle, Fernanda Pivano intervista Charles Bukowski, Feltrinelli 1997).

“Scrivere mantiene vivi perchè libera il cervello dai mostri riversandoli su carta. (Il sole bacia i belli, interviste, incontri, insulti – Feltrinelli 2014.”

Quindi, bentornato Chinaski!

Nobody but you
nobody can save you but
yourself.
you will be put again and again
into nearly impossible
situations.
they will attempt again and again
through subterfuge, guise and
force
to make you submit, quit and /or die quietly
inside.
nobody can save you but
yourself
and it will be easy enough to fail
so very easily
but don’t, don’t, don’t.
just watch them.
listen to them.
do you want to be like that?
a faceless, mindless, heartless
being?
do you want to experience
death before death?
nobody can save you but
yourself
and you’re worth saving.
it’s a war not easily won
but if anything is worth winning then
this is it.
think about it.
think about saving your self.
your spiritual self.
your gut self.
your singing magical self and
your beautiful self.
save it.
don’t join the dead-in-spirit.
maintain your self
with humor and grace
and finally
if necessary
wager your self as you struggle,
damn the odds, damn
the price.
only you can save your
self.
do it! do it!
then you’ll know exactly what
I am talking about.

—————————————-

Nessuno se non te stesso.
Nessuno può salvarti se non
te stesso.
Sarai continuamente messo
in situazioni praticamente
impossibili.
Ti metteranno continuamente alla prova
con sotterfugi, inganni e
sforzi
per farti capitolare, arrendere e/o morire silenziosamente
dentro.
Nessuno può salvarti se non
te stesso
e sarà abbastanza facile fallire
davvero facilissimo
ma non farlo, non farlo, non farlo.
Guardali e basta.
Ascoltali.
Vuoi diventare così?
Un essere senza volto, senza cervello, senza cuore?
Vuoi provare
la morte prima della morte?
Nessuno può salvarti se non
te stesso
e vale la pena di salvarti.
È una guerra non facile da vincere
ma se c’è qualcosa che vale la pena vincere
è questa.
Pensaci su
pensa al fatto di salvare il tuo io.
Il tuo io spirituale.
il tuo io viscerale.
il tuo io magico che canta e
il tuo io bellissimo.
Salvalo.
Non unirti ai morti-di-spirito.
Mantieni il tuo io
con umorismo e benevolenza
e alla fine
se necessario
scommetti sulla tua vita mentre combatti,
fottitene dei pronostici, fottitene
del prezzo.
Solo tu puoi salvare il tuo
io.
Fallo! Fallo!
Allora saprai esattamente di cosa
sto parlando.”

Charles Bukowski, E così vorresti fare lo scrittore? Guanda 2010.

 

 

img: goodreads.com

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Musica

Where dogs and vultures eat: Joy Division.

mtv it

1977. Il nome Joy Division deriva un racconto del 1955 intitolato “La casa delle bambole” di  Yehiel Finer De-Nur, scrittore polacco – altresì noto come testimone al processo Eichmnann nel 1961 –  che raccontava  le vicende bestiali delle prigioniere che nei campi di sterminio nazisti venivano portate in  strutture separate e costrette a prostituirsi.

Un contesto sociale caratterizzato da depressione, disoccupazione alle stelle, inflazione galoppante e nessuna fiducia nella classe politica generò, in questo gruppo di musicisti britannici, sonorità crude, testi lugubri, atmosfera malinconica e decadente. Risentiva anche del paesaggio urbanistico della fine degli anni ‘70 del ‘900: zona nord dell’Inghilterra, i sobborghi industriali di Manchester. Macclesfield e  Salford erano infatti le cittadine dove nacquero i componenti della band, centri della cintura urbana industriale, grigia e marrone come un quadro di Sironi, come l’asfalto e i palazzi di pochi piani disposti in fila, anche chiamati crescents dalla forma di mezzaluna a schiera. Peter Hook, bassista del gruppo, scrive in Unknow pleasure. Joy Division tutta la storia, (Tsunami 2014) Abitavamo in Jane Street (…) nella vecchia, sporca, meravigliosa Salford. Quando anni dopo ho visto il film Control, ( di Anton Corbijn 2007 n.d.r.) non mi sono nemmeno accorto che era in bianco e nero, perché era esattamente come avevo vissuto la mia infanzia: buia e piena di smog, e marrone, come il colore di una scatola di cartone bagnata; a quei tempi tutta Manchester era così.”

Questa è l’atmosfera in cui sorgono i Joy Division.

Marco Pipitone, in un recente articolo, scrive di “suoni grezzi e compiuti, perfetti nel fare riferimento alla cupa desolazione evocata nei brani, ovvero parole nelle quali, a tratti – tagliente e lancinante – compare la speranza.” Pipitone scrive anche che “Per capire la poetica manifesta dei Joy Division basterebbe paradossalmente analizzare l’artwork grafico connesso ad entrambi i progetti. Le due copertine raccontano e traducono Ian Curtis. tanto che l’immagine di Unknow Pleasures nel tempo non è passata inosservata, è infatti divenuta un autentico manifesto dark, così come quella di Closer.”

L’estetica dei Joy Divison in effetti, tra il look retrò anni ’20 del gruppo e le copertine dei due unici dischi pubblicati con la band al completo, influenzerà parecchio il modo di presentarsi del movimento dark ( e non solo) degli anni ’80. La copertina di Unknow Pleasure del 1979 rappresenta ormai un’icona:  un piano nero attraversato da linee bianche orizzontali, una sopra l’altra, che si increspano verso il centro, rappresentazione grafica delle pulsazioni della prima stella Pulsar scoperta, la CP 1919, mentre la copertina di Closer, ultimo LP pubblicato nel 1980 –  che vide la luce due mesi dopo la morte del leader – è altrettanto simbolica: si tratta di una foto realizzata da Bernard Pierre Wolff e ritrae un Cristo ripreso dalla lapide della tomba Appiani,  situata nel cimitero monumentale di Staglieno a Genova.

“Ian leggeva. Kafka, Dostojevskij, Hesse, Lovecraft, Wordsworth, Gogol, Ballard. Attraverso i testi, era capace di creare una ragnatela di richiami: dalla science-fiction, alla letteratura esoterica. Una poesia “nucleare”, apocalittica, ma anche strettamente personale. Non c’è da stupirsi se i Joy Division sono considerati i padri del gothic rock, della new wave, del dark rock. (…) Nei testi, Curtis oscilla tra senso d’onnipotenza e sensazioni di depressione cronica.” (Joy Division: Un gioco d’ombre, Silvia Piscopo. Takeoff).

Curtis scriveva testi per lo più legati a questioni esistenziali, fuga dalla realtà, aspettative, paure, scelte: i testi scritti in chiave contemporanea sono legati al rapporto tra il singolo individuo e la società con le sue pressioni, attese, scadenze, oppressioni e conseguenti malessere, alienazione, perdita di senso e follia.  La poetica di Curtis sembra rievocare le ansie e le disillusioni di inizio secolo e coniugarle con l’angoscia tipica del secondo ‘900. Isolamento, fallimenti, amore perduto, amore straziante, limiti, condizionamento, luoghi solitari, anima e cuore, errori e atmosfere. Romanticismo e tematiche tipiche dell’esistenzialismo si sommano. I traumi, le disperazioni quotidiane. Ian Curtis ha messo in scena l’esibizione delle atrocità del secolo terribile, nessuno pensò allora che le stesse anche vivendo e avesse deciso di morirne.

La musica dei Joy Division ed i testi di Curtis traggono linfa dal materiale culturale dei tardi anni ’70: sound post-punk / industriale, suoni minimalisti e la prima elettronica, Iggy Pop, Bowie, Lou Reed, tutto ciò si fonde in strutture semplici e ipnotiche nelle produzioni sperimentali e maniacali di Martin Hannet; Peter Hook è, nel suono dei Joy Divison, fondamentale perchè ogni brano ha una linea di basso ben precisa, definita, incalzante ( cfr. Atmosphere) nelle canzoni lo strumento di Hook ne delinea la melodia di solito è la parte ritmica preponderante, batteria e chitarra sono quasi un accompagnamento, a volte, spesso un muro geometrico e nitido.

Ian Curtis soffre di epilessia, una crisi lo coglie durante un viaggio di ritorno da un concerto, altre ne seguiranno anche sul palco. I farmaci che prende per curarsi non alleviano il male, quando li prende, gli effetti collaterali non favoriscono certo la vita on the road della band in quegli anni. Ian non è solo epilettico, è sposato con Debbie –  la conosce da quando sono ragazzi – ed è padre di Natalie, che viene al mondo quando lui  è alle soglie della fama. Il suo matrimonio va in crisi, tra concerti, groupie e una relazione con Annik Honorè, una ragazza belga conosciuta in tour, e apparizioni in TV. Ian forse non è pronto a tutto ciò, lo voleva ma quando arriva lo stravolge. Ha anche un’occupazione, stabile ma precaria, all’Ufficio del lavoro, dove svolge colloqui con disabili per l’inserimento lavorativo e deve quindi conciliare tutto questo. Lavoro, famiglia e musica. E’ autore e paroliere, testi e arrangiamenti, e frontman. Forse è troppo, Sicuramente sarà troppo. E poi tutto questo accade nel giro di nemmeno un paio d’anni. Fino a quel “fade away” urlato in Digital, a Birmingham, ultima canzone (inedita, uscirà prima in Still e poi come primo singolo dei New Order, il gruppo che per accordo unanime del gruppo, Curtis in vita, prosegue l’attività musicale) dal vivo quel 5 febbraio 1980 e quel quasi sommesso “Thank you, good night”: si toglie la vita il 18 maggio alla vigilia di un tour negli USA, un’occasione irrinunciabile per qualsiasi esordiente del rock, a cui Ian Curtis non era preparato.

“Quel ragazzo riservatissimo, affascinato da Jim Morrison, non crederebbe alle sue orecchie se gli raccontassero che qualcuno ha portato via la lapide dalla sua tomba, nel giugno del 2008: sua moglie ci aveva fatto incidere sopra, non senza recriminazioni, Love Will Tear Us Apart: “Non riesco ancora a perdonarlo, quelle cose avrebbe dovuto dirmele quando era il momento”, disse ricordando il fastidio provato per la popolarità di quella canzone. Nell’ottobre del 1980, gli U2 dedicarono a Ian il brano A Day Without You sul loro album d’esordio Boy.”( Ian Curtis, il solitario, oscuro idolo dei Joy Division che amava ridere, di Andrea Silenzi – Repubblica 18 maggio 2015)

E’ l’alchimia dei testi, dell’estetica e del sound, scarno, geometrico, ipnotico dei Joy Divison che ne fa un’icona rock dark nella storia della musica. Un’ascesa fulminea e una repentina caduta, una fine precoce, una promessa violata.

(Isolation 1980) In fear every day, every evening, He calls her aloud from above, Carefully watched for a reason, Painstaking devotion and love, Surrendered to self preservation, From others who care for themselves. A blindness that touches perfection, But hurts just like anything else. Isolation, isolation, isolation. Mother I tried please believe me, I’m doing the best that I can I’m ashamed of the things I’ve been put through, I’m ashamed of the person I am. Isolation, isolation, isolation. But if you could just see the beauty, These things I could never describe. These pleasures a wayward distraction, This is my one lucky prize. Isolation, isolation, isolation…

Nella paura ogni giorno, ogni sera, lui la chiama forte da sopra, Ho cercato con cura una ragione, Premurosa devozione e  amore,  Mi sono arreso all’autoconservazione, Di altri che, pensano a loro stessi, Una cecità che raggiunge la perfezione, Ma fa male come ogni altra cosa. Isolamento (3) Madre, ci ho provato, ti prego credimi,  Faccio il meglio che posso, Mi vergogno delle cose in cui mi sono messo, Mi vergogno di quello che sono, Isolamento (3) Ma se solo tu potessi vedere la bellezza, Queste cose che non potrei mai descrivere, Questi piaceri una capricciosa distrazione, Questo il mio unico fortunato premio,  Isolamento (5)

(She’s lost control 1979) Confusion in her eyes that said it all, She’s lost control, And she’s clinging to the nearest passerby, She’s lost control, And she gave away the secrets of her past, And said “I’ve lost control again”, And of a voice that told her when and where to act, She said “I’ve lost control again”. And she turned to me and took me by the hand, And said “I’ve lost control again”, And how I’ll never know just why or understand, She said “I’ve lost control again”, And she screamed out, kicking on her side, And said “I’ve lost control again”, And seized up on the floor, I thought she’d die, She said “I’ve lost control again”, She’s lost control again, She’s lost control, She’s lost control again, She’s lost control, Well, I had to phone her friend to state her case, And say she’s lost control again, And she showed up all the errors and mistakes, And said “I’ve lost control again”, But she expressed herself in many different ways, Until she lost control again, And walked upon the edge of no escape, And laughed “I’ve lost control again”, She’s lost control again, She’s lost control, She’s lost control again, She’s lost control, I could live a little better with the myths and the lies, When the darkness broke in, I just broke down and cried, I could live a little in a wider line, When the change is gone, when the urge is gone, To lose control, When here we come.

Dice tutto la confusione nei suoi occhi, Ha perso il controllo, E si aggrappa al passante più vicino, Ha perso il controllo, E svelava i segreti del suo passato, E diceva: ho perso di nuovo il controllo, E di una voce che le suggeriva quando e dove farlo, Disse: ho perso di nuovo il controllo. E si voltò e mi prese per mano e disse: Ho perso di nuovo il controllo, E non capirò mai né saprò come e perché, Disse: ho perso di nuovo il controllo, E gridò dando in escandescenze e disse: Ho perso di nuovo il controllo, E inchiodato al pavimento pensai che sarebbe morta, Disse: ho perso di nuovo il controllo, Ha perso di nuovo il controllo, Ha perso il controllo, Ha perso di nuovo il controllo, Ha perso il controllo, Così ho dovuto telefonare a un’amica sua per spiegarle il caso, Dicendo che aveva di nuovo perso il controllo, E lei mostrò tutti gli equivoci e gli errori, E disse: ho perso di nuovo il controllo, Eppure sapeva esprimersi in molti modi differenti, Finché perse di nuovo il controllo, E camminò sull’orlo di un vicolo cieco, E ridendo disse: ho perso il controllo, Ha perso di nuovo il controllo. Ha perso il controllo,  Ha perso di nuovo il controllo, Ha perso il controllo, Potrei vivere un po’ meglio con i miti e le bugie, Quando il buio è rotto, sono appena scoppiato a piangere, Ho potuto vivere un po’ in una linea più ampia, Quando il cambio è andato, quando la voglia è andata, Per perdere il controllo. Quando arriviamo.

( A means to an end 1980) A legacy so far removed, One day will be improved. Eternal rights we left behind, We were the better kind. Two the same, set free too, I always looked to you, (3)We fought for good, stood side by side, Our friendship never died. On stranger waves, the lows and highs, Our vision touched the sky, Immortalists with points to prove, I put my trust in you. (3) A house somewhere on foreign soil, Where ageless lovers call, Is this your goal, your final needs, Where dogs and vultures eat, Committed still I turn to go. I put my trust in you. (6)

Un’eredità da tempo rimossa, un giorno sarà migliorata, diritti eterni che ci siamo lasciati alle spalle, noi eravamo del tipo migliore, due in uno, e anche liberati, ho sempre contato su di te (3)  abbiamo lottato per sempre fianco a fianco, la nostra amicizia non è mai morta, Su onde sconosciute, alti e bassi, la nostra visione ha toccato il cielo, seguaci dell’immortalità con argomenti da provare, mi fidavo di te, (3) una casa da qualche parte su un suolo straniero, dove amanti invecchiati fanno visita, è questa la tua meta, il tuo bisogno definitivo? Dove i cani e gli avvoltoi mangiano, ancora coinvolto mi volto per andarmene,  Mi fidavo di te. (6)

(The eternal 1980) Procession moves on, the shouting is over, Praise to the glory of loved ones now gone. Talking aloud as they sit round their tables, Scattering flowers washed down by the rain. Stood by the gate at the foot of the garden, Watching them pass like clouds in the sky, Try to cry out in the heat of the moment, Possessed by a fury that burns from inside. Cry like a child, though these years make me older,With children my time is so wastefully spent, A burden to keep, though their inner communion, Accept like a curse an unlucky deal. Played by the gate at the foot of the garden, My view stretches out from the fence to the wall, No words could explain, no actions determine, Just watching the trees and the leaves as they fall.

La processione va avanti, le grida sono finite, Lode alla gloria degli amati che ora non ci sono più, Parlando ad alta voce seduti alle loro tavole, Fiori sparsi annaffiati dalla pioggia. Ero vicino al cancello in fondo al giardino, Guardandoli passare come nuvole nel cielo, Cerco di gridare nella foga del momento, Posseduto da una violenza che brucia dall’interno, Piango come un bambino nonostante questi anni m’invecchino, Con i bambini il mio tempo è così sprecato, Un peso da portare, nonostante la loro interiore partecipazione, Accetto come una disgrazia un affare sfortunato. Sdraiato vicino al cancello in fondo al giardino, Il mio sguardo spazia dalla siepe al muro, Nessuna parola potrebbe spiegare, nessuna azione potrebbe risolvere, Posso solo guardare gli alberi e le foglie che cadono.

Love will tear us apart, brano dei Joy Division uscito nell’aprile del 1980, è stato inserito nella colonna sonora di 13 reasons why, serie televisiva Netflix del 2017 tratta da un romanzo del 2007 scritto da Jay Asher.

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pratica filosofica

#Philosophers, un identikit.

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 “(…) la filosofia che si fa può ben pretendere a un grado di autenticità perfino superiore alla filosofia dei libri e dei corsi universitari, anche se al prezzo di una prevedibile precarietà. Ma che importa? La modalità non professionalizzata del filosofare sta rivendicando il suo spazio. Ed è grazie a queste modalità ‘non’ che ora ‘Socrate’ si ritrova in una ‘agora’ chiamata, a seconda dei casi, la classe, il cafè, la piazza o, magari, la “saletta di filosofia” all’interno del penitenziario e (perché no) anche Twitter, visti i cafè filosofici che nascono sui social.”( Livio Rossetti, Le dialogue socratique, un modèle désormais dépassé ? Les Belles Lettres, Paris 2011)

E’ nel lascito socratico che possiamo tornare a comprendere che la costituzione originaria del primum philosophari si fonda sulla polis e sul dialeghestai, la qual cosa significa che solo un ritorno all’agorà cittadino del logos comune può determinare una reale coscienza civile di ripensamento critico, che ( pragma ) tradotto oggi significa che il fare filosofia è da intendersi nel ritorno a sporcarsi le mani con l’erlebnis, il flusso di vita, l’esperienza, cioè tornare alla critica  e all’immaginazione produttiva spinoziana, con quella passione per la conoscenza che Platone e Nietzsche ben rappresentano: fiamma che balza per il greco, passione per la verità il secondo per cui il filosofo è  “un uomo che costantemente vive, vede, ascolta, sospetta, spera, sogna cose fuori dall’ordinario”.

Si tratta a ben vedere di recuperare atti originari per la filosofia stessa, per individuare una figura di filosofo nuova e diversa, che oggi pare assumere qualifiche come: consulente, conduttore, praticante, facilitatore, mediatore.  Il filosofo pratico è chi sa “tirar fuori ciò che non vogliamo vedere” come scrive Gerd Achenbach, chi è capace di attuare una “critica dei bisogni” con Ran Lahav e “coprire i vuoti e far circolare l’aria” come scrive Stefano Zampieri.

Nella geografia globale l’esercizio della filosofia rivolge gli strumenti del pensiero  ai limiti della polis e dell’agorà, che rappresentano oggi, ancora una volta,  i termini di riferimento del filosofo, quel dualismo tra locale e globale che caratterizza le dinamiche contemporanee. Il filosofo pratico lavora inserito in un contesto locale che a sua volta inferisce ad un pensiero globale. Come ricorda Achenbach la filosofia dalla domanda “sul concetto del mondo” nella forma praticata ( oltre Kant) passa a chiedere: cosa so, cosa faccio, cosa spero, chi sono? L’esperto di filosofia ha la consapevolezza di saper vedere indietro per guardare avanti. Il filosofo ha assunto nel tempo diverse figure sociali, il professore, l’intellettuale sono solo due tra quelle più recenti.

Il filosofo del senso comune. Come fanno notare Madera e Tarca “ (…) la filosofia, come modo di vivere, è diventata il modo di vivere dei professori che si occupano di filosofia. Se questa è la pratica filosofica essa si riduce all’esercizio dello studio, della scrittura e dell’insegnamento dei risultati di tale studio.”  Diverso a questo punto, dopo la svolta pratica,  è fare filosofia, che vuol dire non solo commentare autori di riferimento o compulsare testi classici ma fare ricerca comune, favorire la discussione, utilizzare metodologicamente il dialogo, affinare gli strumenti di analisi e confronto  sull’esperienza di vita concreta e sulle visioni del mondo che reggono il nostro agire.

Il cattedratico. Sulla filosofia delle università molto è stato scritto, questo tema è polemica ricorrente tra dotti e “nuovi filosofi” nel corso del tempo; idealmente nate sulla traccia delle scuole di Atene le università crescono come luoghi di culto della conoscenza assumendo di volta in volta le caratteristiche proprie dei tempi che vivono. Se storicamente la filosofia è sempre stata praticata, dalla sua nascita socratica alle scuole ateniesi e successivamente dai cinici agli stoici, è nel 529 quando l’imperatore bizantino Giustiniano chiuse le scuole ateniesi,  quindi con l’avvento del cristianesimo, ( e poi ancora con l’avvento del Positivismo) forse con la nascita della cattedre di filosofia all’Università di Costantinopoli nel 425, che la filosofia è messa in aula, tra la cattedra e gli scolari, impacchettata e resa fruibile ai discenti, manualizzata ad uso dei chierici, o meglio normalizzata ad uso del cristianesimo.

Il filosofo del Rinascimento. Un primo momento di “rottura” rispetto al Medioevo, cioè con la consolidata tradizione delle universitas,  luogo preminente in cui il filosofo trova la sua collocazione ( anche se non come specialista di filosofia ) ed il suo status riconosciuto, e questo avviene nel Rinascimento in quel periodo storico di riscoperta della classicità e di apertura a innovative metodologie scientifiche. I nuovi umanisti rinascimentali si staccano dalla tradizione aristotelica degli studi filosofici del loro tempo Così scrive Garin nel suo “L’uomo del Rinascimento” citando Le Goeff  il quale ricordava “(…) quello che erano stati i filosofi nelle città greche, e in genere del mondo antico: maestri di vita e scienziati, medici delle anime e dei corpi, riformatori e critici radicali, pronti a testimoniare con la morte”  e spiega che  “ ( …) il ritorno dei filosofi antichi nel Rinascimento, che ha aperto il corso a fiumi di retorica, ha tuttavia mutato anche il volto della ricerca, e ha rinnovato l’immagine del filosofo e della filosofia: intanto, non più, o non necessariamente, maestro di scuola, non vincolato a ortodossie di sorta, insofferente di qualsiasi pretesa egemonica, per vocazione critico e spesso ribelle (…)”  come  lo sono stati Leon Battista Alberti, o Leonardo da Vinci, Pomponazzi, Marsilio Ficino, Cornelio Agrippa, Erasmo, Paracelso e Giordano Bruno grandi pensatori, artisti, inventori e scienziati del Rinascimento oggi certo meno ricordati come filosofi ma studiosi i quali nella loro opera facevano costante il riferimento a categorie di pensiero e riferimenti della tradizione antica. Pensatori che non hanno timori riverenziali, critici, innovatori “ (…) la filosofia rompe duramente con il passato, non si riconosce né in un libro né in un autore, e scopre strade nuove e nuove alleanze, il filosofo è anche colui che non conosce barriere o vie predeterminate; che si apre alla vita attiva, che è fortemente interessato al mondo morale e politico, all’uomo e all’esistenza dell’uomo.”  E’ forse questo l’aspetto più innovativo del filosofo del Rinascimento, in questo momento storico si affaccia una filosofia che si apre alla vita attiva, che rigetta l’apologia della teoresi come unica nobile arte del pensiero, che vive il mondo morale, etico e politico del suo tempo, contribuendo a costruirne il senso, non senza l’irriverenza tipica degli uomini d’ingegno del ‘500.

Il filosofo illuminista. Filosoficamente l’età dei lumi  si caratterizza con l’attacco all’assolutismo dei monarchi, del clero, della casta fondiaria e del pregiudizio, della credulità; ha in questa sua radice una forte carica socratica di messa in discussione e di opposizione. Il filosofo è un raffinato e colto letterato che somma in se il coraggio intellettuale di rimarcare le ingiustizie sociali e la novità culturale per diffondere questa tendenza, e tutto questo nel nome della ragione. Con la loro testimonianza e le loro opere i philosophes si fecero propugnatori di ideali di eguaglianza, libertà ed emancipazione. L’Illuminismo fu tuttavia espressione di un ceto sociale che, pur volendo trasformare radicalmente la società e rivendicando i diritti delle classi più deboli, ebbe, nei fatti, esiti ben più moderati, ci vorranno molti altri decenni, ed errori e deviazioni prima di veder realizzate queste utopie, o solo alcune di esse. Un tratto noto della filosofia di questa età è , per quanto detto, il suo legame con le trasformazioni sociali e politiche e in ultima analisi il tema del rapporto tra riflessione filosofica e scelte di diritto e politiche compiute dagli individui, dagli Stati, dalle organizzazioni internazionali: nell’illuminismo la filosofia ha assunto consapevolmente il ruolo di critica della società e dello stesso uomo del futuro, e il filosofo ha altrettanto consapevolmente rivestito i panni dell’ingegnere sociale, ritorna il filosofo politico platonico che analizza lo stato sociale e prospetta nuova possibilità.

Il funzionario dell’umanità. Nel 1937 il riferimento alla filosofia del Rinascimento consente a Edmund Husserl di collocare la critica che espone nel testo de “La crisi delle scienze europee”. Il 7 maggio 1935 Husserl tenne a Vienna una conferenza dal titolo La filosofia nella crisi dell’umanità europea, che proponeva le riflessioni cui il filosofo stava lavorando già da un paio d’anni e su richiesta generale del pubblico la replicò il 10 dello stesso mese. Nel mese di novembre dello stesso anno Husserl tenne altre conferenze sullo stesso tema a Praga e all’inizio del 1936 ne decise la pubblicazione sulla rivista “Philosophia” di Belgrado.  In primo luogo, per Husserl è necessario individuare nell’ambito della psicologia, nella sua tematica e nel suo metodo quelle “oscurità enigmatiche e inestricabili”   che caratterizzano le scienze moderne e che riconducono a “l’enigma della soggettività” . Enzo Paci disse: “la filosofia ha davanti a sé l’orizzonte del futuro e dietro a sé l’orizzonte del passato.”  Husserl interroga “noi filosofi del presente”  e il ruolo dei filosofi nella cultura quando abbiano scoperto con certezza che ogni filosofia ha lo spazio effimero di una giornata “nell’ambito della flora filosofica”  che sempre nasce e perisce e sempre di nuovo. La miseria della filosofia presente, per Husserl (1935), sta nel riconoscere la “penosa contraddizione esistenziale”   cioè quella di non essere più in grado di giungere ad una conoscenza universale, di essere chiusi nella propria costruzione filosofica attorno a problemi filosofici e ad ascoltare prolusioni accademiche.  Ma Husserl dichiara che se i filosofi che vogliono essere non filosofi letterati ma, educati dai grandi filosofi del passato, filosofi che vivono della verità, devono riconoscere nella filosofia un compito per l’umanità: quello di essere filosofi come “funzionari dell’umanità”  a patto di intendere la filosofia come  “vocazione interiore personale”  che  crede in un telos universale e nella possibilità di realizzarlo. In quanto eredi del passato gli uomini devono cercare esaurienti considerazioni storiche e critiche, un’auto – comprensione radicale  sulla originaria volontà della filosofia che nella finalità e nel metodo rivela “quell’aderenza ultima e autentica alla propria origine che, una volta penetrata, lega a sé apoditticamente  la volontà.”  In cosa consiste l’apoditticità Husserl dice di non saperlo ancora ma di voler mostrarlo nel ripercorrere la crosta dei fatti storici cercandone il senso intimo la “nascosta teleologia”  cercando, attraverso un “atteggiamento spirituale scettico ma non propriamente negativo”, le possibilità di un nuovo orientamento cercando una filosofia che va attuata attraverso l’azione.

Il precario scandaloso. Max  Horkheimer, animatore del famoso Istituto di Scienze Sociali di Francoforte, nel 1940 scrisse un saggio sulla funzione sociale della filosofia, una riflessione radicale e sicuramente desueta per la filosofia dei tempi. Questo saggio fu scritto in un periodo gravido di avvenimenti drammatici che investivano l’Europa e forse proprio per questo aspetto rappresenta una riflessione filosoficamente audace. Il saggio intitolato “La funzione sociale della filosofia”   è eminentemente socratico perché contiene un’affermazione fondamentale ai fini del nostro discorso e cioè che il ruolo sociale del filosofo consista nel dispiegamento del pensiero critico e dialettico perché “filosofia è il tentativo metodico e tenace di portare la ragione nel mondo”  da questa idea Horkheimer  deriva anche l’essenziale a-sistematicità della filosofia, cioè la mancanza di uno statuto certo e configurato una volta per tutte, la sua precarietà perché sempre orientata verso nuove forme del reale e il suo essere fonte di scandalo perché irriverente e spudorata, non avendo verità preconfezionate da spacciare né tanto meno da difendere a priori ma tutto da vagliare criticamente . “ciò determina la sua posizione precaria e controversa. Essa è scomoda, ostinata e per di più priva di una utilità immediata, essa è dunque veramente fonte di scandalo” . Sotto questa luce inquietante, poco rassicurante e consolatoria ma piuttosto rivoluzionaria, il destino del filosofo non può essere unico ed esclusivo innocuo disquisire, pacifico colloquiare, sereno argomentare ma dovrà essere accettazione della contaminazione del quotidiano pensare la vita: prendere posizione, vagliare con attenzione, soppesare, valutare e questo non ai fini morali o utilitaristici cioè del giudizio e del valore materiale, e qui sta la vera questione, ma ai fini della capacità di determinare il pensiero e l’agire, orientare le scelte, fondare il proprio io attivo e consenziente. Questa forma di ibridazione, di mescolamento, di fusione conduce al concetto di accettazione consapevole di quello che si può intendere come il quotidiano contraddittorio esistenziale, il vivere il presente nella sua apparente confusione, con quanto vi è in esso di opposto a noi, con la sua ipocrisia, con il luogo comune, la diceria, l’opinione e le relazioni, vivere il presente insomma come accettazione del conflitto. Per Horkheimer “la vera funzione sociale della filosofia consiste nella critica dell’esistente” in questo il filosofo è da ritenere un precursore della pratica filosofica : “Gli uomini devono imparare a comprendere la connessione tra le loro attività individuali e ciò che con esse viene raggiunto, tra la loro esistenza particolare e la vita generale della società, tra i loro progetti quotidiani e le grandi idee che professano”. Horkheimer ribadisce l’aspetto inaudito del filosofare, il suo essere un sapere essenziale al progredire razionale della società ma irriducibile ad una qualsiasi sistematizzazione assoluta e che non sia esaminata socraticamente e fondata criticamente. Ne parla come scandalo, come pratica scomoda e ostinata. Gli uomini in genere sono incapaci di orientare le proprie scelte in modo razionale per la loro scarsa propensione alla riflessione esaminante, “gli uomini sono incapaci di organizzare la propria vita in conformità con le loro idee di umanità”.

L’intellettuale organico.  Un nuovo modello di filosofo si affaccia a metà novecento sulla scena culturale, è l’intellettuale. Questo nuovo filosofo usa l’intelletto in funzione sociale, riveste un ruolo di guida, di indirizzo, è il personaggio capace di svolgere un ruolo educante a livello di massa.  Come scrisse Gramsci:  “Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).”    Ma è la stessa radice genealogica di questa figura, la società di massa e chi la dirige, che mutilano questa figura rinchiudendola in una gabbia fatta di privilegi, prebende, direttive, manipolazioni, selezioni, sistemi di micro potere accademico ed editoriale, figura sociale che pure vedrà riconosciuto a se un ruolo di compromesso piuttosto duraturo nell’Italia del dopoguerra.  Il  mondo accademico costituirà un’oligarchia chiusa, spietata, meschina,  che gestirà la direzione culturale del paese, collaborando attivamente con le strutture politiche, accompagnando l’idea di società e di costume adatte ad un mondo ideologicizzato e secolarizzato. Il discredito in cui versa questa figura non deve però ostacolare il riconoscimento di quelli, tra gli intellettuali, che hanno svolto un ruolo importante ai fini della ricerca e della cultura e i nomi di questi ad ognuno vengono in mente facilmente.

Chi è quindi il filosofo pratico?  Chi è il filosofo? E’ la domanda cui Aristotele rispondeva che è colui che “vive mirando costantemente alla natura ed al divino”, Kant affermava che il filosofo è “ricercatore di saggezza”, Nietzsche lo identificava come “la cattiva coscienza della sua epoca” Husserl lo chiamava “funzionario dell’umanità”, Abbagnano diceva che “un vero filosofo è un maestro o compagno di ricerca“.

E oggi? Maieuta, mediatore di cittadinanza, filosofo di strada, egli può essere “mediatore di complessità e cittadinanza” ovvero essere capace di leggere il contesto e di analizzare le conseguenze di atti e eventi collettivi e personali, un pensiero del complesso e del contesto, specifico e universale, che richiede nuove mappe operative e mentali. E’ anche un artigiano delle produzioni testuali in rete, un esperto di marketing di idee, uno inventore di ambienti d’apprendimento, un fagocitatore di concetti, un alchimista di rappresentazioni, un logico delle emozioni, un architetto di esistenze.

Se mediatore di cittadinanza è bene intendersi sul secondo termine. Cittadinanza non è appartenenza meramente giuridica o illuministica invenzione  ma, mediando il termine anche dal campo giuridico, consiste nel veder riconosciuto il diritto dovere a essere cittadino della polis, a patto di sapere cosa sia la polis attuale (la mia città, la mia regione, la mia nazione, l’Europa, il mondo? ) e come si compone; questo compito è reciproco tra il filosofo ed il cittadino, entrambi vivono una realtà complessa che insieme cercano di decifrare, il filosofo è colui che ne conosce gli assi portanti, che si fa portatore di pratiche attivatici di consapevolezza e pratiche critiche di razionalità; egli intraprende un  cammino di conoscenza di sé nel mondo, perché accetta la sfida del mondo con franca consapevolezza, con questo accettare la complessità inizia a delinearsi il filosofo pratico.

L’esercizio del pensiero acquista un significato nuovo e allo stesso tempo antico se si pone mente che sono due le caratteristiche che lo contraddistinguono: la problematizzazione e la libertà del linguaggio. Possiamo dire di essere veramente all’interno di un nuovo paradigma solo se riteniamo fondata l’affermazione che il pensiero filosofico è problematizzazione, pratica oppositiva, diversificazione, pensare “altro”. La radicalità del pensiero e dell’azione della pratica filosofica non è senza conseguenze, esercizio di stile riflessivo, essa ha risvolti etici, cambiare modo di pensare significa cambiare i parametri di valutazione del nostro agire.

La filosofia ha (sempre avuto) una vocazione universale e collettiva in quanto meramente umana; nella (cosidetta, opinabile e falsificabile negli esiti) “svolta pratica” sembra voler rappresentare il proprio come un desiderio vivo di ritornare alle radici di interrogazione e opposizione civica, formativa e politica senza le quali rischia di restare impagliata, sterile e temporanea imitazione delle forme storiche del sapere accademico. Venendo meno la tensione metafisica, (eppure dio non vuole morire), il diritto statuale e la preminenza accademica, la strada sembra segnata:  credibilità, razionalità, scientificità e pensiero utilitaristico economico spingono il fare filosofico verso un radicale ripensamento.

Il logos, che è linguaggio e pensiero, impone una riflessione radicale su di sè, sulle persistenze linguistiche e sulle nebulose astrazioni del lessico psico filosofico radicato nelle consuetudini, anche, quindi il coraggio di osare il pensiero attraverso la franchezza appare, per il filosofo pratico, un abito professionale.

“Rifletti come devi pensare, rifletti come devi agire, rifletti come devi vivere” (A. Heller, La filosofia radicale, 1978)

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Attualità, Pratiche filosofiche

L’invasione (mediatica) della filosofia.

originalt bansky.co.uk
 Sul : “Così la filosofia ha invaso la nostra vita di Daniela Monti”  28 ottobre 2016 27 – La ventisettesima Ora.

Invasione? Ne ha parlato Daniela Monti sulla 27° Ora. Di tale invasione e dell’eventuale ragione di tale affermazione non esiste traccia in questo articolo molto milanese della 27 ora del Corriere, (pubblicato il 28 ottobre 2016) che giornalisticamente parlando è un buon pezzo, di “colore” si diceva un tempo, di costume,  quasi – diciamo – di contorno. La dimensione che la stampa nazionale ed i social media ( a 15 anni dai primi articoli che parlarono di pratica filosofica)  hanno deciso di assegnare alla maggiore novità della filosofia degli ultimi 30 anni, sembra essere ancora questa : il taglio di costume, la paginetta locale o il supplemento.

Peccato che la filosofia che “aiuta” sia qui rappresentata come una versione pop edulcorata della “vera filosofia” di cui – si intuisce –  può fare la “servetta”:  una forma semplificata e banalizzata, pur apparentemente negandolo, una filosofia per massaie ed impiegati. Condito di Berkley, Harvard, Financial Times è un articolo che spiega agli economisti che hanno bisogno dei filosofi, che la vera vita non è inseguire la ricchezza, il godimento ma la ricerca di senso, che la “filosofia POP” aiuta a trovare la felicità, a ragionare meglio, a non essere emotivi,  e i 50enni ad affrontare la terza età….

L’articolo inizia con una citazione di un docente americano, ( che ha studiato a Barkley, Harvard)  che collega lo studio della filosofia al raggiungimento di posizioni apicali, manageriali. Che relazione c’è tra le due cose? E perché a sostegno di una introduzione vale la citazione di un docente dell’Università di Syracuse nello stato di New York che si occupa di etica e politica? In seguito la giornalista passa a citare l’ Università Bocconi di Milano e Stefano Sassi, amministratore delegato di Valentino, come simpatizzante della filosofia. A dimostrare … cosa?

Filosofia che a livello accademico soffre il calo degli iscritti del 22%.

Si passa poi nella lettura al cuore dell’articolo: un elenco di pratiche ( generici sportelli comunali dove “trovare consulenza filosofica” come se il consulente fosse un impiegato, corsi pomeridiani di “potenziamento alla filosofia” alle superiori, corsi per i bambini delle elementari, «spazio filosofico» nel carcere minorile ) definite “filosofia semplificata nel linguaggio ma non banalizzata, accessibile” e si chiede se è filosofia autentica, per poi citare il … “Financial Times” (ancora un riferimento  legato al mondo economico)  «la filosofia, per rimanere in vita, ha bisogno dolorosamente della cultura pop». POP. Come un lubrificante serve a meglio muovere un meccanismo.

E poi in serie: Badiou, la vera vita non è denaro, piaceri, potere ( provate a dirlo a ad Harvard o al Financial Times …) Caffo (?) la filosofia insegna la felicità, e Pollastri secondo cui il consulente lavora sullo “sciogliere nodi attraverso una lettura lucida, razionale, coerente”.

E’ quello che viene richiesto agli studenti di Oxford del resto,  prosegue l’articolista: saper ragionare, fare i collegamenti, capire le cose al volo, collegare  le fonti di informazione.  Insomma essere elastici, malleabili, adatti a “funzionare”!

Ed infine l’epitaffio, consolatorio, buonista , citando Montanari – analista biografico ad orientamento filosofico – che pone la filosofia sul versante dell’orientamento e della comprensione, agli incontri vanno i 50 enni perché non basta più la famiglia, il successo e il lavoro….

Che se ne parli bene o male, vale ancora? Ci si deve accontentare ? E’ una fotografia reale della situazione filosofica europea? Dove sono Achenbach, Hadot, Foucault, Horkheimer, Husserl, Wittgenstein, Nietzsche,  Spinoza, Platone? O anche solo Ugo Spirito, o Rensi … con la S!

La pratica filosofica è lo strumento dell’adattamento sociale all’invasione economicista globale? Serve alle aziende? Questo articolo potrebbe andare bene per qualche brochure di facoltà per attrarre iscritti, certo non a illustrare l’evoluzione della pratica della filosofia degli ultimi 30 anni (di cui si continua a non spiegare nulla), purtroppo un’altra occasione mancata. Accontentiamoci …

La filosofia insegna a ribellarsi, a pensare contro, ad intuire il proprio spirito, a smascherare gli idoli del tempo, a pensare a fondo la propria insoddisfazione e trasformarla in energia, insegna a cercare la propria anima.

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Attualità

The rock pope.

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Iconografico, patinato, pop: Sorrentino è il “genio italico” del cinema e la serie Tv the Young Pope lo conferma. Il papa fuma, il papa è cattivo, il papa a volte non crede. I cardinali e i vescovi sono avvezzi all’intrigo, all’ira, al tifo calcistico. La curia è centro di lusso, potere e marketing. Tutto pop tutto rock. La critica cattolica mugugna, storce il naso ma resta fedele al vecchio motto di Wilde: “Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli.” e quindi finge di criticarlo ma lo loda. A me Sorrentino piace. Punto. Per quel che vale. Istintivamente, fin da “This must be the place” del 2011 con David Byrne, Sean Penn, la figlia di Bono e la rappresentazione di Robert Smith dei Cure. Apprezzo Sorrentino da spettatore, per la fotografia, per le scenografie, per i caratteri che mette in scena. Molto italiano, molto napoletano, molto cinematografico. Jude Law è perfetto, come Silvio Orlando: “La Chiesa è donna” dice ad un certo punto. “L’assenza è presenza, sacrificio e sofferenza” afferma Lenny, il papa giovane. Materialità e spiritualità dell’esercizio apostolico: dopo il papa morettiano un diverso papa “sorrentiniano”.

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Attualità, Filosofia

San Grobian e i folli in barca.Mito, metafora ed iconografica realtà.

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Nella mitologia greca la follia è parte della natura umana esattamente come la ragione. Da Narciso a Oreste, dalle figlie del Re Argo a Iò, Erigone e le figlie di Cecrope fino a Cassandra, le figure mitologiche legate alla follia abbondano.

La nozione di follia (manìa) non contemplava la dimensione della patologia, della malattia. «i beni più grandi vengono a noi attraverso la follia»(Platone Fedro, 244a). Non tutte le forme di follia, s’ intende: solo la follia che giunge «per dono divino».

Ma qual è questa «divina follia»? Platone lo dice: quella del poeta ispirato che scopre in sé energie creative, quella del profeta che spinge lo sguardo nell’ invisibile, quella di Dioniso che consente di entrare in uno stato mentale che i Greci definivano estasi, in cui un uomo percepisce di avere «un dio dentro di sé», e infine, la follia di Amore, che porta l’anima vicino alla sua vera natura  e, infine, la più nobile: amore per la bellezza e rapimento divino che mettono le ali all’anima filosofica.

E’ la follia mantica delle baccanti che celebrando i riti dionisiaci seminavano terrore e violenza nei villaggi alle pendici del Citerone devastando, rapendo bambini e mettendo in fuga la popolazione, sbranando carne umana, invasate dalla danza sfrenata. E’ la follia filosofica del Fedro, dove Socrate descrive la ragione (dianoia) come dotata di ali che l’amore per la bellezza ed il ricordo forniscono di vento, ed il filosofo è un interprete che veicola nel logos un potere divino che va al di là della ragione. “Il filosofo è folle, nel senso di essere-presente-a-ciò-che-non-è-presente e dunque essere ‘al di là di se stesso.”

Da questa visione greca ci siamo in seguito sempre più allontanati verso una prospettiva razionalista e specialistica, in cui manìa è terrore e il maniaco diventa malato da curare separatamente con farmaci.

La nave dei folli è una metafora che attraversa la storia dell’umanità come una filigrana oscura a partire dai primi secoli in Grecia come figura della stoltezza volgare, attraversando il medio evo come emblema  di stramberie eretiche  e galera galleggiante, dalle navicelle spaziali agli shuttle esplosi in decollo,  fino alla marea umana che straripa in imbarcazioni di fortuna che scompaiono e ricompaiono nel Mediterraneo sovrastate da mastodonti del mare che rigurgitano di quei folli prima relegati su bagnarole medievali, che ora gozzovigliano paganti e riveriti. Ship of fools, Narrenschiff, stultifera navis, immagine che ha la forza “ della facoltà compiutamente poetica – profetica – di volgere la realtà in figura, vale a dire in destino“ come direbbe la Campo.

Come figura dell’immaginario di allontanamento dalla ragione e dalla virtù del giusto,  la nave giunge a noi carica di suggestioni altalenanti tra il logos politikos l’intenzionalità politica e la crisi della polis, la disfunzionalità sociale: dall’aretè (ἀρετή) alla technè (τέχνη), dalla virtù del reggitore alla tecnica del potere,  cifra di un tempo di tragica povertà e misera bruttezza.

Nel Libro VI della Repubblica Platone introduce per la prima volta la metafora della nave governata da falsi marinai, timonieri squinternati, pazzi e ammutinati; il filosofo ne tratta a proposito del valore delle virtù filosofiche e del ruolo dei filosofi nella società e anche del discredito che essi scontano agli occhi del popolo. Su tale nave i rappresentanti della gente incolta non riconoscono il valore del meritevole capitano ma tra loro i più stupidi, ebbri, malvagi e corrotti contendono al valoroso la guida della nave, che necessita invece delle virtù e delle competenze di un vero esperto di venti, di stagioni, del cielo. L’intero passo platonico è improntato ad una critica della democrazia ateniese e della sua degenerazione nella demagogia, avvertibile soprattutto nelle adunanze pubbliche: oltre a condannare il popolo, primo responsabile della propria corruzione, Platone assimila i sofisti e i retori ai demagoghi che con la loro poca arte illusoria ammaliano i creduloni. E’ il tema del valore della filosofia nella società, e quello del valore della società per la filosofia.

“Immagina che su molte navi o su una sola accada un fatto di questo genere: da una parte un capitano che supera per statura e forza fisica tutto l’equipaggio, ma è un po’ sordo, ha la vista corta ed è provvisto di scarse conoscenze nautiche, dall’altra i marinai che litigano tra loro per il governo della nave, (…)  Essi stanno sempre attorno al capitano, pregandolo e facendo di tutto perché affidi loro il timone, e se talvolta riescono a persuaderlo altri invece che loro, li uccidono o li gettano giù dalla nave, e dopo aver reso innocuo il buon capitano con la mandragora, con l’ebbrezza o in qualche altro modo, si mettono al comando della nave consumando le provviste e navigano tra bevute e banchetti, (…) e non hanno neanche idea che il vero timoniere deve preoccuparsi dell’anno, delle stagioni, del cielo, delle stelle, dei venti e di tutto quanto concerne la sua arte, se realmente vuole essere un comandante, anzi sono convinti che, senza sapere né in teoria né in pratica come si guida una nave a prescindere dal volere della ciurma, sia possibile imparare quest’arte nel momento in cui si prende in mano il timone. Se sulle navi accadessero fatti del genere, non pensi che il vero timoniere sarebbe chiamato dall’equipaggio di navi così combinate acchiappanuvole, chiacchierone e inutile?”

Da metafora platonica del malgoverno nell’Europa del Rinascimento l’immagine  della nave dei pazzi ritorna come critica sociale nella visone satirica di Sebastian Brandt, nella pittura di Bosch omonima raffigurante una società alla deriva, mentre si riaffaccia la questione della follia nell’elogio di Erasmo da Rotterdam.

Das Narrenschiff  “composta da una serie di 112 satire brevi (con l’aggiunta di due capitoli nell’edizione del 1495), illustrata con xilografie, è degna di nota anche perché molte di esse sono state eseguite da Albrecht Dürer, già attivo a Basilea negli anni precedenti. Buona parte del libro ha un contenuto di critica verso la società dell’epoca. Brant in effetti fustiga con vigore e senza posa la debolezza e i vizi del suo tempo.”

“Non pensare che noi soli siamo folli. Abbiamo ancora fratelli grandi e piccoli in ogni paese da tutte le parti. Senza fine è il numero dei folli. Andiamo in giro per tutti i paesi, da Narbona al paese di Cuccagna. Poi vogliamo andare a Montefiascone, e pure nel paese di Narragonia. Visitiamo ogni porto ed ogni riviera. Andiamo in giro con grave danno, per non possiamo trovare la riviera, dove si deve prendere terra. Il nostro vagare è senza fine, perchè nessuno sa dove approdare. E non trova quiete di giorno e di notte; nessuno dei nostri presta attenzione alla saggezza…”

Bosch dipinse La nave dei folli (opera restaurata tra il 2013 ed il 2015, oggi al Louvre), probabilmente nel 1494, nel suo stile solitamente allegorico e ricco di simbologie mistiche e teologiche atte a deprecare vizi e illuminare miserie morali e corruttele sociali; una pittura  visionaria, allucinata, mostruosa, simbolica,  la sua tecnica sbalorditiva per uso di colori e cura del dettaglio, i suoi personaggi inquietanti e caratterizzati da deformità, metamorfosi, pose e atti surreali; il dipinto in questione rappresenta un piccolo gruppo di fannulloni sfaccendati ebbri e dissoluti, raccolti una piccola imbarcazione fluviale. (cfr. https://fareondeblog.wordpress.com/2016/06/19/visioni-dellal-di-la-bosch-a-venezia/ )

“La Nave dei folli mostra una folla di personaggi stretti su una piccola imbarcazione, intenti a sprecare la propria vita nei vizi. La condanna del peccato, tema ricorrente nelle opere dell’artista fiammingo, si può accostare a quest’opera per la presenza di più elementi topici: si scorgono ad esempio tra i personaggi gesti e movenze poi ripresentate in altre opere simili, oltre alla presenza di simboli quali il gufo, in cima all’albero, e la ciliegia sul tavolo, entrambi icone del peccato, nonché la mezzaluna musulmana sul vessillo attaccato all’albero, che è un vero “albero”, a cui sono legati dei polli spennati, che un uomo, simbolo probabilmente della gola, si appresta a prendere.”

Poco più tardi Erasmo pubblicò, nel 1511, scritto mentre valicava le Alpi, il testo per cui è universalmente riconosciuto: l’Elogio della Follia dedicato a Tommaso Moro (Moriae encomium), operetta di grande successo in seguito sopravvalutata e iper citata quanto mal capita e manipolata soprattutto nel ‘900, forse per quell’allure chic anni ’70, tempi di antipsichiatria e basagliane liberazioni, in cui la pazzia fu equiparata alla causa effetto di liberazioni dei vincoli sociali di un supposto oscurantismo borghese,  o all’opposto in una teoria molto liberal che intende celebrare i vizi fingendo di criticarli, che li ritiene maggiormente tollerabili se cantati da autori del passato di cui nasconde la finta facezia sentendosi assolta nella personale dissolutezza.

“Non c’è rapporto sociale, non c’è legame di convivenza che possa essere piacevole o duraturo senza di me (…) Se poi volete sapere il luogo di nascita (…) io non sono nata né sull’isola di Delo errante, né dall’ondoso mare, né nelle profonde caverne, bensì proprio nelle Isole Fortunate, dove tutto germoglia senza che si debba seminare ed arare, dove non c’è assolutamente fatica né vecchiaia né morte, dove nei campi non si vedono mai asfodeli, malve, cipolle marittime, lupini o fave o altre erbacce del genere, ma dovunque danno piacere alla vista e gusto all’odorato moly, panacea, nepente, maggiorana, ambrosia, loto, rosa, viola, giacinto, giardinetti di Adone. Io, nata tra queste delizie, non ho affatto cominciato a vivere piangendo, bensì  ho subito sorriso carezzevole alla madre. Non la invidio davvero, poi, al sublime figlio di Crono la capra nutrice, essendo stata nutrita alla mammella da due amabilissime ninfe, Ebbrezza figlia di bacco e Incultura figlia di Pan (…)”

Sarà Foucault a riprendere con la Storia della follia – inizialmente concepita come tesi di dottorato dal titolo Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique –   il tema della figura letteraria e leggendaria della Stultifera navis che, come ricorda Foucault, «ha ossessionato l’immaginazione di tutto il primo Rinascimento ».  Pubblicato la prima volta in Francia nel 1961, il libro era stato completato in forma di bozza dal 1958, quando Foucault lasciò la Svezia per un lavoro come addetto culturale a Varsavia, Polonia. Foucault aveva svolto il grosso del lavoro di ricerca mentre viveva a Uppsala.

Secondo la nota teoria dei dispositivi istituzionali di contenimento e controllo anche la nave rappresenta il mezzo attraverso cui la società esclude, isola e allontana la follia dalla società onorata e razionalmente ordinata, la quale non pare interessata alla ragione della virtù platonica quanto ad allontanare uno spettro che teme perché spariglia, disordina, scompiglia. In questa nuova prospettiva, con  Foucault, la follia è destinata a perdere ogni sua dimensione tragica per essere ridotta, come del resto accadrà da lì a breve, a malattia del cervello, a fenomeno fisiologico nell’ottica dei bio potere individuale manipolabile e materiale. La segregazione istituzionale avviene sul principio della disumanizzazione.

«Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri: a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo; nei primi anni del XV secolo un pazzo criminale è spedito nello stesso modo a Magonza. Talvolta i marinai gettano a terra questi passeggeri scomodi ancor prima di quanto avevano promesso; ne è testimone quel fabbro di Fracoforte, due volte partito e due volte ritornato, prima di essere ricondotto definitivamente a Kreuzenach. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli.» (M. Foucault, Storia della follia, )

La navigazione è allo stesso tempo simbolo dell’isolamento e della purificazione, esclusione e prevenzione, preludio dell’internamento e rito misterioso e misericordioso che si riconduce ad antiche tradizioni magiche che nel Medioevo affiancavano costantemente l’immagine del folle. Affidare il folle alle acque significa evitare che si aggiri senza meta e pericolosamente senza scopo sotto le mura della città, assicurarsi che andrà lontano, renderlo prigioniero della sua stessa partenza. La navigazione abbandona l’uomo all’incertezza della sorte. La sua esclusione deve racchiuderlo, lo si trattiene sul luogo del passaggio. L’acqua e la navigazione hanno proprio la funzione di rendere prigioniero il folle in un nave da cui non si evade. Egli è il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio. Quando poi mette piede a terra, non si sa da quale paese venga. Egli non ha verità né patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli.

“Confinato sulla nave, da cui non c’è scampo, il pazzo viene consegnato al fiume con le sue mille braccia, il mare con le sue mille strade, a quella grande incertezza esterna a tutto. Lui è un prigioniero nel bel mezzo di quello che è il più libero, crocevia: confine aperto all’infinito. Egli è il Passeggero per eccellenza: cioè, il prigioniero del passaggio. E la terra che raggiungerà è  sconosciuta- come è, una volta che sbarca, la terra da cui proviene. Ha la sua verità e la sua terra solo in quella distesa sterile tra due paesi che non possono appartenere a lui. […] Una cosa almeno è certa: l’acqua e la follia sono stati a lungo legato nei sogni di uomo europeo.”

Negli anni ’60 anche il cinema e la musica rock vedranno una riproposizione del tema nave dei folli.

La nave dei folli (Ship of Fools) è un film del 1965 (scritto da Abby Mann, ispiratosi al romanzo omonimo  del 1962 di Katherine Anne Porter),  diretto da Stanley Kramer con Vivienne Leigh  si svolge in 27 giorni, il tempo che una nave tedesca impiega a fare una traversata da Veracruz a Brema nell’agosto 1931; il nazismo si profila all’orizzonte, i passeggeri della nave vivono le loro storie private  drammatiche, grottesche,  incredibili: Mary vive con l’incubo di rimanere sola; una nobile spagnola, deportata perché fautrice di una rivolta popolare, tenta di avere una storia d’amore con il medico di bordo; Bill, un fallito giocatore di baseball, è costretto a rientrare nell’anonimato; Lowenthal, un ebreo tedesco viene dileggiato dai suoi compatrioti.

Jim Morrison nel 1970 con i Doors inserisce la traccia Ship of fools nell’album “Morrison Hotel – Hard Rock Cafè”  preludio decadente e rock dell’epilogo “LA Woman” e della sua tragica fine, in cui con la sua profonda voce da crooner (che non era) canta lo sbarco lunare del 1969, ultima navigazione folle dell’umanità :  “The human race was diyng out, no one left to scream and shout, people walking on the moon, smog will get you pretty soon. Come on people better climb on board Come on babe we’re not going home Ship of fools – la razza umana stava morendo, nessuno lasciato a urlare e far casino, gente che cammina sulla luna, lo smog presto vi rapirà. Forza gente salite a bordo fareste bene a salire, forza non stiamo andando a casa, la nave dei folli”  (vedi anche: https://fareondeblog.wordpress.com/2016/07/03/ode-a-james-douglas-morrison/). Non immaginava forse che –  invece che rapito dallo smog – da lì a qualche anno davvero uno shuttle ( navicella spaziale) sarebbe effettivamente esploso in volo nll’atmosfera.

Oggi tra le povere e sfasciate imbarcazioni di fortuna dei “pazzi” in fuga dalla miseria, dalle guerre africane e mediorientali, (anche dalla follia dei loro simili talvolta) da un lato, ed i “pazzi” di consumo e benessere a bordo di enormi navi grattacielo per crociere infinite, l’eterna nave dei folli continua la sua navigazione al largo delle nostre coscienze. La manipolazione del biopotere usurpa i simboli dell’immaginario perchè il biopotere medesimo non ha simboli propri ma vive espropriando archetipi altrui.

E, infine,  come scrive Galimberti: “Se la follia è proprio la “scissione” nell’uomo, la sua “lontananza” dagli altri, la sua “estraneità” al mondo, come si può pensare di guarire applicando una dottrina i cui principi sono l’esatta riproduzione delle componenti della follia?” ( U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia)

Sulla zattera del tempo

che sta per affondare,

in libertà di vento

spezzo il pane del giusto.

Prima di seguire i lampi,

le anime senza gloria,

devo andare dove la goia

è un verbo sui monti.

( Aldo Vianello, In libertà di vento - Selected Poems 
Anvil press poetry, 2008)

(n.d.a. : San Grobian non esiste è un santo immaginario, dal latino medievale  Sanctus Grobianus è il santo patrono delle persone volgari e grossolane. Il suo nome deriva dal tedesco Grob o grop, nel senso di grossolano o volgare. Anche gerob, gerop, grobheit. La parola “grobianism” translata nella lingua inglese è diventata sinonimo di grezzo, sciatto, o buffonesco.)

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Attualità, Etica

La schiavitù del consumo. “Work hard, party harder”

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Img: boligan.com

Siamo tutti più poveri dopo 8 anni di crisi? Oggi la crisi (crino) dovrebbe permetterci di essere critici. Ma, tranne poche eccezioni, ci troviamo in una situazione singolare: viviamo la crisi ma non pensiamo a un modo di essere alternativo. Come spendiamo i soldi che guadagniamo con 4 – 5 – 10 – 15 – 20 ore di lavoro quotidiano? A chi li diamo indietro? Allo stato, alle banche, a quale azienda, a quale lobby? Da quale idea di consumo siamo stati formati e quale pratica oggi esercitiamo come consumatori?

L’imperativo del consumo è un’impeto di obbedienza a un ordine non pronunciato: essere uguale agli altri nel consumare.

L’etica del consumo sfrenato non ha limiti, la stessa fine della crisi ( che dura dal 2008) è vista solo nella ripresa dei consumi, gli stessi 80 euro di Renzi  avevano come obiettivo la ripresa dei consumi, l’accesso al consumo è sinonimo di uguaglianza, la carta dei diritti dell’homo oeconomicus recita al primo punto:  il consumo illimitato è il bene supremo. Più lavori, più consumi, più puoi godere in questa gabbia neo globale (“confortevole, levigata, ragionata, democratica non-libertà” (Marcuse).

Non potrebbe invece essere il tempo di un pensare verso una teoria della renitenza in senso intellettuale e spirituale?

Se il paradigma attuale vigente nel mondo globale in cui viviamo è sapere, saper fare, saper essere, ( saper spendere) un pensiero oppositivo radicale che si ponga contro questa logica, parafrasandola criticamente con Socrate, potrebbe dire: non sapere, non saper fare, non saper essere ( non spendere invano). Si tratta di opporre un netto rifiuto, una opposizione radicale e ontologica alla declinazione antropologica del sistema tardo selvaggio/ liberista. Non voglio sapere il vostro sapere, non voglio saper fare le cose che volete io sappia fare, non voglio essere come voi volete. Non serve affatto trovare supporti alla domanda di prestazione competitiva, basata sulle competenze, sulla funzionalità usurante, sull’adattabilità e precarietà, sul farsi condurre placidamente al pascolo del consumismo indebitato, a questo basta la morente sociologia del lavoro e la retorica sociale del benessere, tutti vogliono qualcosa da noi con la scusa dell’inserimento sociale. Ma perchè non piuttosto volgere lo sguardo dove essere umani possa ancora dirsi necessario, con potenza creativa e gioia? Non manca / serve un pensiero fondante in grado di dare ragione di tutto ciò che non si ritaglia dentro questa cornice elettronica di finto sviluppo, a tutti coloro che non si attanagliano a questo schema, che lo vivono male con sofferenza, fatica,  e non intendono subirlo. (cfr. https://fareondeblog.wordpress.com/2015/06/19/sofia-e-polis-pratica-filosofica-e-agire-politico/ )

Non esiste più da tempo un etica improntato all’aidos . “Nella prospettiva greca del primo arcaismo l’idea più vicina a quella di “pudore” viene espressa attraverso il campo semantico della parola aidós (αἰδώς, traduzione provvisoria: “vergogna”, “ritegno”) che descrive l’atteggiamento che si sviluppa in un soggetto nel momento in cui egli si rende conto che un proprio comportamento sarà oggetto di biasimo. Dico atteggiamento, e non emozione, a ragion veduta. Aidós infatti non identifica un dato esclusivamente psicologico; è anzi una parola sfuggente, dai contorni sfrangiati, in parte anche intraducibile, che si trova applicata a un ventaglio di situazioni tanto vaste da far dedurre che la sua rilevanza nel sistema di valori della grecità arcaica fosse enormemente più ampia rispetto a ciò che potrebbe essere, ad esempio, il pudor latino o ancora di più il concetto moderno di pudore, ad esempio quello espresso dall’inglese shame.” (Guidorizzi, Conti )

Siamo infatti circondati da spudorati, che vantano il diritto a vantarsi delle proprie deficienze come delle proprie supposte capacità migliori, esibizione, cattivo gusto, ostentazione. La civiltà dei consumi piange la crisi non per la precarietà del senso e della prospettiva futura, – “chi se ne fotte del futuro!  siamo poveri ora, qui , adesso, e io invece  me la voglio godere!”  – questo è il lamento del consumatore frustrato.

Produzione e consumo sono in crisi, (L’Ocse taglia le stime sul Pil: l’Italia crescerà solo dello 0,8% nel 2016 e 2017 ) l’educazione è in crisi ( “Scuola, l’Ocse: Italia penultima per spesa, record di Neet e prof anziani) dalle crisi di mercato ( dribblata dalla scoperta dei Paesi Emergenti, solo come nuove frontiere commerciali) alle crisi della materie prime, (saccheggiate dove abbondano a costo bassissimo) fino alle crisi della democrazia elettorale ( ben esemplificata dal terzo governo nazionale senza elezioni in Italia) sembrano configurare una nuova Europa globale quale destino non solo di precarietà e di crisi fatti sistema, ma di assoluta noncuranza di senso e di interrogazione.

E, mi raccomando,  rifiutate la condivisione dei contatti WhatsApp …Don’t share!

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Attualità

Ode a James Douglas Morrison

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Poeta malgrado il rock.

Sono passati 45 anni dalla morte a Parigi di James Douglas Morrison cantante e poeta.

Chi non avrebbe voluto essere Jim Morrison? Bello, famoso, ricco e intelligente, una divinità contemporanea; che stando a quanto se ne è saputo forse morì solo come un cane nel bagno di un locale malfamato a Parigi. Morì per overdose, sembra, e fu trasportato di peso, forse già cadavere, nella vasca da bagno dell’appartamento che aveva preso in affitto in rue de Beautreillis 17 con Pamela Courson la sua ragazza, nei pressi di una delle abitazioni che furono di Baudelaire, e quindi infine fu velocemente inumato. Questa versione della sua fine ci mise molto tempo ad emergere pubblicamente (anni ’90) perchè subito si sparsero voci e dubbi sulle reali circostanze della sua morte. In ogni caso la causa ufficiale fu arresto cardiaco a casa, nella notte verso l’alba come raccontava Pamela, magari era la verità ma allora e in seguito nessuno le credette. Negli anni a venire sulla sua morte fu costruita una leggenda memorabile: fuggito in Marocco, fintosi defunto per rifarsi una vita anonima, avvistato in giro per il mondo, fatto fuori dai servizi e altre fantasie. Pare che lo stesso Manzarek, amico dei tempi dell’UCLA e co fondatore dei Doors ne fosse convinto, almeno fino a tutti gli anni ’70.

Rock star famosissima nel 1968 negli USA, periodo d’oro del rock, ne fuggiva le lusinghe, incarnava una sensualità erotica insolente, cantava versi apocalittici accompagnato da musicisti che mixavano jazz, soul e flamenco in un hard rock psichedelico grazie al suono tipico della tastiera Vox Continental e del Fender Rhodes piano bass di Ray Manzarek tastierista (organist diceva di sè) e co fondatore dei Doors di Venice California con John Densmore e Robbie Krieger. The Doors furono “un’anomalia nel pantheon del rock perché univano spiritualità, poesia, psichedelia e un coacervo di stili musicali differenti per via delle caratteristiche del tutto particolari ed estrose dei suoi componenti”

La carriera rock di Jim Morrison durò a ben vedere pochissimi anni, dal 1966 al 1971 per la precisione, e lui si dedicò con meticolosa, ingenua inconsapevolezza dionisiaca ad autodistruggersi tra concerti, deserti californiani, trip, alcool, donne e altro, in seguito anche all’incriminazione per atti osceni dopo un concerto a Miami nel ’69 (annullando una tourneè che avrebbe dovuto portarlo anche in Italia) dove alquanto alterato inveì contro il pubblico ed il mondo intero. In questi 5 anni cantò e suonò in 9 album, girò gli USA e un poco l’Europa e in Messico in brevi tournée, divenne famigerato nell’ambiente come ubriacone casinista molesto e, prima di andare a morire a Parigi e di essere sepolto al Père-Lachaise, riuscì ad esibirsi in alcuni dei suoi concerti migliori nel corso dell’ultimo tour nel 1970, in seguito pubblicati postumi a partire da registrazioni inedite tra le quali spiccano Live in Detroit 2000, Bright Midnight: Live in America 2001, Live in Philadelphia, 2005 e Live in New York 2009; (Bright Midnight Archives/ Rhino).

Una vita breve per una cometa del rock, un astro fulmineo ed esplosivo. Icona a venire dei belli e dannati mortigiovani del rock, cari agli dei. Fino circa al 1978 di Jim Morrison si perse quasi memoria e poi nel giro di una decina d’anni l’edificazione commerciale del mito iconografico; a partire dalla pubblicazione del postumo An America Prayer, forse ancora sincero, in cui i membri sopravissuti suonarono su brani vocali cantati e registrati da Morrison tra il 1969 e il 1970. In seguito ci furono le sequenze di Apocalypse Now di F. F. Coppola sulle note di The end nel 1979, l’uscita della (pessima) biografia No one here gets out alive “Nessuno uscirà vivo di qui” di Hopkins e Sugerman nel 1980, la pubblicazione di materiale live inedito in Alive she cried, un Greatest hits che vendette 2 milioni di copie ed infine il film di Oliver Stone del 1990, tappe che sancirono l’ingresso di Morrison nell’immortale saga rock ‘n’ roll. Un immaginario costruito con pezzi che contribuirono alla costruzione del mito che si centrava tutto sullo sballo, sul ribellismo e sulla stravaganza, meno sul simbolismo tragico e surrealista della sua poetica disincantata.

Tutto bello e avvincente per orde di fan adolescenti che difatti strafatti vollero emularlo in nubi di alcoolici furori e vaneggi poetici. Jim era l’emblema perfetto dell’amancipazione, tanto che successivamente alla caduta del muro nel 1991 Parigi fu invasa da migliaia di fan oltrecortina (di ferro): polacchi, ungheresi, cechi, slovacchi, lettoni, russi, moldavi, ucraini e rumeni che si accamparono al Père-Lachaise e fecero così tanto casino che fu necessario l’intervento delle forze antisommossa per sgomberarli. Da allora la tomba di Morrison è meta di un pellegrinaggio continuo e inesorabile. Negli anni a venire il marchio The Doors divenne una miniera d’oro per i membri restanti e gli eredi che riuscirono a spremere ogni singola parola incisa, ogni (anche inutile) canzone registrata, qualsiasi immagine e frame ritrovati, fino a vendere i bootlegs e le tazze sul sito del gruppo.

Il gruppo di Venice in una manciata d’anni di musica ha portato il suo onesto e piccolo contributo a quella forma d’arte di massa contemporanea chiamata rock. Oggi se si guardano video e foto di quegli anni si resta colpiti dalla semplicità dei mezzi, dagli spazi inadeguati, dal caos e dall’improvvisazione e tutto ciò stride con la scientifica macchina tecnologica degli eventi live contemporanei. Certo le represse adolescenti d’america ammiravano estasiate il bel tenebroso in pelle nera, lui però cantava il desolante nichilismo contemporaneo: “lions in the street and roaming, Dogs in heat, rabid, foaming. A beast caged in the heart of a city (…) Dead cats dead rats” – Leoni vagano per la strada, cani in calore, rabbiosi, schiumanti, una bestia rinchiusa nel cuore della città (…) Gatti morti, topi morti”.

In realtà Morrison in vita tentò di ribellarsi all’etichetta di sex symbol per adolescenti americane anni ’60 che la giostra rock gli aveva cucito addosso, (e che lui stesso alimentò) a partire dal 1969 pubblicò due raccolte di poesie visionarie e psichedeliche che vennero semplicemente ignorate: la prima fu An American Prayer, Los Angeles, Western Lithographers stampato privatamente con tiratura limitata di 500 copie nel 1969 la seconda fu The Lords & The New Creatures, New York, Simon & Schuster, 1970. Morrison sognava una nuova vita da scrittore o regista, visto che il cinema fu uno dei suoi interessi avendo studiato cinematografia presso l’UCLA, l’Università della California di Los Angeles, non ci riuscì (sebbene al suo attivo in vita riuscì ad avere anche un paio di film: Feast of friends e Hwy), ma sarà ricordato in eterno come Jim Morrison dei Doors “poeta sfrenato, ribelle, stronzo e tragica leggenda americana” come scrive Stephen Davis nella biografia del 2004.

Prima della sua morte, avvenuta a Parigi il 3 luglio del 1971, Morrison scrisse a mano una lista, intitolata Plan for book, appunti su una raccolta di poesie, testi e altri lavori. Ne diede testimonianza anche il poeta McCLure che vide un baule contenete questo e altri scritti inediti.

“La scena era il luogo dove Jim Morrison aveva imparato a vivere e a realizzare davanti agli altri la propria vocazione” Ribelle, sciamano, clown, e poeta visionario come Rimbaud a cui Wallace Fowlie, un professore emerito alla Duke University lo accosta in un saggio del 1994 “Rimbaud e Jim Morrison. Il poeta come ribelle” ancora ammantato dal mito Jim Morrison. I suoi ultimi scritti sono disponili in Tempesta elettrica 2002, Mondadori.

C’è anche, e pesa molto più che il liquidarla come ipotesi complottista potrebbe far supporre, la questione politica. Jim Morrison fu nel 1968 in piena contestazione anti Vietnam negli USA la rockstar più famosa e acclamata dai teenager americani. Si trovò a rappresentare inconsapevolmente lo spirito di un’epoca di grandi tensioni sociali in America. I Doors pubblicarono il loro primo singolo dall’album Waiting for the sun a marzo di quell’anno, la canzone era Unknow soldier (il milite ignoto) un esplicito invito antimilitarista, con il verso finale ripetuto a sfumare war is over ( un anno prima di Lennon e Yoko Ono). Presidente era Lyndon Johnson, iniziatore della guerra, a cui seguì Nixon che inaugurò una dura campagna conservatrice appena eletto nel 1969. L’anno di Miami e del processo a Morrison, che, è bene ricordarlo era figlio di un ammiraglio della Marina Usa. Esiste un dossier FBI su Jim Morrison. Forse Morrison fu trattato come simbolo di una cultura alternativa e contestataria e in questo modo diventando politicamente un bersaglio da abbattere? Esiste anche questa teoria.

Del Morrsion poeta poco è stato scritto fuori dall’icona rock.

“Morrison’s poetic style is characterized by contrived ambiguity of meaning which serves to express subconscious thought and feeling–a tendency now generally associated with the postmodern or avant garde. His poetic strength is that he creates poetry quite profound in its effect upon the reader, by using vividly evocative words and images in his poems.(…) Morrison’s poetry is very surreal at times, as well as highly symbolic–there is a pervading sense of the irrational, chaotic, and the violent; an effect produced by startling juxtapositions of images and words.”(William Cook • July 12th, 2003 – Literary kikcs – http://www.litkicks.com/JamesDouglasMorrison#.U_i40rx_vc4)

“Lo stile poetico di Morrison è caratterizzato da un’artificiosa ambiguità di significato che serve a esprimere il pensiero e il sentimento dell’inconscio. Una tendenza ormai generalmente associata al post-moderno o d’avanguardia. La sua forza poetica fu creare una poesia che agisce molto profondamente sul lettore, usando parole e immagini vividamente evocative (…) La poesia di Morrison è molto surreale, a volte, così come e’ altamente simbolica – c’è un pervadente senso di irrazionalità, caos e violenza; un effetto prodotto da sorprendenti accostamenti di immagini e parole”

Nelle sue canzoni e nelle sue poesie cantava un’America spettrale, una landa deserta popolata di mostri, come i dipinti di Bosch, di assassini autostoppisti e pazzi, una visione tragica e allucinata del reale pervade tutta la sua opera; la sua poesia fu surreale e visionaria, i suoi miti furono Blake, Rimbaud, Nietzsche (per il diploma si fece regalare l’opera omnia del filosofo) il teatro di Artaud e il Living Theatre, il blues americano, le donne e l’alcool; prediligeva immagini del deserto, popolate da rettili, visioni psichedeliche e dionisiache. Una poetica oscura, tragica, un lampeggiare di immagini spettrali e surreali, un deserto metropolitano animato da esseri inconsapevoli e miseri, un futuro incerto.

We all live in the city.

The city forms–often physically, but inevitably psychically–a circle. A Game. A ring of death with sex at its center. Drive toward outskirts of city suburbs. At the edge discover zones of sophisticated vice and boredom, child prostitution. But in the grimy ring immediately surrounding the daylight business district exists the only real crowd life of our mound, the only street life, night life. Diseased specimens in dollar hotels, low boarding houses, bars, pawn shops, burlesques and brothels, in dying arcades which never die, in streets and streets of all-night cinemas.

Noi tutti viviamo in città

La città forma – spesso fisicamente, ma inevitabilmente psichicamente – un cerchio . Un gioco. Un anello di morte con il sesso al suo centro. Indirizzato verso i bassifondi della periferia della città . Ai margini si scoprono zone di vizi sofisticati e la noia , la prostituzione infantile. Ma nella sordida cerchia che cinge dappresso i distretti degli affari alla luce del sole esiste l’unica vera vita collettiva della nostra specie, l’unica via di strada, vita notturna. Gli esemplari malati negli hotel d pochi soldi, case a buon prezzo, bar, banchi dei pegni, varietà e bordelli, in portici morenti che non muoiono mai, in strade e strade di cinema notturni.

Le canzoni però restano, alcune grandi, a volte piene di energia e di calore, altre invece ipnotiche oscuramente evocative. Break on through, Soul Kitchen, The end, Light my fire, When the music’s over, Moonlight drive, The soft parade, Ship of fools, Queen of the highway, Roadhouse blues, LA woman, Riders on the storm, The changeling.

“I’d like to do a song or a piece of music that’s just a pure expression of joy. Pure like a celebration of existence, you know? And like the coming of spring, like a sun rising. Just pure unbounded joy. I don’t think we’ve really done that yet.”

“Mi piacerebbe fare una canzone o un pezzo di musica che è solo una pura espressione di gioia. Pura come una celebrazione dell’esistenza, hai presente ? E come l’arrivo della primavera, come un sole che sorge. Solo pura gioia sconfinata. Non credo che l’abbiamo ancora fatto veramente”

Nuotiamo verso la luna, scaliamo la marea, penetriamo la sera che la città addormentata nasconde – “Let’s swim to the moon, let’s climb to the tide, penetrate the evening that the city sleeps to hide” ( Moonlight drive). Ora arriva la notte con le sue legioni purpuree. Ritiratevi nelle vostre tende e nei vostri sogni. Domani entriamo nella città dove nacqui. Voglio essere pronto. Now Night arrives with her purple legion. Retire now to your tents & to your dreams. Tomorrow we enter the town of my birth. I want to be ready”. (The palace of exile – the celebration of the Lizard ).

“Il funerale durò circa otto minuti. Poi tutti se ne andarono. Nessuno rimase ad assistere all’inumazione. Due anziane vedove francesi, venute a far visita ai mariti defunti, sepolti nello stesso settore, furono testimoni del funerale di Jim Morrison. La loro impressione fu che il tutto si fosse svolto con una fretta indecorosa. Un funerale senza prete era una vergogna, pensavano. Quando gli spalatori finirono di riempirlo, si avvicinarono al tumulo. Tutto ciò che videro fu un piccolo riquadro di terra appena rivoltata. Niente lapide, e non ci sarebbe stata per anni. Una delle due donne prese una rosa di plastica sbiadita da una tomba vicina e la depose su quella di Jim Morrsion. (…) Nel 1995 gli eredi ripulirono il Père-Lachaise e stanziarono un fondo per un sistema di sorveglianza permanente. Sulla lapide di Jim fu affissa una grossa targa di bronzo con l’iscrizione greca ΚΑΤΑ ΤΟΝ ΔΑΙΜΟΝΑ ΕΑΥΤΟΥ – fedele al suo spirito ”

A giugno 2021 il Morrison Estate, cioè la famiglia che gestisce il lasciato di Morrison e gli eredi di Pamela Courson compagna e prima erede (deceduta 3 anni dopo) pubblicano per HarperCollins The Collected Works of Jim Morrison quasi 600 pagine, contenente tutti gli scritti, le poesie, gli articoli e i testi (alcuni mai registrati e inediti) di James Douglas Morrison.

Lo scritto inedito As I look back che chiude il volume, contiene alcuni versi illuminanti e autobiografici, che danno un’idea, a saperli leggere, molto lontana dal Jim Morrison mito dell’industria e dell’immaginario rock. In questo lungo scritto tratto da non precisati taccuini Morrison scrive in retrospettiva di diversi aspetti del sua vita, della musica dei Doors, il sound lugubrious snaky, “tetro e sinuoso dal peso come ghiaccio su vetro”, il desiderio di una famiglia, del business, la lontananza dalla revolutionary hysteria, l’isteria rivoluzionaria, l’ubriachezza come un buon nascondiglio, del rammarico per il tempo perduto, la paura del processo per Miami, e la perdita del piacere di esibirsi, piuttosto joy of filming is pleasure of writing, not an actor writerfilmmaker, regista o scrittore.

E il verso finale: Good-bye America I Loved you – Addio America ti ho amato.

(Tutti gli scritti di Jim Morrison. Poesie, diari, appunti e liriche – Rizzoli 2022

Stephen Davis, Jim Morrison. Vita, morte, leggenda – Mondadori 2005)

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