Attualità, Filosofia

Io, mondo, uomo.

Antropologia e distopia.

Cornelio Fabro, filosofo cattolico semi dimenticato nel 1969, scrisse (nel testo a commento della filosofia di Severino che contribuì al suo allontanamento della Cattolica) de “ l’uomo-fenomeno nella sua avventura storica”, che ha abbandonato la religione e filosofia verso la mitizzazione della scienza. Giovanni Maria Bertin, pedagogista, altrettanto dimenticato, nel 1968 scriveva “La civiltà sembra essere caratterizzata dal prepotere del consumo, anziché dal rispetto della dignità e dalla preoccupazione di liberare l’uomo. Lo sforzo massimo è in essi rivolto ad intensificare la produzione e ad allargare i mercati, in modo da elevare i profitti e (subordinatamente) elevare la capacità di acquisto delle masse lavoratrici affinché queste consumino sempre di più (…)

Questo potrebbe dire qualcosa dell’uomo dei nostri giorni, anche se son passati più di 50 anni.

Il Novecento soprattutto, è stato il secolo del materialismo economico, beni, produzione, mercato, consumo,  e dello scavare nel torbido, scrutare nel meandri del basso animalesco umano, scandagliare l’abisso per la consapevolezza del senso di colpa totalizzante e paralizzante, falsamente liberatorio. Il materialismo dialettico ha dominato il pensiero filosofico politico del Novecento fino al 1990 per poi decadere sommerso dai frutti da una prassi politica ed economica criminale e affamante. L’attualità frutto di quel secolo appare in quelle che  sembrano le tendenze filosofiche del nuovo millennio: scientismo assolutista e prevalenza di istinti biologici. E’ stato anche altro, il Novecento, ma questo è ciò che ne rimane oggi.

Società, informazione, cultura, politica, tecnologia, lavoro, giovani, educazione, economia, nessuno di questi ambiti si può dire al riparo da un’idea di crisi che permea tutto il nostro mondo della vita quotidiana e il nostro pensare la realtà. La nostra visione del mondo appare velata da uno schermo di mancanza di senso o peggio da una privazione di prospettiva.

Una società sempre più liquida, un’informazione così caotica che nemmeno l’idea di fake news riesce a contenerla e a garantire un discrimine, un generale ripensamento dei valori sociali e dell’etica, accelerazione dello sviluppo tecnologico e della sua pervasività, precarietà e prevalenza dell’economico, spaesamento cinismo e deprivazione del valore umano della relazione. Pandemia e guerre.

Il tempo sta cambiando. L’agire umano e l’esperienza perdono il loro primato nella complessità e nella scala dell’organizzazione sociale di oggi. Ibania, la città del controllo totale, occhiuto e pervasivo, è realtà. Gli attori protagonisti sono invece sistemi complessi, infrastrutture e reti in cui il futuro sostituisce il presente come condizione strutturante del tempo.

I dispositivi digitali hanno cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo ossessivo e sempre visualizzabile in immagini memetiche  attraverso uno schermo. Governato da un algoritmo. Il soggetto è parte uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si muovono disordinati e imprevedibili come insetti mutanti. Ci si interroga su ciò che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di sé per contare i “mi piace”, quando il privato esibito si trasforma in un pubblico che cannibalizza l’intimità e la privacy. E su cosa accade ad una società che mistifica la virtù in nome del performabile. E su che cosa comporta abdicare al significato e al senso per un’informazione reperibile sempre sincronicamente ma spesso deforme e inaffidabile.

La visione positiva della vita vissuta e autentica vista come vivere bene, nella dignità, negli affetti, nei propri valori, in una condizione nella quale ognuno possa esprimere liberamente e profondamente se stesso, in un clima di reciproco riconoscimento, sembra svanire come sogno o illusione, utopia.

Il tempo del presente necessita di un’etica della complessità, cioè di una capacità di comprendere diversi linguaggi, di farsi multialfabeta ovvero saper affrontare diverse “grammatiche” per comprendere il mondo e abitarlo consapevolmente. Forse queste grammatiche non ci sono o non abbiamo saputo apprenderle e insegnarle.

Oggi assistiamo al supermarket della consulenza, fast e blended. Veloce e personalizzata, di tutto un po’. Si riaffacciano residui e cascami che riaffiorano nel tentativo di promuovere terapie di pratiche che inseguono concetti e termini di natura diversa inoculati dalla cultura decadente del pensiero debole occidentale per cui colpa, paura, illusione, menzogna, inganno sono tutte derivazione di una antropologia patologica deteriore che vede l’essere umano come substrato materiale e organico, malato insano, preda di speranze vane, perniciose assuefazioni, inconscio torbido, ricordi rimossi, infanzie tradite, madri anaffettive e padri dispotici, violenze e libidini sottostanti azioni ripugnanti. La vita come deresponsabilizzazione istituzionalizzata, la sparizione della responsabilità e l’invenzione dell’inconscio. Tutto lavora sull’uomo come macchina desiderante. Si inventano bisogni, si alimentano paure.

Manca la chiarificazione emotivo razionale di una situazione esistenziale complessa ed in rapida evoluzione, di cui non si vede il telos, il fine ultimo, lo scopo. Chiarificazione emotivo razionale cioè quella competenza che è solo filosofica.

Sembra confermare questa asserzione anche la recente intervista dello psichiatra novantenne E. Borgna  «Le malattie mentali non esistono, non si possono dimostrare. Chi vuol fare lo psichiatra dovrebbe leggere Giacomo Leopardi. Ma anche Emily Dickinson e Giovanni Pascoli. Non si può curare la fragilità solo con gli psicofarmaci». Neppure la psichiatria sembra poterci aiutare.

A Milano qualcuno paga molti soldi per andare a sentire qualcuno che afferma candidamente: «Io non ho un lavoro e non ho mai lavorato in vita mia. E non ho nemmeno una vocazione. La sola cosa che sono bravo a fare è stare fermo a non fare niente.»

Possiamo stupirci se tutto ciò si ripercuote violentemente sulla nostra quotidianità, su cui proiettiamo di continuo fantasie patologiche autoavverantesi, e non sappiamo come reagire, se non chiedendo alle esauste e svuotate agenzie educative, o ad una classe dirigente palesemente inadeguata, di fare quello che scientemente abbiamo rinunciato a fare da svariati decenni?

«Chi ha un perché del vivere può sopportare quasi ogni come» Scriveva Nietzsche.

Noi abbiamo un perché?

Img: Bacon, autoritratto,1971

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