Attualità

Il Giorno del Ricordo 2004 – 2024

Attraverso i testi della Presidenza della Repubblica italiana, un modo per ricordare i vent’anni dell’istituzione del Giorno del Ricordo il 10 febbraio. Data simbolo della firma del Trattato di Pace di Parigi, monito e memoria, che sancì la perdita delle terre adriatiche.

La Repubblica italiana riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.

2005

Un lungo messaggio, quello diffuso dal Quirinale, con il quale Carlo Azeglio Ciampi esprime il proprio apprezzamento nei confronti della “Giornata del ricordo”, e rivolge il proprio pensiero “a coloro che perirono in condizioni atroci nelle foibe”, “alle sofferenze di quanti si videro costretti ad abbandonare per sempre le loro case in Istria e in Dalmazia”. Avvenimenti, afferma il Capo dello Stato, che “formano parte integrante della nostra vicenda nazionale, devono essere radicati nella nostra memoria, ricordati e spiegati alle nuove generazioni” .«La ricostruzione e la rinascita della nuova Italia – ha detto ancora Ciampi – costarono sacrifici grandissimi. In particolare, gli italiani delle terre d’Istria e di Dalmazia furono colpiti da una violenza cieca ed esecranda e dalla sventura di dover abbandonare case e luoghi familiari».

2007

Il dramma del popolo giuliano-dalmata fu scatenato «da un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenendo nel Giorno del ricordo. «Oggi che in Italia abbiamo posto fine ad un non giustificabile silenzio, e che siamo impegnati in Europa a riconoscere nella Slovenia un’amichevole partner e nella Croazia un nuovo candidato all’ingresso nell’Unione – ha sottolineato il capo dello Stato -, dobbiamo tuttavia ripetere con forza che dovunque, in seno al popolo italiano come nei rapporti tra i popoli, parte della riconciliazione, che fermamente vogliano, è la verità. È quello del Giorno del Ricordo è precisamente un solenne impegno di ristabilimento della verità».

2008

Giorgio Napolitano: “Oggi, le ferite lasciate da quei terribili anni si sono rimarginate in un’Europa pacifica, unita, dinamica; un’Europa consapevole che gli elementi che la uniscono sono infinitamente più forti di quelli che l’hanno divisa o possono dividerla; un’Europa che, grazie alla cultura della pace e dell’operosa convivenza civile, è riuscita a prosperare come nessun’altra regione al mondo. Eppure, questa stessa Europa ha visto i Paesi dei Balcani, parte integrante della propria storia e della propria identità, divenire teatro ancora pochi anni fa di conflitti sanguinosi, che hanno lacerato Stati, comunità, famiglie, in un cupo ritorno all’orrore del passato.

Sia dunque questo il monito del Giorno del Ricordo: se le ragioni dell’unità non prevarranno su quelle della discordia, se il dialogo non prevarrà sul pregiudizio, niente di quello che abbiamo faticosamente costruito può essere considerato per sempre acquisito. E a subirne l’oltraggio sarebbe in primo luogo la memoria delle vittime delle tragedie che ricordiamo oggi e il cui sacrificio si rivelerebbe vano. Dimostriamo dunque nei fatti che quegli Italiani che oggi onoriamo non sono dimenticati, e che il dolore di tanti non è stato sprecato; dimostriamo di aver appreso tutti la lezione della storia, e di voler contribuire allo sviluppo di rapporti di piena comprensione reciproca e feconda collaborazione con paesi e popoli che hanno raggiunto o tendono a raggiungere la grande famiglia dell’Unione Europea.”

2019

“Un capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenza e spargimento di sangue innocente. Mentre, infatti, sul territorio italiano la conclusione del conflitto contro i nazifascisti sanciva la fine dell’oppressione – ha detto ancora il capo dello Stato – e il graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli Italiani nelle zone occupate dalle truppe jugoslave”. “Non si trattò – come qualche storico negazionista o riduzionista ha provato a insinuare – di una ritorsione contro i torti del fascismo. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni. Solo dopo la caduta del muro di Berlino – il più vistoso, ma purtroppo non l’unico simbolo della divisione europea – una paziente e coraggiosa opera di ricerca storiografica, non senza vani e inaccettabili tentativi di delegittimazione, ha fatto piena luce sulla tragedia delle foibe e del successivo esodo – ha detto il capo dello Stato -, restituendo questa pagina strappata alla storia e all’identità della nazione”.

2020

Mattarella: ”Una tragedia provocata da una pianificata volontà di epurazione su base etnica e nazionalistica. Le foibe, con il loro carico di morte, di crudeltà inaudite, di violenza ingiustificata e ingiustificabile, sono il simbolo tragico di un capitolo di storia, ancora poco conosciuto e talvolta addirittura incompreso, che racconta la grande sofferenza delle popolazioni istriane, fiumane, dalmate e giuliane. Alla durissima occupazione nazi-fascista di queste terre, nelle quali un tempo convivevano popoli, culture, religioni diverse, seguì la violenza del comunismo titino, che scatenò su italiani inermi la rappresaglia, per un tempo molto lungo: dal 1943 al 1945. Le stragi, le violenze, le sofferenze patite dagli esuli giuliani, istriani, fiumani e dalmati non possono essere dimenticate, sminuite o rimosse. Esse fanno parte, a pieno titolo, della storia nazionale e ne rappresentano un capitolo incancellabile, che ci ammonisce sui gravissimi rischi del nazionalismo estremo, dell’odio etnico, della violenza ideologica eretta a sistema ».

2022

Sergio Mattarella. «Il Giorno del Ricordo richiama la Repubblica al raccoglimento e alla solidarietà con i familiari e i discendenti di quanti vennero uccisi con crudeltà e gettati nelle foibe, degli italiani strappati alle loro case e costretti all’esodo, di tutti coloro che al confine orientale dovettero pagare i costi umani più alti agli orrori della Seconda guerra mondiale e al suo prolungamento nella persecuzione, nel nazionalismo violento, nel totalitarismo oppressivo. È un impegno di civiltà conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli istriani, dei fiumani, dei dalmati e degli altri italiani che avevano radici in quelle terre, così ricche di cultura e storia e così macchiate di sangue innocente. I sopravvissuti e gli esuli, insieme alle loro famiglie, hanno tardato a veder riconosciuta la verità delle loro sofferenze. Una ferita che si è aggiunta alle altre.

2023

Sergio Mattarella. Siamo oggi qui, al Quirinale, per rendere onore a quelle vittime e, con loro, a tutte le vittime innocenti dei conflitti etnici e ideologici. Per restituire dignità e rispetto alle sofferenze di tanti nostri concittadini. Sofferenze acuite dall’indifferenza avvertita da molti dei trecentocinquantamila italiani dell’esodo, in fuga dalle loro case, che non sempre trovarono rispetto e solidarietà in maniera adeguata nella madrepatria. Furono sovente ignorati, guardati con sospetto, posti in campi poco dignitosi. Tra la soggezione alla dittatura comunista e il destino, amaro, dell’esilio, della perdita della casa, delle proprie radici, delle attività economiche, questi italiani compirono la scelta giusta. La scelta della libertà. Ma nelle difficoltà dell’immediato dopoguerra e nel clima della guerra fredda e dello scontro ideologico, che in Italia contrapponeva fautori dell’Occidente e sostenitori dello stalinismo, non furono compresi e incontrarono ostacoli ingiustificabili. Grazie al coraggio, all’azione instancabile e a volte faticosa delle associazioni degli esuli istriani, dalmati e della Venezia Giulia, il tema delle foibe e dell’esodo è oggi largamente conosciuto dalla pubblica opinione, è studiato nelle scuole, dibattuto sui giornali. Le sofferenze subite dai nostri esuli, dalle popolazioni di confine, non sono, non possono essere motivo di divisione nella nostra comunità nazionale. Al contrario, richiamo di unità nel ricordo, nella solidarietà, nel sostegno. Ribadendo lo stupore e la condanna per inammissibili tentativi di negazionismo e di giustificazionismo, segnalo che il rischio più grave di fronte alle tragedie dell’umanità non è il confronto delle idee, anche tra quelle estreme, ma l’indifferenza che genera rimozione e oblio.

2024

«Le sofferenze» degli italiani d’Istria, Dalmazia e Fiume «non furono, per un lungo periodo, riconosciute. Un inaccettabile stravolgimento della verità che spingeva a trasformare tutte le vittime di quelle stragi e i profughi dell’esodo forzato, in colpevoli – accusati indistintamente di complicità e connivenze con la dittatura – e a rimuovere, fin quasi a espellerla, la drammatica vicenda di quegli italiani dal tessuto e dalla storia nazionale», lo ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante la celebrazione del «Giorno del Ricordo», al Quirinale. E ha precisato: «Un muro di silenzio e di oblio – un misto di imbarazzo, di opportunismo politico e talvolta di grave superficialità – si formò intorno alle terribili sofferenze di migliaia di italiani, massacrati nelle foibe o inghiottiti nei campi di concentramento, sospinti in massa ad abbandonare le loro case, i loro averi, i loro ricordi, le loro speranze, le terre dove avevano vissuto, di fronte alla minaccia dell’imprigionamento se non dell’eliminazione fisica».«I tentativi di oblio, di negazione o di minimizzare sono un affronto alle vittime e alle loro famiglie e un danno inestimabile per la coscienza collettiva di un popolo e di una nazione». «La ferocia che si scatenò contro gli italiani in quelle zone non può essere derubricata sotto la voce di atti, comunque ignobili, di vendetta o giustizia sommaria contro i fascisti occupanti». ha aggiunto Mattarella.

IMG: Dreamstime Pola Istria Arena

Standard
Attualità

Un mondo perduto: la venezianità adriatica.

11064680_1070763546281507_7358409176200840245_n

Uno degli aspetti meno noti ed esplorati della questione adriatica e del confine orientale italiano – anche in questi giorni che si celebra l’annuale ricorrenza del giorno del ricordo ( 10 febbraio : https://it.wikipedia.org/wiki/Giorno_del_ricordo ) –  è probabilmente la memoria di una cultura che per secoli ha formato il cuore della civiltà veneziana, una cultura marinara e contadina, commerciale, cosmopolita e multietnica, che da Venezia fino a oltre Zara (Sebenico, Traù, Lesina e Brazza, Cattaro e Durazzo) si inserì nella storia europea per imprimerle quei caratteri che oggi ne fanno una componente essenziale dell’Europa unita.

Una terra di confine, di guerre, dagli Istri ai Romani e da Bisanzio ad Aquileia nell’antichità,  dal modello veneto a quello asburgico nell’epoca moderna e attraverso l’esodo infine alla Yugoslavia  e ai terribili anni ’90 del ‘900.

E’ nota l’origine romana e bizantina dell’intera regione veneziana nell’alto adriatico, come ricorda il prof. Giorgio Ravegnani in “Venezia Bizantina” (2008)  «L’unica  cosa  certa  è  che  Venezia  nasce  bizantina  e  tale  si mantiene  per  alcuni  secoli. (…) Le   città   legate   alla   nascita   di   Venezia   facevano   parte dell’ampia   provincia   di Venetia   et   Histria,   costituita   come decima   regione   dell’Italia   romana   al   tempo   dell’imperatore Augusto   e   divenuta   provincia   quando   Diocleziano,   nel   III secolo,   aveva   riformato   l’ordinamento   amministrativo. (…) Significativa è in proposito una lettera  di  Flavio  Aurelio  Cassiodoro,  il  romano  che  fu  ministro dei re ostrogoti, a cui si deve una descrizione della laguna in una sua  lettera  del  537-538  con  la  quale  ordinava  il  trasporto  per nave  di  rifornimenti  alimentari  dall’Istria  a  Ravenna.»

Le due regioni dell’ex Venezia Giulia –  cioè il Goriziano, il Triestino, l’Istria e la città di Fiume al termine orientale dell’arco alpino – e la Dalmazia, la regione costiera dell’Adriatico orientale che si sviluppa tra il mare e i monti retrostanti del Quarnero sino alle Bocche di Cattaro – sommano la ricchezza e la complessità delle regioni di confine fra i diversi mondi geografici, etnici, culturali in un crocevia di culture: quella germanica, la latina e la slava. Il peculiare carattere culturale è probabilmente l’unico tratto distintivo capace di fornire quel comune denominatore che l’area politica e sociale adriatica pare aver dimenticato; un mondo perduto appunto, fatto di pietre calcaree e rovere, marinerie e navi, di commerci e scambi, marine assolate e fitti boschi mediterranei, di gusti semplici e forti, fatto di terra rossa e di mare trasparente, di tradizioni e consuetudini, di piatti e di dialetti.“Venezia e poi l’Austria, combinandosi al sangue della stirpe illirica, aveva costruito una specialissima razza d’uomini. Un innesto di Mediterraneo e Mitteleuropa.” Scrive Paolo Rumiz

“La costa  adriatica orientale presenta una certa omogeneità etnico culturale e linguistica, di costume e di tradizioni artistiche e urbanistiche. Non dovuta a processi di colonizzazione, quanto alla progressiva sedimentazione di una storia comune. Perfino Trieste, Fiume e Ragusa, sostanzialmente mai appartenuta alla Repubblica, erano venete nella loro identità sostanziale ed espressive a conferma che non c’è stata vera imposizione.” ( P. Scandaletti, Storia dell’Istria e della Dalmazia- Edizioni Biblioteca dell’immagine 2013)

In questo quadro geografico più o meno dalla metà del 1200 al 1797 la Serenissima ha saputo coltivare, gestire e alimentare la sua peculiare specificità culturale veneta i cui influssi e le cui reminiscenze oggi, pur nel disorientamento e nel rimescolamento successivi al 1947,  appaiono ancora, seppur sbiaditi,  nella memoria e nei luoghi delle terre adriatiche. Come scriveva Fulvio Tomizza “Cinque secoli di civiltà non si cancellano. Persino nei villaggi croati dell’interno si continua a mangiare, lavorare le viti, oziare e giocare alla veneta.” (F. Tomizza, Destino di frontiera, Marietti 1992)

“Venezia in particolare è presente nelle pietre dei selciati, nella grazia dei palazzetti gotici, nei numerosissimi leoni di S. Marco (oltre centosessanta esemplari documentati essenzialmente lapidei), nella linea dei campanili, ville e abbazie, nei poderosi castelli costruiti da nobili veneziani, nonché nella dolce parlata istroveneta, quel dialetto istro-romanzo che purtroppo sta scomparendo, man mano che muoiono gli anziani e sempre meno esso viene pronunciato dalle ultime generazioni bilingui.” ( Irma Sandri Ubizzo, Istria: scatti d’amore – Alcione Editore 2006.)

La costa adriatica orientale che da Muggia (Trieste) scende fino a Cattaro (Montenegro) nella sua struttura storica ripropone una conformazione urbanistica e architettonica che forma il modello veneziano di Città: il porto o mandracchio, le rive, la piazza, l’edificio del Potestà,  i magazzini pubblici, la chiesa parrocchiale, i palazzi dei notabili. Questa struttura cittadina è solo la parte esteriore di un processo di aggregazione storico, architettonico e culturale che vide le sponde dell’Adriatico nord orientale congiungersi in una unità territoriale e sociale che  durerà all’incirca 500 anni.

A  partire dall’anno mille Venezia diede inizio ad un’azione politica volta al controllo del Mare Adriatico: “La spedizione marittima militare in Dalmazia da parte dei Veneziani, sotto la guida del Doge Pietro II Orseolo, avvenuta nell’anno Mille, aveva ribadito la supremazia che Venezia aveva sulle acque dell’Adriatico, un potere sostanzialmente marittimo, commerciale e soprattutto militare, di milizia marittima, in quanto si proteggevano i vari centri della costa e le loro navi.”  ( Istria nel tempo,  Manuale di storia regionale dell’Istria a cura del Centro di ricerche storiche  Rovigno 2006). Ma fu già nel 932 che il Doge Pietro Candiano II sbarcò a Giustinopoli ( poi Capodistria, dove si trova il più antico leone marciano lapideo del 1317) per stabilire un piano di difesa dei possedimenti privati veneziani in Istria.

L’Istria, appunto, fu la prima tappa di questo processo storico, militare e culturale di costruzione di una civiltà. Da Muggia, Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, San Lorenzo, Montona, Orsera, Rovigno, Dignano, Pola, Sissano, Albona, Abbazia, Fiume, Cherso, Veglia e poi attraverso Lesina e Curzola fino a Spalato, Zara, Sebenico e Ragusa, ecco prendere forma l’arcipelago veneziano adriatico, un non – stato, in fondo solo una parte della storia veneziana, poi tragicamente confluito nella storia novecentesca della finis austriae  tra Regno d’Italia e Yugoslavia, un fantasma del ‘900, uno dei tanti.

“In Istria si incontrano tantissime cose. Due mondi, le Alpi e il Mediterraneo; tre lingue, italiana, slovena e croata; e i segni forti di tre dominazioni: Roma che ha lasciato una grandiosa arena nella città di Pola; Venezia, che per secoli in Istria ha avuto basi commerciali costiere – Pirano, Rovigno e altre – sulle rotte del mare d’Oriente; e infine l’Impero d’Austria, che su quella penisola strategica ha costruito porti e ferrovie ancora in funzione, che si è dissolto con la prima guerra mondiale.” ( P. Rumiz, A piedi – Feltrinelli 2012)

Negli anni ’90, in uno dei mie frequenti viaggi oltreconfine, ebbi l’occasione di visitare Cherso e nella piazza della cittadina omonima fummo avvicinati da un anziano del posto che sentendoci parlare in veneziano ci raccontò,  in un purissimo dialetto chersino (che dopo di allora non sentii mai più),  che da giovane aveva a lungo navigato tra l’isola e Venezia a bordo di un burcio (o forse un trabaccolo) che trasportava legna da rivendere nella città lagunare. Un pezzo di storia, una delle tante storie.

Il governo di Venezia nell’Istria ebbe le stesse caratteristiche che in tutte le altre regioni dominate dalla Repubblica, fu il tipico governo di una città che accentra nella sua aristocrazia  tutti i poteri ma che si caratterizza anche per la sua imparziale giustizia e, oltre che per le affinità etniche e le comuni tradizioni, per il benessere che essa portava alle popolazioni soggette. In Istria, quest’opera d’assimilazione veneta fu particolarmente efficace, sì che dialetto della penisola divenne col tempo la lingua parlata dalla Dominante, e gli istriani parteciparono, come cittadini veneti, a tutte le maggiori imprese di Venezia, dalle guerre contro gli Uscocchi alle imprese contro i Turchi.

Venezia fu per secoli il mercato naturale di un vasto territorio, il commercio infraregionale fu un caposaldo dell’economia veneziana. “Aquileia esportava a Venezia maiali e grano, l’Istria mandava a Venezia legname, carbone e pietra; Trieste , che nel sec. XIII faceva ormai concorrenza a Capodistria per importanza, mandava cuoio, pelli, carne; le Marche mandavano i loro vini.”  (F.C. Lane, Storia di Venezia – Einaudi 1973)

Ciò che conta comprendere oggi, se vogliamo uscire dalla logica della contrapposizione e dei rancori, è che fu nell’800 con l’avvento delle Nazioni risorgimentali e dello sviluppo delle idee di Nazione, di etnia e diritto dei popoli –  e successivamente infine nella metà del ‘900 con la congiuntura funesta di ideologie totalitarie – che questo mondo finì. Faccio mia la definizione di Paolo Rumiz, anche se riferita ad altro tema, secondo cui serve un “armistizio della memoria” ( P. Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi, Feltrinelli 2014) è ora cioè che si depongano le armi nazional ideologiche, gli odi e i rancori e ci si avvii verso una umana ed europea comunità di storie.

“L’antico regime istriano, soprattutto il dominio veneto, non è stato capito, anzi, troppo spesso è stato frainteso in chiave nazionale/nazionalistica. Eppure basta girare per la penisola per capire che i circa quattrocento anni precedenti all’Ottocento dei mutamenti dell’identità hanno plasmato la regione, le hanno dato quel qualcosa di particolare, in stupefacente sintonia con i suoi paesaggi naturali che la rende originale e riconoscibile.” ( Istria nel tempo,  manuale di storia regionale dell’Istria a cura del Centro di ricerche storiche  Rovigno 2006).

Se l’Italia, il Veneto, il Friuli Venezia Giulia, la Slovenia e la Croazia facessero pace con la loro storia forse potremmo riprendere antichi legami e restituire un ruolo all’Adriatico, in fondo (per noi italiani) basterebbe rileggere Stuparich, Quarantotti Gambini,  Comisso, Marin, Tomizza.

“Alla sera riprese il buon vento e durò tutta la notte, all’alba ci trovammo prossimi alla costa istriana, visibile nei bianchi delle case rasenti alla curva azzurra delle acque. A Promontore i fondali apparvero attraverso il verde dell’acqua e la costa vicina era tutto un incavo di grotte. Dall’altra parte le isole splendevano nelle loro montagne rese trasparenti dalla luce. Ma oltre Punta Merlera il vento ci lasciò e le vele si fecero inerti.”

(Giovanni Comisso,  Gente di mare –  Longanesi, 1929)

Standard