Pratiche filosofiche

La radice socratica della pratica filosofica.

1374212_682334468463045_1676012242_n Angel Boligán Corbo 

Nella letteratura di riferimento per le pratiche filosofiche il riferimento più evocato è Socrate, il filosofo che per certi versi rappresenta il modello universalmente riconosciuto dell’esercizio della filosofia, il pensatore che fonda quel sapere propriamente umano, «quella che è forse la sapienza propria dell’uomo» come si legge nell’Apologia di Platone, un sapere etico e politico, che si colloca al centro della città, nel mercato.

Appare opportuno precisare che spesso Socrate è più presupposto in maniera acritica che validamente assunto nella sua reale portata filosofica e storica. Quale Socrate poi, visto che presumibilmente Socrate non esiste? Per intendersi, sappiamo che è morto nel 399 a.C. Della sua vita ne sappiamo quanto ci è stato narrato, tramandato da Aristofane, Platone e Senofonte; sappiamo che il suo “fare filosofico” sarà ripreso da cinici, dagli stoici, dal cristianesimo, dall’ellenismo, i quali, ognuno di questi, prenderanno una parte del suo lascito filosofico piuttosto che una parte diversa. Ecco perchè è sempre lecito chiedersi: quale Socrate? Socrate stesso è problema filosofico, sebbene sia possibile distinguere tra le interpretazioni che ne sono state fatte. Infatti nella lunga storia della filosofia diversi autori proposero diverse teorie: Aristotele, Erasmo, Kierkegaard, Hegel, Nietzsche, per citarne alcuni .

Io propendo per dare valore di universale quanto afferma Capizzi: “Socrate non è che il socratismo, l’insieme dei pensieri fioriti nelle scuole cosidette socratiche. L’Accademia platonica, il cinismo, il gruppo megarico e quello cirenaico, e in fondo tutta la filosofia fino ai nostri giorni, perchè non c’è filosofia che non nasca in qualche modo dalla riflessione socratica”. (Antonio Capizzi  – a cura di –  Socrate, La nuova Italia, 1974).

Per quanto attiene all’esercizio del filosofare quindi il riferimento non  è il Socrate aristotelico, quello che ci tramandano i manuali degli storici della filosofia, lo scopritore del concetto e del metodo induttivo, oppure il Socrate di anima e virtù, non solo quello. Nella pratica della filosofia è innanzitutto centrale il Socrate del dialogo, quel dialogo socratico che inaugura la pratica filosofica come attività pubblica, è centrale quel filosofo ateniese che disconosce la preminenza di un qualche tipo di sapere sopra un altro, il Socrate del “sapere di non sapere” che mette tutto in discussione e pone il logos comune come ricerca, è centrale infine il Socrate dell’“elenchos”, dell’esaminare in modo critico, quello che inaugura l’attitudine filosofica al verificare, valutare, pesare e misurare prima di tutto noi stessi – la nostra anima – e la nostra vita. Questo è il riferimento socratico, il suo ruolo sociale, ruolo che fu considerato pericoloso, tanto che fu condannato a morte dai giudici della sua città, Atene, proprio per aver promosso la riflessione etica e politica.

Sul Socrate padre della riflessione filosofica etica e morale scrissero noti autori del ‘900 come Heinrich Maier, John Burnet, Alfred Taylor, ed in Italia Guido Calogero, Guido De Ruggiero e Livio Rossetti. Questi studiosi seppur con accenti diversi tra loro, come ricorda Paolo Rossi, trovano un denominatore comune in «quel sapere morale che accompagna l’azione etica e con essa coincide necessariamente in quanto è la sempre presente consapevolezza dell’uomo a sé stesso.» (Paolo Rossi in Prefazione a Alfred E. Taylor, Socrate, La nuova Italia Firenze 1969 p. XI)

Perché Socrate quindi? Socrate si stacca dal pensiero mitico e poetico per indirizzarsi al civico dialogico, al dialogo filosofico e politico nella polis. Socrate ci insegna che la problematicità è il tratto caratteristico del rapporto uomo / mondo, termini classici della metafisica tradizionale, che oggi vivono una lacerazione possente. Socrate, come ricorda Giannantoni , ha impersonato svariate maschere filosofiche, immagini stereotipe di umanità ideale e nella letteratura la forma dialogica dell’elenchos socratico, l’evidenza critica, è stato assunto come un innocuo ed edificante esercizio di bonario ( ma ironico !) incontro dell’altro, il dialogo come esercizio di democrazia, il che è tutto da tenere, ben inteso, seppur non ancora pienamente esplicativo del carattere eversivo socratico. Ecco il topos socratico, l’obiettare, ob jectum ( gettare contro ) insito nel dialighestai socratico.

Nel lavoro quotidiano del filosofo pratico l’esperienza dice che i valori, i riferimenti ideali, ideologici, tradizionalmente ritenuti saldi lo sono sempre meno e sempre più labili e cangianti appaiono agli uomini i confini indubitabili delle certezze su cui fondano il proprio agire.

Le pratiche filosofiche che si diffondono nell’era post consumistica, (ma anche post moderna, liquida, e quindi indefinibile infine), rivelano in realtà una necessità di pensare contro, di pensare oltre e di pensare altro, di dischiudere quindi nuovi orizzonti possibili. Se i filosofi hanno un senso in tutto ciò, se un ruolo è possibile oggi per il filosofo –  e non è detto che debba averlo necessariamente –  esso non può che essere quello di mediatore ovvero colui che è capace di mettere in comunicazione l’orizzonte politico dell’ethos locale, della polis, con il mondo privato del cittadino globale: qualora esistano, questi filosofi non hanno un obiettivo se non quello di mediare, di cercare un equilibrio tra la follia privata ed il caos pubblico.

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Pratiche filosofiche

Un benessere relazionale per vivere la complessità del presente.

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Abbiamo concluso il ciclo di Laboratori filosofici del  2015: Vita pensata, costruire l’esistenza,  ciò che ha caratterizzato questi incontri è espresso nei due termini del titolo: vita e pensiero. Il titolo è tratto dal testo di Robert Nozick del 1989 (Nozick Robert, La vita pensata. Meditazioni filosofiche, Bur 2004 ) e, anche se da esso non trae spunto direttamente, di sicuro ne segue l’ispirazione, la motivazione di fondo: “Voglio riflettere sulla vita e sulle cose importanti nella vita, per chiarire il mio pensiero… e anche la mia vita. In generale noi tendiamo – me compreso – a vivere come se avessimo inserito il pilota automatico, attenendoci, salvo qualche piccola modifica, alle opinioni di noi stessi e agli obiettivi che abbiamo acquisito inizialmente […].” scrive Nozick.
Che cosa intendeva per “vita buona” Aristotele? Come possiamo portare al presente questa concezione della bontà del vivere, così ottimistica, positiva, quasi fideistica? Come ricercare il nostro buon daimon, del termine greco eudaimon? L’interrogazione sulla qualità della vita è il tema di questa ricerca e uno degli spunti e’ il pensiero di Martha Nussbaum quando parla di fluorishing come possibilità di una vita fiorente, riferendosi anche ai beni di relazione (quali la philia e la politica). Vi ritroviamo i concetti di capacità (dynamis) e funzione (ergon), posti alla base di una teoria della giusta distribuzione dei beni, in dialogo con Amartya Sen economista indiano premio Nobel. Ma interrogarsi in questo senso non significa quindi mettersi alla ricerca di una esistenza volta alla piena realizzazione di sé, in comunione con gli altri, vivendo il presente in tutta la sua complessità? E’ quanto mai opportuno ricordare che ognuno è chiamato a interrogare il proprio demone ( socratico), scrive Martha Nussbaum: “Cosa sono le capacità? Sono le risposte alla domanda: cos’è in grado di fare e di essere questa persona? (…) esse sono ciò che Sen chiama “libertà sostanziali” opportunità di scegliere e di agire.” Perché è vero che “Il ben-essere di un individuo non è legato alla sua condizione individuale autarchica, quanto a quello che qualcuno oggi chiama capitale sociale, cioè l’insieme delle capacità che l’individuo ha di organizzarsi e di adattarsi grazie a elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, con i contesti” (Canevaro, 2007).

Siamo partiti dal domandare. Dal “sapere di non sapere” socratico fino al dubbio cartesiano che fonda la certezza dell’esistere nel “cogito ergo sum”, il dubbio è elemento costitutivo, connaturato all’umana natura ed è radice prima di scienza e conoscenza. Questo perché l’uomo è un essere incompleto, non ha in sé tutto ciò che gli serve a vivere autonomamente ma deve procurarsi cibo e sicurezza, scopi e strumenti e deve farlo in comunità con altri uomini. Perciò la vita non è data una volta per tutte, è un destino, una progettualità quotidiana, siamo destinati a costruire la nostra esistenza, giorno dopo giorno, scoprendo e adattando il reale alle nostre esigenze, trovando gli strumenti di mediazione tra il sé ed il mondo. Ecco quindi che in questa cornice il benessere prende un posto preciso, le relazioni acquistano fondamento e l’orientamento diventa strategico.
Le relazioni quindi. Siamo protagonisti delle reti di relazioni che costruiamo nell’arco della nostra vita. Questa rete è un ponte necessario tra l’io e il mondo, un passaggio, un mezzo per condurre verso il mondo e portare a me il mondo, una specie di movimento biunivoco tra il me e la realtà e tra il reale e l’io. Scrive Mortari: “La relazionalità struttura intimamente la condizione umana. A configurare la qualità della nostra vita sono, infatti, le reti di relazioni che danno forma al nostro spazio vitale. La relazionalità costituisce la sostanza della condizione umana, perché ciascuno per esistere ha sempre bisogno di qualcosa che solo l’altro può dare. Nulla che dipenda da me solo/a rende sicura e buona la vita, perché ogni elemento del proprio spazio vitale sempre e inevitabilmente è in commistione con quello di altri.”

E’ vero anche che un manuale del “vivere umano” non ci è dato al nostro venire al mondo e quindi “Abbiamo bisogno di un metodo che ci aiuti a pensare la complessità del reale, invece che dissolverla e di mutilare la realtà. Questo metodo deve fornire i principi operativi per pensare autonomamente. Metodo significa infatti “via”, “Cammino”. Abbiamo bisogno di una nuova mentalità: Il modo di vedere le cose è più importante del cambiamento delle idee. La nuova mentalità ci conduce a vivere nel pericolo, nel rischio, nel caso, e ci fa abbandonare la pseudo-sicurezza di un programma. “ ( Edgar Morin )
Siamo in grado di dare qualche risposta a chi spinge verso domande radicali, a chi vive l’incertezza del futuro e vuole vivere il presente senza accusare per forza qualcuno? Se il paradigma attuale vigente nel mondo globale in cui viviamo è sapere, saper fare, saper essere, un pensiero oppositivo radicale che si ponga contro questa logica, parafrasandola criticamente con Socrate, potrebbe dire: non sapere, non saper fare, non saper essere. Non lo vediamo tutti i giorni questo rifiuto ? Si tratta di opporre un netto rifiuto, una opposizione radicale e ontologica alla declinazione antropologica del sistema tardo liberista. Non voglio sapere il vostro sapere, non voglio saper fare le cose che volete io sappia fare, non voglio essere come voi volete. Non serve affatto trovare supporti alla domanda di prestazione competitiva, basata sulle competenze, sulla funzionalità usurante, sull’adattabilità e precarietà, sul farsi condurre placidamente al pascolo del consumismo indebitato, a questo basta la morente sociologia del lavoro e la retorica commerciale del benessere. Meglio piuttosto volgere lo sguardo dove essere umani possa ancora dirsi necessario, con potenza creativa e gioia. Per fare questo serve un pensiero fondante in grado di dare ragione di tutto ciò che non si ritaglia dentro questa cornice elettronica di finto sviluppo, a tutti coloro che non si attanagliano a questo schema, che lo vivono male con sofferenza, fatica e non intendono subirlo.

E se vogliamo un futuro dobbiamo esser in grado di pensarlo prima di tutto, e pensarlo per chi lo vivrà. Scrive Galimberti. «Perché questi giovani non li si fa incuriosire delle loro capacità, delle loro abilità, delle loro virtù, senza pensare a nulla di ascetico. Gli antichi Greci parlavano della virtù come delle capacità proprie di ciascuno di noi. Ecco, se noi facessimo incuriosire i giovani della loro virtù, forse si potrebbero appassionare di sé, innamorare di sé, e imparare quello che per i Greci era la grande meta dell’esistenza umana, ovvero l’arte del vivere. Un investimento su di sé, come i fiori: che bello vederli fiorire, invece che appassire! Se ciascun giovane si pensasse come un fiore che ha voglia di fiorire, per la stagione che gli è data, allora la loro espansività potrebbe trovare espressione. Allora, forse l’ospite inquietante, il nichilismo, non sarebbe passato invano».

Ringrazio tutti coloro che hanno partecipato che ho lasciato con questo brano: «Il tempo – scrive Maria Zambrano – rappresenta la possibilità di vivere umanamente: la possibilità di vivere. Giacché il vivere non è lo stesso che la vita. La vita è data, ma è un dono che esige da chi lo riceve l’obbligo di viverla, e dall’uomo in particolar modo. Vivere umanamente è un’azione, e non un semplice passare per la vita e attraverso di essa. (…) Soltanto quando l’uomo accetta integralmente il proprio essere comincia a vivere interamente…(e) manifesta in modo evidente l’esistenza in lui di ciò che si è chiamato libertà. La possiede non già quando si è svegliato, ma proprio svegliandosi. » la libertà a far sì che si svegli. Svegliarsi per l’uomo significa svegliarsi con il proprio essere nella realtà e dinanzi a essa. (…) Poiché la realtà è innanzi tutto il luogo dove tutti gli esseri s’incontrano perché si scoprono facendovi il loro ingresso. Il luogo che mette inesorabilmente gli esseri allo scoperto. E la realtà, frammentaria e interminabile, si manifesta con il tempo, nel tempo»
Da: Propedeutica ad un’educazione sentimentale di adolescenti ed adulti di Elisabetta Zamarchi.
http://www.fabbricafilosofica.it/MA/02/03.html

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Formazione

Educare alla ragione, l’utopia pedagogica di G.M. Bertin.

www.infosannio

Eliminando l’idea di educazione, in vista di un ipotetico e astratto ideale di liberazione, si va verso un irrazionale suicidio dell’identità di una civiltà. (G.M. Bertin Educare alla ragione 1968)

Il pensiero di Giovanni Maria Bertin rappresenta un importante contributo alla filosofia dell’educazione italiana del novecento –  piuttosto misconosciuto – perché inattuale, gravido come fu di istanze filosofiche radicali come il problematicismo post idealista, la razionalità critica di Banfi, la fenomenologia di Husserl, l’attivismo di Dewey e la critica sociale e culturale di Nietzsche, tutte orientate verso un’utopia pedagogica di alto valore formativo.

Pedagogista e filosofo Giovanni Maria Bertin nacque a Mirano –  Venezia nel 1912 e  morì a Bologna nel 2002. Bertin si trasferì, quattordicenne, a Palermo, dove si iscrisse al Liceo Classico. Tra l’ultimo anno di Liceo e i primi due di Università, tra i diciotto e i ventun anni, nell’arco di un triennio, Bertin compose dodici novelle, pubblicate da un quotidiano di Palermo, «L’Ora», e un poema in prosa, prime opere giovanili. Con il trasferimento a Milano, nel 1933, si concluse l’età delle sue prime ed  acerbe produzioni e con esse la sua breve e giovanile stagione letteraria; iniziò una fase nuova, che porterà Bertin a divenire, in breve tempo, uno dei più autorevoli esponenti della scuola banfiana.

G.M. Bertin trova nel rigore critico e antidogmatico dell’impianto teoretico di Antonio Banfi un esercizio imprescindibile, dal quale scaturiranno i suoi successivi e progressivamente più maturi lavori di ricerca. Laureatosi in filosofia all’università statale di Milano (1935), conseguì la libera docenza nel 1949; docente di storia e filosofia nei licei (1937-53), incaricato all’università statale di Milano (1945-53), fu docente di ruolo di Pedagogia all’università di Catania (1953-57) e di Bologna (dal 1957) e infine preside della Facoltà di Magistero di Bologna (1957-68).

Antonio Banfi fu il filosofo che introdusse in Italia, tra i primi, le principali correnti di pensiero provenienti dalla filosofia tedesca a cavallo tra ottocento e novecento. Banfi fece conoscere nel nostro paese il neokantismo della Scuola di Marburgo, la fenomenologia di Husserl, di Simmel e di Scheler e successivamente si accostò al pensiero di Marx. Banfi, proveniente dal pensiero idealistico trascendentale di Martinetti di matrice kantiana e leibniziana, elaborò una filosofia razionalista in opposizione all’idea di ragione dogmatica, vista cioè come cristallizzata in rigide categorie prefissate. Il filosofo propone una razionalità antidogmatica che assume come compito quello di svolgere una funzione critico-universalizzante nel campo del sapere, e nel contempo intende superare le conoscenze particolari per comporle in strutture gnoseologiche più organiche. Importante, come detto,  fu anche il contributo di Antonio Banfi all’introduzione della fenomenologia di Husserl in Italia. Banfi attinge direttamente ai testi husserliani al loro apparire e, almeno fino al 1926, ha il privilegio di un confronto diretto con il filosofo di Prossnitz collaborando allo Jahrbuch, la rivista di ispirazione husserliana, anche se, come vedremo, Banfi intende la fenomenologia in maniera puramente metodologica rifiutando l’esito idealistico dell’ego cogito proposto da Husserl nelle Ideen (in Italia “Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica”).

Nel pensiero di Banfi, la filosofia assume un ruolo preminente nel comporre la problematicità dell’esperire e del conoscere attraverso un razionalismo trascendentale che si applica nei diversi campi del sapere. L’opera di Banfi costituisce la radice più significativa del pensiero razionalista e critico della proposta pedagogica di G. M. Bertin che partendo dall’analisi della problematicità dell’esperienza giunge a proporre l’idea fondativa di un’autentica educazione alla ragione.

Problematicismo e fenomenologia fanno riferimento ad una razionalità critica che intende indagare e interpretare il sapere e l’agire non in direzione di una costituzione metafisica, pur non negandola a priori, ma piuttosto verso un sapere di tipo operativo, progettuale e trascendentale, inteso come crescita e ricerca, e lo fa in decisa opposizione a qualsiasi forma di dogmatismo e pretesa di sistematicità; del resto sembra essere questa la direzione che parte del pensiero contemporaneo intraprende, dal neocriticismo all’ermeneutica.

Nel pensiero di Giovanni Maria Bertin convergono diverse componenti filosofiche contemporanee che si compongono in una teoria pedagogica organica, razionale e innovativa. La crisi dell’attualismo, l’esistenzialismo, Kant e il razionalismo critico, caratterizzano il pensiero di Bertin dagli anni ’30 agli anni ’60. In questo periodo, di lunga e complessa genesi formativa, l’autore assume la ricerca, il rinnovamento, l’autocritica come fondamenti di un pensiero “aperto”, da intendere sulla scia del criticismo e perciò non definitivo nei suoi esiti ma fortemente problematico e critico e perciò adeguato alla comprensione dell’umanità della società in trasformazione e delle sue contraddizioni.

Franco Cambi tenta una prima storicizzazione dell’opera di Bertin in La sfida della differenza e definisce giustamente l’autore. “Personalità inquieta che esaspera, già nel proprio io, i temi antinomici del razionalismo critico banfiano, espressi nell’esigenza di costruire la ragione non oltre la crisi, ma dentro di essa e con i materiali che questa offre.”

L’opera di Bertin, in modo schematico e sintetico, si può racchiudere e definire in quattro periodi, ognuno di essi definibile attraverso i diversi stimoli e i diversi orientamenti che lo compongono. Il primo è il periodo giovanile e formativo degli anni ’30 e ‘40 in cui Bertin è fortemente influenzato dal sentimento religioso-metafisico, un certo romanticismo estetico, intimistico e irrazionalistico; il secondo è periodo problematicistico e marxista, degli anni ’50-‘70, che culmina con il testo Educazione alla ragione. Infine l’ultimo Bertin, legato alla lettura pedagogica di Friedrich Nietzsche con Nietzsche: l’inattuale, l’idea pedagogica del 1977,e a alla progettazione esistenziale di Costruire l’esistenza, tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Seguendo Banfi e il suo problematicismo Bertin sviluppa un itinerario intellettuale critico, aperto, razionale, etico e storico.

La forte valenza pedagogica e razionale è il contributo essenziale dell’autore alla riflessione sull’educazione contemporanea: Bertin afferma che è necessario educare la personalità dell’uomo razionale. Egli è l’uomo che vive le aporie, le contraddizioni e le sfide del mondo tecnologico e industriale occidentale che si trova ad operare in concreto nella società in cui nasce, cresce e si forma, e perciò Bertin teorizza un attraversamento e un superamento della crisi dell’umanità, quasi un nuovo programma illuministico-utopico. Bertin attinge al Banfi del problematicismo razionale dei Principi di una teoria della ragione e lo svolge in funzione sociologica ed etico-politica, filtrato dalla lezione di Dewey, in direzione della “terza forza” del socialismo libertario, più che del marxismo e comunismo del Banfi degli anni ‘50. La riflessione bertiniana è fondata sul concetto di filosofia dell’educazione e di unità e centralità dell’idea di ragione, “idea limite che agisce nel processo dell’esperienza come principio di dinamismo e di apertura.” Nel 1961 Bertin, dopo aver compendiato e raccolto l’eredità pedagogica di Banfi nel testo La problematicità dell’educazione e il pensiero pedagogico, sviluppa la sua personale teoria che nel 1968 pubblica in Educare alla ragione. L’analisi della situazione sociale e politica maturata dopo la seconda guerra mondiale impone per Bertin alla coscienza pedagogica l’intervento per il rinnovamento dei sistemi educativi. In Bertin la disamina della situazione esistenziale dell’umanità è lucida e disincantata: il modello di sviluppo economico e i suoi riflessi sociali, la minaccia nucleare, la guerra fredda, la fame, gli attriti di classe, di razza, rendono la società consumistica alienata e alienante. Ansia, nevrosi, affanno, insicurezza e degenerazione della qualità della vita, caratterizzano la società; il malessere investe l’umanità nelle sue espressioni culturali, politiche ed economiche. L’uomo deve farsi creatore di nuove forme di vita individuali e collettive, e la consapevolezza filosofica della realtà esige una definizione rigorosa dell’esperire che deve rendere evidente: l’universalità dell’esperienza, la funzione metodologica dell’epochè che da una parte metta tra parentesi e i pregiudizi dell’interpretazione del reale; l’idea trascendentale come principio regolativo da cui derivano l’indagine processuale e perciò aperta e la problematicità critica. Impegno etico e contrasto delle tendenze all’evasione risultano essere le caratteristiche rilevanti della personalità dell’uomo razionale che Bertin prospetta. Per educare alla ragione e all’impegno individuale, sarà fondamentale insistere sull’educazione intellettuale, etico-sociale ed affettiva, come pure sull’educazione estetica, fisica e professionale, che possiamo qui solo accennare, ma che meriterebbero un’analisi approfondita. Per Bertin l’educazione intellettuale è vista come sviluppo all’attitudine a risolvere la problematicità dell’esperienza, ad impostare con chiarezza la questione d’indagine, ad impostare strumenti e metodi, strutturando in categorie la realtà complessa dell’esperienza. L’uomo razionale dovrà formarsi attraverso la capacità di scoprire nuove relazioni, dovrà differenziare in direzione plurilaterale i propri interessi, essere consapevole della relatività di ogni ricerca, evitare l’astrattezza intellettuale, operare con flessibilità ed elasticità nel risolvere nuovi problemi. Bertin svolge una ricca fenomenologia della vita intellettuale e della metodologia ad essa congrua. L’educazione etico-sociale è l’accordo problematico tra le istanze egocentriche e quelle eterocentriche dell’individuo che si trova immerso in una rete di relazioni sociali e professionali che non può eludere; perciò l’educazione etico-sociale impone scelte che vadano verso lo sviluppo dell’altruismo, pur essendo possibile e prevalente l’egoismo, ovvero secondo l’ottica del promuovere le condizioni storiche e sociali per lo sviluppo individuale e collettivo, ossia di realizzare me stesso e permettere agli altri di realizzarsi. Importanti saranno in questo contesto l’educazione storico-sociale, il coraggio e la disponibilità, l’impegno per il cambiamento, l’educazione all’autonomia e alla responsabilità. L’educazione all’affettività è parte integrante dell’educazione etico-sociale e ha il compito di curare le tendenze soggettive vale a dire gli istinti, le tendenze, i desideri, le aspirazioni, le fantasie, nel loro svolgersi e reagire reciprocamente in modo da armonizzare e preservare il momento interiore di demonicità che costituisce l’individualità. E’ necessario perciò saper cogliere lo squilibrio affettivo e direzionarlo positivamente favorendo il rifiuto dell’unilateralità, educando con persuasione e suggestione alla sensibilità, al gioco, all’amore e alla religiosità, favorendo la vita di gruppo e avvalendosi dello studio dell’età evolutiva, della psicologia e della psicanalisi. Se l’educazione professionale è importante in Bertin per l’impegno etico e sociale, poiché sviluppa efficienza e abilità e educa all’etica del lavoro, l’educazione estetica e fisica sviluppano un’integrale formazione del gusto e delle sane abitudini del soggetto.

L’ultima annotazione sul pensiero pedagogico di G. M. Bertin, riguarda la sua impostazione del rapporto tra educatore e educando, che si trova in Educare alla ragione. Avevamo visto come l’autore fosse critico delle definizioni di Banfi sul ruolo dell’educatore come una sorta di guida spirituale o di artefice del destino altrui. Bertin, infatti, rifiuta un’impostazione di questo tipo, mettendo l’accento piuttosto sulla relazione educatore/educando caratterizzata come mediazione tra il mondo degli adulti e quello dell’infanzia e adolescenza. Se è fondamentale l’impegno etico, sarà importante qualificare l’attiva funzione educativa dell’ambiente e dello spazio educativo. L’educatore non può essere guida, il contesto moderno non può reggere una relazione improntata ad esclusività o ad eccessiva intimità, per la sua parzialità ed univocità, il maestro al massimo può essere modello. Per Bertin, infatti, è sempre la società che educa, con molteplici e diverse sollecitazioni, anche se essa non è per principio educante, anzi può essere, in ambiente sfavorevole, diseducativa. L’educatore assume il ruolo di mediatore sociale, di filtro, verso la ricerca dell’integrazione possibile, egli sceglie la forma pedagogicamente più adeguata. E’ fondamentale allora il rapporto tra educazione e ambiente, ambiente di vita, che l’educatore deve conoscere necessariamente nella sua diversa fenomenologia umana, sociale e materiale. La diversità del rapporto con l’ambiente influenza l’agire educativo, per Bertin la migliore relazione è l’aderenza reattiva, come capacità di stare attivamente nel proprio ambiente ed adeguatamente predisporre spazi e momenti educativi. L’educatore deve saper gestire e sostenere ambienti positivi e allo stesso tempo evitare ambienti negativi, deve saper favorire e stimolare attività libere di gruppo, che possano attivamente impegnare nel tempo libero, deve saper educare al rispetto e alla cordialità. Bertin parla di aderenza reattiva all’ambiente come capacità di insegnare l’ambiente, la sua storia, la sua geografia, il lavoro. I rapporti interpersonali tra educatore ed educando devono essere improntati cercando di evitare la simpatia come atteggiamento preferenziale, che può portare a non favorire l’originalità, influenzando e sviando il momento demonico che deve essere preservato e favorito come individualità attiva e da sviluppare. Un proficuo atteggiamento è quello che si accompagna a cordialità e che genera un’atmosfera affettiva e simpatia diffusa. Bertin parla di comprensione educativa come un tener conto della dimensione incognita dell’individualità, facendo attenzione all’indiscrezione evitando il compatimento e il favorire il vittimismo, l’educatore deve stimolare ad affrontare le responsabilità e a combattere. E’ assolutamente dannoso evitare i problemi all’educando, intelligenza ed equilibrio devono essere qualità essenziali dell’educatore. La capacità precipua dell’educatore è saper cogliere la personalità dell’educando, le sue tendenze, e operare a fini educativi, egli deve comprenderne a fondo le potenzialità. Non è sufficiente un atteggiamento comprensivo dettato da capacità di conoscenza profonda e attenta, è tutto l’ambiente che agisce, affiatamento, capacità di liquidare i complessi e i conflitti, le tensioni individuali e di gruppo, latenti o manifeste, è sulla costituzione di un adeguato ambiente che deve lavorare un educatore.

A quasi cinquant’anni di distanza è possibile cogliere il valore globale di un’opera come Educare alla ragione, la sua forza, la sua organicità, e il ruolo che occupa all’interno dello sviluppo del pensiero pedagogico in Italia; eppure questo testo si può considerare conclusivo di un periodo fecondo sia dell’autore che della riflessione pedagogica. Bertin non seppe intuire, e lo si può vedere nell’analisi della personalità eterocentrica, la direzione etico-sociale che, dalla contestazione del ‘68 e per tutti gli anni ’70, si sviluppò progressivamente in una svolta di critica radicale che portò a teorizzare, nei suoi esiti più estremi, l’antipedagogia. Come giustamente sottolineava Bertin, l’evasione eterocentrica, pur non ben definita, conduce all’alienazione parimenti alla direzione egocentrica, e, potremmo aggiungere oggi, conduce fuori da una razionalità critica verso l’irrazionalismo di posizioni contestatarie, anarchico utopiche, che nella realtà concreta si orienteranno verso l’eliminazione della stessa idea di pedagogia, verso un’idealizzazione astratta dell’idea di liberazione dall’alienazione in cui tutte o quasi le istituzioni ed i rapporti sociali vengono rifiutati come borghesi, conservatrici, oppressive. La storia degli anni ’70 vedrà imporsi l’oscuramento della ragione educativa, vedrà l’irrompere di un nichilismo annientatore. Per usare la metafora dell’albero, potremmo dire che se le radici sono la tradizione e l’albero è il sapere il cui frutto è l’educazione, in questo periodo storico si vorranno tagliare, con parte della pedagogia del dissenso, le radici dell’albero. Come scritto in epigrafe, Bertin lo sintetizzerà in maniera netta: “Eliminando l’idea di educazione, in vista di un ipotetico e astratto ideale di liberazione, si va verso un irrazionale suicidio dell’identità di una civiltà”.

Bertin, conscio del fallimento del tentativo di educare alla formazione di una personalità razionale che faccia dell’impegno etico il proprio fine, pubblicherà, nel 1977, il testo della sua svolta pedagogica Nietzsche. L’inattuale, idea pedagogica in cui al disgusto per la società del suo tempo con Nietzsche oppone il superamento dell’umanità inautentica, lo spirito libero, lo spirito nobile e lo spirito dionisiaco, che nella svolta pedagogica di Bertin saranno le prospettive esistenziali che si proietteranno nella costruzione del futuro. La lezione di Nietzsche è educazione alla ragione e al rigore, per il superamento delle forme parziali ed inautentiche d’umanità.

Successivamente, negli anni ’80, le riflessioni di Bertin si orienteranno, recuperando posizioni derivanti dall’esistenzialismo, verso una teoria che si delinea come progettazione esistenziale, soprattutto in Costruire l’esistenza, scritto con M.G. Contini. In questo testo recuperando posizioni derivanti dall’esistenzialismo, gli autori elaborano una teoria che si delinea come progettazione esistenziale, altra definizione se vogliamo di Progetto di Vita. Scrive Contini: “La progettazione esistenziale può essere definita – secondo l’analisi di Bertin – come l’orientamento rivolto ad elaborare, vagliare, ed unificare aspirazioni, criteri di valori e obiettivi di azione, sul piano di un quotidiano vissuto in rapporto al futuro; e cioè proteso a configurarsi non semplicemente in funzione dell’adattamento alla realtà presente, ma anche e prevalentemente in funzione di un possibile configurabile dall’immaginazione ed effettuabile mediante l’intelligenza.”

Restano impresse le parole che Bertin scrisse nella Prefazione alla 1^ edizione di Educare alla ragione nel 1968,  lette oggi rivelano una lungimiranza, un’attualità ed un’urgenza che ci fanno guardare sconsolati ai quasi cinquantanni che ci separano da esse.

“(…) tutt’altro che eliminata la minaccia nucleare, sempre in atto la politica di rivalità tra le grandi potenze, non spenti pericolosi focolai di guerra, ancora in atto guerre coloniali, tre milioni di uomini morti di fame ogni mese nel mondo, per nulla superate anche negli stessi paesi evoluti sperequazioni e attriti di classe, di razza, persino di regione. La civiltà di questi ultimi sembra essere caratterizzata dal prepotere del consumo, anzichè dal rispetto della dignità e dalla preoccupazione di liberare l’uomo. Lo sforzo massimo è in essi rivolto ad intensificare la produzione e ad allargare i mercati, in modo da elevare i profitti e (subordinatamente) elavare la capacità di acquisto delle masse lavoratrici affinchè queste consumino sempre di più (…) Allo sforzo di chiarificazione dei problemi e di rafforzamento dell’energia etica che accomuna oggi gli uomini di tutte le fedi e di tuti i continenti nell’esigenza di una nuova società in cui l’uomo sia considerato non sotto la duplice veste di produttore e consumatore, ma come creatore di nuove forme di vita individuali e collettive, ci sembra non debba mancare il contributo della coscienza pedagogica (…) educare il singolo ad accettare la problematicità della condizione umana non in un atteggiamento di passività ed inerzia, ma in un atteggiamemnto di attività e di combattività, impegnato a risolvere tale problamaticità, assunta secondo le differenti e complesse situazioni in cui si presenta, in direzione e nel senso indicati dal principio di ragione”.

Un’utopia pedagogica appunto.

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Giovanni Maria Bertin, Educazione alla ragione, Armando 1968.

Giovanni Maria Bertin, Nietzsche: l’inattuale, l’idea pedagogica, la Nuova Italia 1977.

G.M. Bertin, M.G. Contini, Costruire l’esistenza, Armando 1983.

(img: infosannio.wordpress)

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