Venezia

“Quattro visioni dell’Aldilà”, Bosch a Venezia.

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Den Bosch è una piccola cittadina del Brabante settentrionale olandese –  nei pressi del confine con il Belgio, antico possesso dei duchi di Borgogna –  che ha dato i natali a Jeroen Anthoniszoon van Aken comunemente noto con il nome d’arte di Hieronymus Bosch. Ufficialmente il nome corretto della cittadina sarebbe s’-Hertogenbosch, Bosco del Duca abbreviata a Den Bosch e Hieronymus è il suo più illustre cittadino. Quest’anno il  Noordbrabants Museum ha organizzato, per i 500 anni dalla nascita dell’artista, una mostra evento ed il bilancio di chiusura di Jheronimus Bosch. Visions of genius, (https://www.bosch500.nl/)  questo il nome dell’esposizione,   è andato ben oltre i pronostici: sono stati infatti 421.700 i visitatori solo  nel periodo 11 febbraio / 8 maggio. Nel cinquecentenario della sua morte, avvenuta nel 1516, l’arte del visionario maestro olandese ha quindi fatto ritorno nella città dove nacque e da dove pare mai si mosse, ottenendo un enorme successo.

Hieronymus Bosch non datò mai i suoi quadri e ne firmò solamente alcuni. Il re Filippo II di Spagna fu appassionato collezionista dei suoi lavori e perciò la Spagna è oggi il paese che in assoluto possiede il maggior numero di opere del pittore, soprattutto al Museo del Prado e al Monastero dell’Escorial a Madrid. Della sua pittura si dice che sia visionaria, allucinata, mostruosa, simbolica,  la sua tecnica sbalorditiva per uso di colori e cura del dettaglio, i suoi personaggi inquietanti e caratterizzati da deformità, metamorfosi, pose e atti surreali; eppure alla pari dei suoi colleghi di allora i temi trattati dall’artista fiammingo sono rigorosamente religiosi ma è l’effetto, la resa che è strabiliante. Bosch è un enigma. Basti citare, per tutti, il quadro più famoso “Il Trittico delle delizie” conservato a Madrid, un tripudio di allegorie e simboli composto da tre pannelli collegati e richiudibili. Quest’opera straordinaria è composta da un pannello di sinistra che rappresenta il giardino dell’Eden  nell’attimo in cui Dio presenta Eva al cospetto di Adamo il quale sembra appena svegliato da un sonno profondo e scopre il Signore al suo fianco che sorregge Eva per un polso donando la propria benedizione all’unione fra i due; nella parte centrale e superiore del dipinto si scorgono paesaggi ameni e acque limpide, strane costruzioni monumentali e animali misteriosi; il pannello nella parte centrale dell’opera rappresenta un fantastico giardino acquatico dai colori smaglianti e traslucidi in cui una moltitudine di uomini e donne si dedicano senza pudore ai più diversi giochi erotici, un paradiso terrestre che contrasta con il pannello laterale di destra che invece rappresenta una mostruosa scena apocalittica infernale, roghi notturni, mostri feroci e diabolici, guerre, sevizie e oscurità. Quando le ali laterali del trittico vengono ripiegate e chiuse sulla parte centrale è visibile il disegno sui pannelli esterni,  una rappresentazione del mondo sferico, si dice un’allegoria della Genesi, al terzo giorno.

Il significato globale dell’opera sembra voler raffigurare il dono divino della Terra, che ha come destino possibile per le specie  il paradiso ma che l’uomo trasforma in luogo infernale, con i suoi vizi e le sue malvagità. Bosch, appartenente ad una confraternita laico religiosa dedita al culto mariano e ispirata all’opera di Jan van Ruysbroek che scriveva “La purità di spirito conserva l’uomo simile a Dio” – confraternita detta di Nostra Diletta Signora –  fu particolarmente sensibile alla rappresentazione pittorica dei peccati e delle crapule umane, accidia, superbia, gola soprattutto e lo fece in forma di condanna e di stigma del cammino terreno dell’uomo verso la redenzione, fu anche sensibile ai vizi del clero che raffigura spesso in gozzoviglie sfrenate.

Della poetica e dell’estetica di Bosch nel tempo si è detto e scritto un po’ di tutto, di misticismo, di alchimia, che fosse ispirato a un’eresia clandestina che prevedeva il nudismo e il libero amore, che fosse un moralizzatore e precursore delle istanze della Riforma, che nei suoi dipinti volesse colpire la Chiesa dei vizi e della corruzione, insomma i secoli non hanno certo aiutato la comprensione quanto piuttosto alimentato le suggestioni.

Venezia da sempre ha la fortuna di avere a disposizione alcune opere di Hieronymus Bosch tra cui una serie di quattro pannelli dipinti a olio detti “Visioni dell’al di là” di datazione incerta, conservati ora nel restaurato e da poco riaperto al pubblico Palazzo Grimani in Ruga Giuffa,  che fu sede originale delle opere di Bosch; questi pannelli infatti furono acquistati dal Cardinale Domenico Grimani stesso, uomo di vasta cultura ed amante delle arti e delle lettere nonché uno dei più celebri collezionisti della sua epoca, deceduto nel 1523 il quale lasciò i dipinti alla Repubblica Serenissima. Nel 1521 infatti si attesta in casa del cardinal Grimani la presenza de: « La tela dell’Inferno con la gran diversità de mostri fu de mano de Ieronimo Bosch. La tela delli Sogni fu de man de l’istesso ». Storicamente conservata e visibile a Palazzo Ducale nella Stanza dei Tre Capi del Consiglio dei Dieci, posta tra la sala del Consiglio dei X e quella degli Inquisitori – salvo il periodo tra il 1838 e il 1919 quando furono trasferite a Vienna –  di proprrietà delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, quest’opera è attualmente, come detto,  conservata in una sala appositamente approntata nel Museo di Palazzo Grimani con  Il Trittico di Santa Liberata e il Trittico degli Eremiti ove tutti i dipinti veneziani di Bosch tornarono nel 2011. A gennaio 2016 a Venezia si è tenuta la presentazione del restauro di due dei tre polittici: il Trittico di Santa Liberata e le quattro Visioni dell’Aldilà, predisposto appositamente in vista delle celebrazioni europeee per il cinquecentenario ( le opere veneziane saranno in “trasferta” fino a dicembre 2016).

Oggi gli studiosi accreditano l’ipotesi che le Quattro visioni dell’Aldilà fossero in origine parte di un insieme organizzato intorno ad un Giudizio Universale e si presume che le tavole siano state in seguito separate dal pannello centrale poco dopo la morte dell’autore e, così scomposte, immesse sul mercato. Questa opinione non è accettata unanimemente e si considera plausibile anche la separatezza dei pannelli, pur contigui ad un probabile Giudizio Universale. Fatto sta che i  pannelli di dividono in due raffiguranti Il paradiso terrestre e L’ascesa all’Empireo e altri due invece rappresentanti La caduta dei dannati e L’inferno; i primi vedono paesaggi idilliaci, i secondi visioni terribili di demoni e dannazione, da una parte la luce di Dio dall’altra le tenebre del male. Un ampio campionario di figure soprannaturali (angeli, demoni, mostri) occupa i quattro pannelli, che raffigurano simbolicamente la mediazione per la migrazione delle anime nei vari circoli dell’al di là: Paradiso, Inferno, Empireo. L’intera scena è dipinta in forti contrasti chiaroscurali, mentre i colori densi alternano bagliori improvvisi e tratti graffianti, creando un’atmosfera onirica di incredibile suggestione.

“L’opera è assegnata al medio periodo (1500-3) della produzione di Bosch, per via della grande libertà di impaginazione spaziale e per la sofisticata e misteriosa trama di rimandi sapienziali che sostituisce la tessitura allegorica più calata nell’aneddoto delle opere precedenti.  Probabilmente l’artista fu influenzato dal pensiero mistico brabantino dei secoli XIV e XV e in particolare dal clima di tensione rigoristica dovuto all’opera di Jean van Ruysbroeck e al movimento della Devotio moderna. Un testo di Ruysbroeck, l’Ornamento delle nozze spirituali, sembra potersi leggere dietro alle soluzioni iconografiche dei dipinti perché vi si trova la connessione Dio-abisso di luce, qui identificabile nel magnetico risucchio luminoso del tunnel verso cui tendono i beati accompagnati dagli angeli nell’Ascesa all’Empireo.” (Arthemisia Group Alessandra Zanchi 2011). Walter Bosing in un saggio del 1973 “Tra paradiso e inferno” scrive dei quadri veneziani che sono unici per la loro pregnanza e semplicità, ispirati all’opera di Dieric Botus ,“Paradiso e inferno vengono intesi secondo la concezione spirituale dei mistici”.

Dei quattro colpisce L’ascesa all’Empireo che raffigura il momento del passaggio celeste: Bosch raffigura cinque anime nude di cui tre sono accompagnate da coppie di angeli, mentre  le ultime due –  quelle più vicine all’ingresso di un tunnel di luce – vengono sospinte da un angelo guida; il tunnel di luce è la parte più interessante che occupa la zona superiore del dipinto e al cui fondo, in attesa, si intuisce una figura sfumata, lievemente accennata, divina e misteriosa sulla soglia della luce infinta. Questa iconografia è unica nella storia dell’arte e non è dato sapere quale sia stata l’ispirazione di Bosch. E’ singolare che questo pannello rappresenti in maniera quasi letterale quanto ricordano,  nei testi di Raymond A.  Moody pubblicati tra gli anni ’70 e ’90 del ‘900 sulla near death experience ( NDE),  i testimoni intervistati dall’autore, o,  per citare un esempio recente a noi vicino, la vicenda di Andrea Sardos Albertini, “(…) finché la mia anima ha imboccato il lungo tunnel, l’entrata ti attrae perché vedi in fondo al tunnel una grandiosa Luce che ti chiama (…)”.

Bosch fu un artista sicuramente geniale: «Difficile definirlo – spiega Matteo Ceriana direttore dei lavori di restauro a Venezia del 2016- le sue opere sono sempre narrazioni complesse, ricche di particolari da decifrare, spesso dipinte anche nel retro. Un dipinto di Tiziano si legge nel suo insieme, un quadro di Bosch è come una mappa, al suo interno ci sono percorsi che devi seguire poiché le invenzioni si alternano e si intrecciano, è quasi un testo da decodificare. La sua straordinaria modernità sta proprio nel aver tradotto un universo iconografico medievale fatto di bestiari umani e animali con una regia e un montaggio interni alla narrazione dell’immagine assolutamente nuovi e moderni». (http://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2016/01/16/news/bosch-il-mistero-dipinto-in-tre-opere-veneziane-che-andranno-in-olanda-1.12790492)

Img: wikimedia.org

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Etica, Filosofia, Formazione

Schive, ribelli, spirituali: Weil, Campo e Zambrano.

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Io sento che gli amori più fervidi, le risoluzioni più tragiche rifiutano le nomenclature e le opere più eminenti si compiono in silenzio, ineffabilmente. (E. Zolla, Uscite dal mondo 1992 )

Il novecento ha, nel mezzo di tragedie e guerre che ne contraddistinguono il tempo,  il   felice evento di un recondito incrocio femminile di filosofia, poesia e spiritualità ed è racchiuso in tre figure di alto valore intellettuale.  Simone Weil, Vittoria Guerrini e  Maria Zambrano; pensatrici d’Europa –  francese la prima, italiana la seconda e spagnola l’ultima –  vissute tra il 1909, anno di nascita di Simone, e il 1991 anno di morte della Zambrano – che seppero proporre nel corso del funesto ‘900 un’alternativa divergente, verso l’idea di un’umanità ritrovata.

Per rendere compiutamente merito del loro intimo valore – fatto di coraggio nelle scelte di vita, di sapienza e pregno di sfide radicali al proprio tempo – si può dire che esse vissero l’umanità come pensiero vivente tra impegno etico e disincanto politico,  riconoscendo nella trascendenza, nella poesia e nella filosofia gli strumenti dello spirito i quali,  in queste tre grandi donne del novecento,  si sommano raccogliendosi e contemperandosi in motivi e pensieri che formano una melodia per l’anima occidentale, nel solco della storia della cultura europea. I nuovi diritti dell’uomo, l’attenzione, la trascendenza e la ragione poetica.

Guardando alla storia del ‘900 il loro messaggio è profetico e lungimirante sopratutto per quell’ intenzionare un oltre che trascende la nuda aridità delle categorie politiche ed economiche postmoderne  verso un’umanità ritrovata: un messaggio che non teme d’essere poetico, filosofico e mistico.  Ed è forse esattamente il loro carattere spirituale che oggi, in tempi di aridità antimetafisica e nichilismo disperato, imbarazza i postmoderni, mette a disagio o induce a gesti di sufficienza; di queste autrici non è possibile ignorare la tensione trascendente che è ciò che della loro opera attrae e respinge con uguale tensione ed altrettanto vero il discorso appare per la loro ritrosia, il loro carattere non convenzionale, come la loro vita.

Di Simone Weil in Italia si è discusso a pezzi, a brani, nel senso che, come per altri autori o testi specifici,  se ne prende una parte e la si eleva a focus, punto centrale del corpus e del pensiero, decostruendo in tal modo la persona e l’opera; se dal punto di vista dell’ermeneutica tutto è possibile ( o quasi) questo uso di mettere sotto la lente d’ingrandimento un periodo, una “fase”, un tema e trasformarlo nell’idea originale non sempre è fecondo perché illumina, certo spesso con rigore e sapienza, un lato mentre oscura il resto e rischia di confondere la portata globale di un autore.

Abbiamo avuto infatti, nel caso Weil, l’elogio della marxista critica, dell’operaia impegnata nel sindacato, della resistente francese, all’opposto si è messa in luce la filosofa quando non la mistica anti cattolica, oppure semplicemente l’elogio della scrittrice donna e attivista politica. Sembra quasi che della Weil non si possa tollerare l’ambivalenza del suo istinto che trapassò gli opposti “estremismi culturali” del ‘900 – marxismo e cattolicesimo – con medesimo rigore, con uguale durezza. “La ricchezza e l’eccezionale fertilità del pensiero di Simone Weil nascono dalla sua capacità di pensare liberamente, al di là delle anguste palizzate imposte surrettiziamente dai generi.” Scrive Federica Negri.

Vede giusto in questo Berardinelli quando scrive in un  articolo nel 2009  “Si capisce bene quanto poco fondata, se non in qualche caso disonesta, sia stata, a sinistra e a destra, la scelta di distinguere e separare una Weil politica, marxista e rivoluzionaria da una Weil moralista, religiosa, mistica e cristiana, per valorizzare un aspetto e liquidare l’altro.” E infatti, forse più comodamente,  è possibile tout court assecondare Berardinelli che  ne parla come del “più grande filosofo del Novecento” e con lui comprendere che la percezione italiana della Weil passa per piccoli segmenti editoriali e critici, parziali e timidi a partire dagli anni ’50 con Fortini per tornare in auge finalmente a partire dagli anni ’80 con le edizioni dei “Quaderni” Adelphi di Calasso. E tra gli intellettuali che ne promossero la scoperta dell’opera della Weil ci fu Cristina Campo, negli anni ’50, la quale fu una delle prime lettrici italiane di Simone, e le sue traduzioni contribuirono  a far conoscere il pensiero della filosofa francese anche in Italia.

Simone Adolpine Weil fu una cometa nella storia della cultura europea della prima metà del ‘900. Nata a Parigi  morì a soli 34 anni, borghese d’estrazione, ebrea laica, si avvicinò al marxismo e lo analizzò lucidamente,  in seguito alla  conversione fu cristiana radicale e studiosa di mistica, duramente critica verso la Chiesa cattolica. Eppure nella sua parabola personale si tratteggia una itinerario di coerenza e purezza.  Ne scrive a proposito Federica Negri nel suo “La passione della purezza”: “Il campo di indagine del suo pensiero è il mondo nella sua interezza e complessità, solo questo, infatti, costituisce – a suo dire – la base imprescindibile dell’esistenza umana: esso è il luogo dell’esperienza e perciò origine necessaria di ogni elaborazione filosofica.”

E quindi troviamo nell’opera weiliana la militanza  nell’estrema sinistra rivoluzionaria e la condivisione della condizione operaia, l’impegno nel sindacato ed anche un certo marxismo come anche in seguito la mistica, l’attesa di Dio, la critica ai partiti politici e al diritto. La prospettiva  filosofica di Simone Weil, asistematica e originale, difficilmente collocabile all’ interno delle correnti tradizionali, ha finito per passare in secondo piano rispetto al vissuto dell’ autrice. Tutte le sue opere sono state pubblicate postume.

Sorprendente ad esempio fu la Weil in L’enracinement ( Sradicamento) del ’43 –  scritto facente parte dei saggi londinesi elaborati poco prima della morte,  che fu tradotto in italiano con il titolo La prima radice nel 1954 da Franco Fortini – opera inaudita che tenta un ripensamento critico della nozione di diritti umani – quando parlando di bisogni dell’anima Weil indica nell’obbligo, un sostituto del diritto contrapponendo a questo vincolo,  che è  individuale, ciò che proviene “ bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa.” Così l’obbligo diventa norma dell’altro, degli altri, regola umanitaria per eccellenza. “L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno.”( La prima radice, SE, Milano 1990).  E ancora sorprende la Weil quando alla negatività del concetto di forza contrappone la potenza dell’amore e della bellezza “Bello, presenza manifesta del reale. Di una realtà trascendente. Ma questo è implicito. Perchè ci è data solo l’apparenza. Tó óv. (…)  La bellezza è veramente, come dice Paltone, una incarnazione di Dio” (Q, II, 324 e Q,IV, 371) e in  La Grecia e le intuizioni precristiane,( ed. Borla 1984): “Chi è dunque Platone? Un «mistico » erede di una tradizione mistica in cui la Grecia intera era immersa.(…) Ciò che dice il Convito:« la mia dottrina è che l’Amore non ha per oggetto né la metà né il tutto di se stesso… non c’è nulla che gli uomini amino, se non il bene», è una parola molto profonda”  testo non a caso tradotto da Cristina Campo.

Cristina Campo, con quella misteriosa eleganza e così sobria purezza, quelle attenzioni soprannaturali, mistiche, che la caratterizzano lievemente, così fragile e di uno scrivere esile e profondissimo, un incanto manifesto e discosto nella Roma anni ’50, che era forse più terribile di adesso, anche peggio se dir si può. Vittoria Guerrini, il cui pseudonimo più conosciuto fu appunto Cristina Campo, è davvero la più misteriosa delle scrittrici italiane: nacque a Bologna da famiglia benestante, fu di salute cagionevole a causa di una malattia cardiaca; scrittrice poliedrica di vasta cultura, viveva nascosta; la Campo fu fervente cattolica, poetessa, critica letteraria e conservatrice nonché quasi ferocemente anti modernista. Scrittrice raffinatissima, in vita pubblicò poco ma strinse relazioni intellettuali di spessore, morì a 53 anni. La Guerrini pubblicò in vita soltanto tre edizioni: la silloge poetica Passo d’addio (All’Insegna del Pesce d’Oro, 1956) e le raccolte di saggi intitolate Fiaba e mistero (Vallecchi, 1962) e Il flauto e il tappeto (Rusconi, 1971).

E’ piuttosto complicato dare a questa scrittrice misteriosa un’etichetta che la possa descrivere in un’unica immagine, in un una parola che non sia composta da più costrutti. Piero Citati così ne scrisse: «Aveva un senso acutissimo della forma, come quasi nessuno ai nostri tempi: non voglio dire il dono della pura creazione, che in lei urtava contro troppi vincoli. Adorava la forma che coltiva se stessa, come nelle grandi creazioni dell’estetismo. La sua intelligenza non era la pura, liberata intelligenza di Dostoevskij e di Kafka, ma l’intelligenza provocata dalle tensioni e dai limiti della forma. Gli scrittori erano, per lei, dei re in incognito, dei sacerdoti nascosti; e la perfezione suprema a cui poteva giungere la letteratura era l’ombra della vestizione del vescovo, l’ombra della Missa Solemnis». In questa forma  pare una raffinata esteta e sacerdotessa della lingua, in fondo non è una brutta immagine eppure sfugge, e resta solo accennato, il suo interesse per la mistica occidentale e ortodossa  e il suo afflato religioso, quello che le permetteva di scrivere della liturgia, dell’uso dell’incenso e di scambiare epistolari con il vescovo ribelle ( uno dei ) Lefebvre.“Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi” ( C. Campo “Gli imperdonabili” Adelphi)

Ciò che colpisce è, in ogni caso, la sua scrittura che a tratti presenta un uso magistrale della lingua: “Alcuni libri operano su questa nostra esistenza – che per aggirarsi in qualche modo intorno alla poesia così spesso e così a torto vuole apparirci verità – il più salutare dei miracoli.” ( Sotto falso nome, Adelphi1 998) limpida, lieve e profonda allo stesso tempo “Forse nessuno è compiutamente se stesso finché non scopra il luogo che da sempre lo aspetta, lo rispecchia, in qualche modo lo integra.” una lievità che diventa colore e figura “Dalle grandi cappelle gentilizie che si aprivano ai due lati dei porticati, negli immensi passaggi coperti, dall’uno all’altro chiostro, dall’una all’altra ala, imploranti mani di marmo si tendevano dai monumenti sepolcrali su cui ghirlande ancora si spogliavano, fiori ancora morivano” la capacità di tratteggiare in poche righe un’impressione, una suggestione con parole cesellate ” Ho trascorso a Roma una settimana molto bella: le strade come grandi tapis-roulant d’oro azzurro e la notte una pioggia purpurea sulle selci nere delle piazze.”  (Un ramo già fiorito, Marsilio 2010) La Guerrini come autrice è insondabile, sfuggente, non etichettabile anche perché in vita costruì, intorno alla sua opera e alla sua figura, delle cortine di velatura dietro cui si celava con pseudonimi, con un’attività culturale divergente, in apparenza marginale rispetto ai canoni correnti, ( risvolti di copertina, articoli, commenti, recensioni ) e attraverso  una scrittura semi aforistica, i suoi paratesti,  come scrive Monica Farnetti: “Nella bibliografia di Cristina Campo ci si muove come nella più fitta oscurità.”

Eppure da questa semi oscurità scintillano brani di una limpida semplicità, l’autrice li avrebbe definiti dardi verso il cielo. “E’ certo che se l’uomo conoscesse la sterminata potenza della sua anima quando un costante movimento verticale l’assicuri come un canapo a Dio, persino un mondo qual è il nostro cesserebbe di atterrirlo e, beninteso, di affascinarlo.” La Guerrini verso i primi anni ’60, successivamente al sodalizio con Zolla, si avvicinò alla mistica cristiana di matrice orientale bizantina, in fine sembra prendere per mano Simone Weil lì dove la pensatrice francese si arrestò, l’attesa di Dio. “Simone mi rende tangibile tutto ciò che non oso credere” scrisse la Campo, in riferimento alla Weil, nel 1956.

Se il cammino della Weil si interruppe al cospetto di Dio e quello della Campo giunse alla contemplazione mistica, invece quello della Zambrano, ultima componente di questo trio femminile,  condusse alla ragione poetica quel “pensare (che)  è propriamente strappare qualcosa dalle viscere della realtà”. Il sapere del cuore che tende al ricongiungimento tra l’uomo ed il mondo, che si fronteggiano in aspro conflitto, tra il sapere d’amore e il sapere di distruzione che caratterizza il presente, una conoscenza che attenua il dissidio tra pensiero e realtà.

Maria Zambrano, filosofa spagnola, antifranchista esule nata nel 1909 introduce nel pensiero europeo post bellico una prospettiva umanistica rinnovata, o meglio un recupero umano etico ed esistenziale che passa attraverso un pensare poetico e quindi la riscoperta delle dimensioni che la tradizione occidentale ha abbandonato come  la mistica, la spiritualità e l’essere nel mondo dell’uomo, che si intrecciano inesorabilmente. Nel 1939 Zambrano si rifugia in Messico dove continua l’attività universitaria  e sarà nominata Professore di filosofia presso l’Università di Morelia. Nel 1940 si trasferisce a L’Avana, nel 1946 torna a Parigi in seguito alla morte della madre e lì si stabilisce per due anni vivendo con la sorella. Dopo un primo breve soggiorno a Roma nel 1949 torna a L’Avana nel 1949 e, nel 1953, decide di ripartire per Roma, dove vivrà fino al 1964. A Roma la Zambrano entra in contatto con Cristina Campo ed Elémire Zolla.

Come scrive Marta Latini : “L’itinerario teorico seguito da María Zambrano, una delle voci più significative della filosofia contemporanea, è intimamente legato alla ferma consapevolezza che solo un incontro fra filosofia e poesia, fra verità logico-deduttive della ragione e verità intuitive del «cuore», possa condurre ad una nuova forma di sapere che sia in grado di cogliere la totalità della realtà e l’uomo nella sua interezza. Uomo e realtà, infatti, possono essere integralmente salvaguardati solo da un sapere che riesca ad esplorare anche quel «logos che scorre nelle viscere», secondo un’espressione della protagonista del nostro discorso, che, viceversa, la tradizione filosofica ha per lo più ignorato.” ( La filosofia come cammino di vita in María Zambrano, Dialeghestai 2003)

Adele Ricciotti (a cui devo il titolo dell’articolo) così descrive la vicinanza tra la filosofa e Vittoria Guerrini: “Nonostante certe evidenti differenze riscontrabili nelle loro vite, Cristina Campo e María Zambrano sono accomunate dall’indomabile ritrosia nei confronti del dogma, specialmente quello intellettuale, e da un atteggiamento infinitamente paziente con cui sopportano l’aspro ambiente culturale che le circonda e che tentano di rifuggire tramite la propria devozione al dato trascendente. La solitudine, in particolare, quasi inevitabile per via delle rispettive vicende esistenziali, sarà accolta come una dimensione speciale in cui ritirarsi per dedicarsi al proprio pensiero. In particolare Zambrano, mai dimentica della tragedia dell’esilio che le è toccato in sorte, trasformerà il proprio pellegrinare in una categoria metafisica, elevando la figura dell’esiliato a “occhio privilegiato” che guarda la storia da un punto di vista “puro”, in grado di decifrare la verità sommersa raggiungendo lo stadio della creaturalità.” ( A. Ricciotti. “Maria Zambrano e Cristina Campo: amicizia e destino”.)

Nel numero di ottobre/dicembre 1977 la rivista fondata da Elemire Zolla nel 1969, Conoscenza Religiosa  – edita dalla gloriosa La Nuova Italia di Codignola –  Maria Zambrano pubblica il frammento La fiamma, che ripubblicherà nell’opera postuma De la Aurora con la dedica “A Vittoria-Cristina, in memoriam”.

“Quando lo sguardo è assorto nella fiamma, la vede crescere in un doppio senso, in se stessa prima, e poi oltre se stessa, fino a risolversi in un punto lieve, luminoso e ardente: qualcosa come l’atomo visibile dell’ardere che si impone come la sua parte più incisiva, qualcosa che potrebbe penetrare l’impenetrabile e scivolare tra gli spazi interatomici che si negano ai nostri occhi. Solo sorprendere questa penetrazione della fiamma potrebbe aprirci gli occhi, ostinati nel vedere soltanto ciò che ci si manifesta apertamente.”

Due filosofe misconosciute e una scrittrice enigmatica.Ribelli al mondo, fedeli a Dio e al logos.

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