Filosofia

Il Cavaliere di Dürer.

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Il potere delle immagini è tale da creare suggestioni fortissime, tanto da impressionare, ammaliare, disgustare o allibire, stupire e legare nel tempo.

E’ il caso dell’incisione a bulino su lastra di rame  del 1513 di Albrecht Dürer, artista che fu a lungo anche a Venezia,   il famoso Cavaliere o come comunemente viene definita “Il cavaliere, la morte il diavolo” di cui , tra le migliori copie esistenti, una si trova al Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe in Germania.  L’incisione è parte del trittico detto Meisterstiche, con il San Girolamo nella cella e la celeberrima Melencolia I, tutti del 1513. In basso a sinistra dell’opera si trova una tabella con il monogramma dell’artista e la data di creazione.

L’insieme dell’opera non colpisce tanto per l’armonia dell’insieme o per l’eccellenza del segno quanto piuttosto per il senso di inquietudine e mistero che evoca, nei tratti disadorni e semplici di Dürer.  Questa famosa rappresentazione presenta tre personaggi principali: centrale e protagonista è la figura del cavaliere in armatura ed elmo a cavallo in primo piano, egli occupa la maggior parte dell’opera; molto vicina a lui segue quella figura mostruosa che è stata interpretata unanimemente come la Morte, con una clessidra in mano a significare la scadenza temporale della vita, figura che cavalca quello che, al confronto con il destriero del cavaliere, appare un ronzino; ed infine quell’essere che sembra  un Diavolo dalle sembianze animalesche, armato di picca che pare come in agguato in un anfratto lungo sentiero.

La scena rappresentata si potrebbe interpretare in vari modi: il Cavaliere prosegue ignorando ciò che lo circonda pur consapevole di avere come compagni di strada la Morte e il Diavolo, il cane potrebbe rappresentare  la fede religiosa che guida il cavaliere . Il Cavaliere sembra diretto nella cittadella che vediamo in alto al centro dell’opera, oppure potrebbe essersi messo in viaggio e quindi averla appena lasciata. Il terreno è aspro, appaiono un teschio ed un rettile tra le zampe del cavallo ed il cane, appunto, che corre con le orecchie basse e sotto la pancia del cavallo stesso. Le rocce che fanno da sfondo sono coperte da radi e secchi arbusti, è un paesaggio desolato, incolto, inospitale, arido.

Nel corso dei secoli questa figura di Cavaliere ha rappresentato la forza morale dell’uomo saggio  che, come gli antichi cavalieri, aspira a realizzare l’ideale di se stesso, percorrendo questo mondo ricco solo di miseria, povertà, disperazione e morte,  affrontandone i rischi e i pericoli e, vincendoli, acquista forza e consapevolezza.

Come scrive Claudio Bonvecchio “l’opera ha avuto (ed ha tuttora) uno straordinario potere evocativo ed esortativo, oggettivando quella tensione morale in cui – soprattutto nel mondo germanico – religiosità, umanesimo, forza morale, antica Cavalleria, fermenti esoterici e spirituali si univano insieme.”

E’ una figura che ha molto ispirato artisti e filosofi del ‘900, ad esempio Nietzsche, Rensi e Husserl, forse anche per una certa suggestione nordico medievale che permeò la cultura europea dei primi anni di quel secolo con influenze nefaste e tragici destini. Nietzsche ne parla ne La nascita della tragedia:  l’opera di Dürer fu il regalo del Natale 1870 del filosofo a Wagner che desiderava moltissimo questa incisione, scrisse a un’amica : «Un patrizio di qui mi ha fatto un regalo importante, una stampa di Dürer originale; è raro che una rappresentazione figurata mi dia piacere, ma questa immagine, Il cavaliere, la morte e il diavolo, mi tocca, non so nemmeno dire come». Ne scrisse anche in una lettera, paragonando il cavaliere a Schopenhauer il suo filosofo preferito: ” Al riguardo un solitario sconsolato non potrebbe scegliersi un simbolo migliore del cavaliere con la morte e il diavolo, come lo ha disegnato Dürer, il cavaliere con l’armatura, dallo sguardo di bronzo, duro, che sa prendere il suo cammino terribile, imperturbato dai suoi orrendi compagni, e tuttavia privo di speranza, solo col destriero e il cane.” Giuseppe Rensi, che nel 1938 chiede ad un amico di cercare copia della stampa a Venezia, nei pressi di  Rialto, cita il rame di  Dürer in “La filosofia dell’assurdo” del 1937 riedizione del testo “Interiora rerum” del 1924: “A me piace vedere, quando sollevo gli occhi dal mio tavolo di lavoro, accanto alla stampa di Salvator Rosa, in cui, sotto alberi desolati, contorti e tronchi, presso antiche colonne infrante e marmi cadenti e tra ossami d’animali e d’uomini, «Democritus omnium derisor in omnium fine defigitur», la riproduzione del rame di Dürer, in cui il maturo cavaliere procede, severo, rassegnato, impassibile, tra la morte e il demonio.” Edmund Husserl che pare ne tenesse una copia nel suo studio e ne parla nel 1906 come immagine che lo conforta in un momento di difficoltà: “Devo andare per la mia strada così sicuro così fermamente deciso e così serio come il Cavaliere di Durer malgrado la morte e il diavolo.” L’influenza dell’icona düreriana è di grande persistenza storica e giungerà sino ai nostri giorni, l’opera, fu, infatti, ispiratrice anche di opere cinematografiche quali Il Settimo Sigillo, del 1956, di Ingmar Bergman, bianco e nero interpretato da Max von Sidow.

Metafora per metafora possiamo affermare che oggi l’uomo è tutt’altro che un Cavaliere corazzato come quello del Durer, non usa  più il cavallo, certo, ma il paesaggio che può essere il suo orizzonte prossimo, venturo o che si trova ad attraversare e che lo circonda,  appare ancora, e più di allora, desolato e arido. E per questa desolazione forse non abbiamo ancora un linguaggio appropriato, un gergo, un lessico. Ricostruire un linguaggio aderente alle cose è oggi una delle frontiere filosofiche più urgenti. Abbiamo un vocabolario vecchio, desueto, inutilizzabile.

Se un compito può darsi oggi per il filosofo pratico potrebbe essere quello che suggerisce Carlo Sini:  “ La filosofia – per vedere le cose con sguardo puro – deve evitare di cadere in due tentazioni: l’oblio del linguaggio (la morte) e la sopravvalutazione delle parole (il diavolo).  (…) ciascuno di noi è parlato dal linguaggio, vero e proprio pacemaker del pensiero. Quel che manca è la consapevolezza che parole e cose sono inscritte insieme nella storia. Non tutto può esser detto in ogni tempo. Dobbiamo recuperare la storia, quella di tutti  nella consapevolezza che abbiamo un rapporto vivente coi segni del passato. La cosa cammina con la parola. Le parole fan transitare le cose sin dove possono, poi nasce l’esigenza di creare parole nuove, perché queste non bastano mai”

In fondo ciò che stride di questa immagine è la solitudine del Cavaliere, che conduce alla riflessione che ricorda la “condizione umana”  quell’intersoggettività di cui tratta Arendt: “La terra è la vera quintessenza della condizione umana, e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un “habitat” in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio.”

O,  come scrisse Thomas S. Eliot in “The Waste Land”:

“Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz’acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare”

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Filosofia

Hanna Arendt, Socrate.

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Hannah Arendt  è nota ai più come cronista e autrice de “La banalità del male” titolo dei resoconti del processo  Heichmann in Israele per conto del New Yorker nel 1962, (poi raccolti nel volume omonimo),  nonché come autrice dell’opera “Le origini del totalitarismo” in cui tracciò le radici dello stalinismo e del nazismo nel 1951. Hanna Arendt fu in realtà filosofa per vocazione  e pare anzi che preferisse definirsi una teorica di filosofia politica. In “Vita activa”, la sua opera filosofica più importante che pubblicò nel 1958, troviamo le sue principali riflessioni tra filosofia e politica, riflessioni incardinate sulla ridefinizione della condizione umana che Arendt vede come la condizione della pluralità che costituisce il presupposto e al tempo stesso il senso dell’agire, la realizzazione dell’identità umana. Come scrive Dal Lago nell’introduzione a “Vita activa” per l’edizione italiana Bompiani: “Hannah Arendt è interessata invece a una definizione della condizione umana in opposizione sia al primato scientifico e cognitivo dell’antropologia, sia al primato del pensiero su cui insistono Husserl e Heidegger. In breve, vuole cercare una diversa definizione dell’identità umana («”chi” è l’uomo?») e la trova nella “rivalutazione dell’agire”.

La Arendt si laureò con Karl Jaspers e precedentemente fu in relazione con Heidegger negli anni ’20 del ‘900, prima di espatriare negli Stati Uniti,  e fu autrice controversa  e difficilmente inquadrabile, se è vero, come scrive sempre Dal Lago, che “Le opere di Hannah Arendt conosciute in Europa all’inizio degli anni Sessanta erano circondate da un alone di sospetto ideologico e politico. Per alcuni era una transfuga dell’ebraismo, per altri una tipica esponente della sinistra europea trapiantata negli Stati Uniti e convertita all’americanismo, per altri ancora una scrittrice di destra.”

E lo conferma anche Maragarethe Von Trotta regista, intervistata a proposito del suo film del 2013 uscito in Italia nel 2014: “Hanna Arendt”. “Ricordo di come la mia generazione, durante il ’68, non osasse criticare il comunismo, e di come invece la Arendt, nei suoi discorsi sul totalitarismo, poneva allo stesso livello il regime nazista con quello stalinista.”

In “Vita activa” commentava ampiamente Platone e inevitabilmente il riferimento era Socrate,  i riferimenti socratici in quel testo infatti non mancavano ed un lettore attento li avrebbe colti facilmente anche se collegati al pensiero platonico dal quale, per buona parte della critica allora, era difficile disgiungerli.

Oggi possiamo inquadrare gli studi del quel periodo in una luce più chiara con la pubblicazione di questo agile testo di Raffaello Cortina Editore, “Socrate” un saggio che compare per la prima volta in traduzione italiana e che in origine fu la terza e ultima parte di un corso tenuto presso la Notre Dame University nel 1954 dal titolo “ Philosophy and politics: The problem of action  thought after the French revolution”.

Il testo si apre con Il processo di Socrate e la replica di Platone, in cui Arendt delinea immediatamente l’essenziale: “L’abisso tra filosofia e politica si apre storicamente con il processo e la condanna di Socrate” e così ha inizio la riflessione politica della tradizione occidentale. L’incapacità di Socrate di persuadere i giudici della sua innocenza porta Platone al disprezzo della doxa l’opinione  e a ipotizzare una realtà metafisica capace di garantire la verità ideale a cui fare riferimento. E’ così che si caratterizza il rapporto tra il filosofi e la città, Socrate mostra che la polis non è un luogo sicuro per i sapienti, i quali anche per Platone non sanno cosa sia bene per loro stessi, ricordando Talete che cade nel pozzo tutto preso a fissare il cielo. Platone, per Arendt , andò ben oltre nel tentativo di “vendicare” il maestro, rivendicò proprio per i filosofi il ruolo di governanti della polis, cosa che nell’Atene antica era piuttosto inedita in quanto si riteneva che i sophos, i sapienti fossero atti esclusivamente a questioni estranee alla vita della polis. E Aristotele concorda pienamente con questa opinione quando afferma: «Anassagora e Talete erano sapienti ma non saggi. Non si interessavano di ciò che è bene per gli uomini — gli anthropina agatha ».  Platone si considera erede e figlio di Socrate e ne intende interpretare proprio il pensiero politico “ la tragedia del conflitto tra il  filosofo e la polis sta tutto in un fraintendimento: la polis non aveva compreso che Socrate non pretendeva affatto di essere un sophos, un sapiente, in quanto dubitava che la sapienza fosse alla portata dei mortali”. Socrate per Arendt, proprio per la sua pretesa di non essere un sapiente, rivendicava un ruolo nuovo e diverso per il filosofo. La verità viene intesa da Platone come l’esatto opposto dell’opinione comune e il discorso, la sua forma filosofica, il dialeghesthai, è l’opposto della persuasione retorica, utile a convincere la moltitudine, mentre il dialogo si traduce in dialettica tra due controparti.

Nella seconda parte dello scritto La posizione di Socrate, Arendt analizza le motivazioni  del dialogo socratico come non necessariamente legate al disprezzo della doxa quanto piuttosto al suo miglioramento, a cui si ricollega il tema dell’arte maieutica socratica, “rendere i cittadini più veritieri”. Socrate, spiega Arendt, cercò di fare degli ateniesi degli amici ed è questo tema che Aristotele – che per l’autrice si rifarà sempre a Socrate nella sua riflessione politica soprattutto nell’Etica Nicomachea – riprende quando parla di isasthenai il rendere uguali, portare a livello di uguaglianza, equiparare, che intende come dinamica atta a formare la comunità, l’essere in comune. A questo, secondo al Arendt, pensava Socrate quando riteneva che ciò che è comune fosse favorito da una relazione tra amici e a questo si ricollegano due massime socratiche, delle quali la prima è forse una delle più conosciute “Conosci te stesso”  mentre la seconda è tra le meno citate, tratta dal Teeteto, “è meglio essere in disaccordo con molti piuttosto che essere in disaccordo con me stesso” ma per l’autrice è quella più importante.

La scoperta del due in uno. In questa parte del testo la Arendt introduce la sua tesi più innovativa e forse più controversa: quella del “due in uno”.  Secondo Socrate infatti il principio guida per l’uomo veritiero è essere d’accordo con se stesso, non contraddirsi e ciò deriva dal fatto che ognuno di noi essendo uno può parlare con se stesso come se fosse due. “E’ perché io sono due-in-uno – per lo meno, lo sono quando cerco di pensare – che Aristotele definisce l’amico un altro se stesso ( heteros gar autos ho hilos estin). (…) essendo uno io non mi contraddirò e al tempo stesso potrò contraddirmi, poiché io sono due- in -uno e quindi non vivo soltanto con gli altri, per i quali sono uno, ma anche con me stesso”  E’ prima in se stesso che l’uomo trova il principio di validazione del se e della propria doxa, che quindi non ha motivo di essere validata da entità metafisiche, sembra indicare Arendt che sottolinea che l’etica nasce qui non meno della logica. Arendt afferma che se è vero che l’identità dell’uomo greco era già tutta compresa nel logos che è discorso e pensiero, Socrate vi aggiunge un quid essenziale, il dialogo tra me e me, come condizione essenziale del pensiero, ( che la psicanalisi facilmente chiamerebbe schizofrenia) e scoperta di massima rilevanza politica “condizione necessaria al buon funzionamento della polis”. Questa la fondamentale scoperta di Socrate, “essendo uno io non mi contraddirò, poiché nel pensiero io sono due-in-uno e quindi non vivo soltanto con gli altri, per i quali sono uno, ma anche con me stesso. (…) Il filosofo che si rifugia nella solitudine assoluta, cercando di sfuggire alla condizione umana di pluralità, viene consegnato più radicalmente più di chiunque altro a questa pluralità insita in ogni essere umano.”

La sconfitta di Socrate. Questa concezione socratica fu dirompente e la Arendt la indica chiaramente come il punto di rottura con la polis. Da una parte perché la città ha le sue leggi che non possono tenere conto della coscienza individuale dei singoli cittadini, dall’altra perché la doxa non può essere messa sotto esame se non entro certi limiti pena la sua distruzione, che è insopportabile per la moltitudine. “Detto altrimenti il conflitto tra la filosofia e la politica, tra il filosofo e la polis esplose dopo che Socrate più che svolgere un ruolo politico aveva voluto rendere la filosofia rilevante per la polis” e questo determinò la separazione tra pensiero e azione e di conseguenza la divisione in phronesis e aletheia, saggezza pratica e teoretica, conflitto del filosofo e sua scissione interiore. E qui ritorna Platone con la sua precisa scelta di rivolgersi all’episteme come forma ideale e il suo rapporto con la politica che nel mito della caverna trova una forma raffigurativa, di cui Arendt offre un’esemplare spiegazione e due domande inevase: perché il filosofo e cosa lo rende incapace di exemplum per gli altri uomini in caverna. Arendt  deduce dall’immagine della caverna l’originaria matrice filosofica: la meraviglia, “che l’uomo patisce, o che lo colpisce, non può tradursi in parole perché è troppo smisurata per le parole”.

E’ quindi con la riflessione sulla meraviglia, thaumazein che Arendt chiude questo scritto: “ La filosofia, la filosofia politica come ogni altro ramo della filosofia, non potrà mai negare di avere origine nel thaumazein, per la meraviglia per ciò che è così com’è. I filosofi, se vorranno arrivare ad una nuova filosofia politica, sfidando il loro necessario straniamento dalla vita quotidiana, dovranno però assumere come oggetto del  thaumazein la pluralità degli uomini, dalla quale sorge, nella sua grandezza nella sua miseria, l’intera sfera degli affari umani.” E chiude con una sorprendente ( perché inedita in questo testo) citazione biblica, sull’accettazione del miracolo dell’universo, dell’uomo e dell’essere, della creazione dell’uomo,  maschio e femmina e sul “non è bene per l’uomo essere solo.”

Chiudono questo breve e denso testo due saggi critici di Adriana Caravero docente di filosofia politica all’Università degli studi di Verona e  Visiting Professor presso la New York University, e di Simona Forti ordinario di Storia della filosofia politica presso l’Università del Piemonte Orientale. Il primo ripercorre all’interno del pensiero della Arendt  la riflessione su Socrate, le differenze originarie rispetto allo sviluppo platonico e anche le possibili critiche all’impostazione del due-in-uno come matrice ontologica della pluralità, tema centrale e spunto originale del testo; e invita a “Ripensare l’umanità, contro Platone in compagnia di Socrate (…) per liberarsi dalla perniciosità delle categorie metafisiche, e , esponendosi alla realtà per darne conto, ricominciare”.

Il secondo saggio, di Simona Forti, apre una prospettiva filosofica che meriterebbe una trattazione a parte infatti individua una linea di coerenza tra il tema socratico del daimon e della parresia e la riflessione di  Michel Foucault e Jan Patočka –  due pensatori del ‘900 che a fondo indagarono il pensiero socratico –  entrambi infatti videro nella cura di sé la praxis di interrogazione che innesca il processo del pensiero e che conduce  in vista di un’etica immanente, una soggettività nuova, capace di imprimere un ethos al bios. Patočka individuò nel pensiero socratico tre caratteristiche dell’anima: l’anima è coraggiosa, disciplinata e giusta. “Essa conferisce a se stessa uno stile proprio, nella consapevolezza che la vita ordinaria, quotidiana, della città segue solitamente il criterio della doxa.”(J. Patočka, Socrate 1999 )

Questo saggio in particolare offre un interessante spunto di riflessione anche all’esercizio della filosofia che oggi si concretizza nelle diverse pratiche filosofiche, penso alla Consulenza filosofica, ai Caffè e ai Laboratori, soprattutto quando afferma: “Ritornare a Socrate è una scelta filosofica inattuale e per questo coraggiosa, che mira a riappropriarsi delle parole di cui la metafisica si è servita per ridefinirne radicalmente il significato. (…) Il daimon socratico è il nome per poter dire ciò che nel soggetto oppone costantemente una resistenza,  (…) è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere ad un altro potere.”

Hannah Arendt, Socrate, a cura di Ilaria Possenti, con saggi critici di Adriana Caravero e Simona Forti. Raffaello Cortina Editore , collana Minima, 2015.

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